mercoledì 23 dicembre 2015

Da Adamo a Cristo, negli inni di Sant’Efrem il Siro
Questa è la notte in cui veglia l’intera creazione
          Le diverse tradizioni liturgiche cristiane, di Oriente e di Occidente, nella domenica o nei giorni che precedono immediatamente la celebrazione della nascita del Figlio di Dio, leggono come pericope evangelica la Genealogia di Cristo secondo il vangelo di Matteo. Efrem il Siro nel primo dei suoi 28 inni sul Natale, una vera e propria lectio divina del primo capitolo di Matteo. Si tratta di un inno assai lungo, novantanove strofe, nelle quali Efrem mette in scena dei personaggi e dei fatti veterotestamentari per arrivare all’ultima delle strofe in cui canta l’incarnazione del Verbo di Dio. Il carattere cristologico di tutto l’inno viene scandito anche dal versetto ritornello cantato tra una e l’altra delle strofe: “Gloria a te, Figlio del nostro Creatore”. Un primo gruppo di strofe, da 1 a 11, propone la figura dei diversi profeti che hanno annunciato l’incarnazione e la nascita del Figlio di Dio: Isaia, Michea, Giacobbe, Davide, diventano per Efrem l’inizio della lunga serie di personaggi e di fatti veterotestamentari che portano a Cristo; in qualche modo Efrem mette per primi della lunga schiera che guarda a Cristo coloro che già nell’Antico Testamento furono ispirati dallo Spirito per annunciarlo nella profezia: “Questo giorno ha fatto gioire, Signore, i re, i sacerdoti e i profeti, perché in esso si compirono le loro parole… La vergine infatti ha oggi partorito l’Emmanuele a Betlemme. La parola proferita da Isaia oggi è divenuta realtà… Oggi è nato un bimbo, il suo nome è Meraviglia. È proprio una meraviglia di Dio che si sia manifestato come un infante”. Quindi lungo quasi una cinquantina di strofe, dalla 12 alla 60, Efrem snoda il canto a una serie di figure e di fatti presi dall’antica alleanza che sono la prefigurazione, il tipo di Cristo; ed il poeta lo fa mettendo in parallelo il fatto avvenuto nel libro biblico da una parte con l’«oggi» che fa presente la salvezza che si adempie in Cristo stesso: “Adamo aveva posto la corruzione sulla donna uscita da lui. Oggi ella ha sciolto la sua corruzione partorendogli il Salvatore… Una terra vergine aveva partorito Adamo, capo della terra. Oggi una vergine ha partorito l’Adamo capo del cielo…”. Efrem quasi senza soluzione di continuità collega i personaggi biblici, specialmente presi dalla Genesi, con l’opera salvifica di Cristo, di cui essi sono la vera prefigurazione: “Set, preso il posto di Abele, guardava verso il Figlio ucciso, che mediante la propria uccisione spuntò la spada introdotta nella creazione… I due fratelli che coprirono Noè guardavano verso l’unigenito di Dio, che sarebbe venuto a coprire la nudità di Adamo…”. E nel suo percorso attraverso le figure bibliche, nel suo mettere in parallelo antica e nuova alleanza, Efrem riporta Mosè ed Elia alla scena della Trasfigurazione di Cristo: “Mosè ed Elia videro il Figlio. Il mite ascese dalle profondità, e lo zelota scese dall’alto: videro il Figlio nel mezzo. Essi furono simbolo della sua venuta. Mosè fu tipo dei morti ed Elia tipo dei vivi, che voleranno incontro a lui nella sua venuta”. L’inno di Efrem, quasi in un avanti indietro, dopo Elia ritorna ad Adamo ed Eva e ai primi capitoli della Genesi, per riproporne una lettura chiaramente cristologica ed ecclesiologica: Adamo cacciato e riportato nel paradiso; l’arca di Noè tipo della Chiesa: “Adamo attese lui, poiché è lui il Signore del cherubino, e solo lui avrebbe potuto farlo entrare e abitare sotto i rami dell’albero della vita… Anche l’arca degli animali, il suo tipo guardava verso il nostro Signore, che avrebbe costruito la santa Chiesa nella quale trovano rifugio le anime.”. Efrem sottolinea come è lo Spirito Santo a illuminare la lunga schiera di figure bibliche affinché loro guardino verso il Cristo che viene: “È lo Spirito Santo che in loro, quietamente contemplando per loro, li spingeva a vedere, grazie a lui, il Salvatore che essi bramavano”.
          Dalle strofe 61 alla 81, Efrem introduce nell’inno il tema della veglia che dovrebbe segnare la vita dei cristiani in attesa del Salvatore, che è il vero vigilante, che non dorme mai. Efrem svilupperà delle immagini veramente belle in cui mette in parallelo il fatto dell’attesa, della veglia, con coloro e Colui che sono i veri vigilanti: Cristo è il vero vegliante sui cristiani, sulla Chiesa; gli angeli, i pastori, i monaci, tuti i cristiani sono coloro che nella veglia attendono “il vero vegliante”: “I vigilanti oggi sono nella gioia, poiché è venuto il Vigilante a svegliarci. Chi dormirà in questa notte nella quale veglia l’intera creazione? Adamo introdusse nella creazione il sonno della morte mediante il peccato… è sceso oggi il Vigilante a svegliarci dal torpore del peccato”. Efrem nell’ultima serie di strofe presenta tutta una serie di virtù proprie del cristiano, in una lunga lista introdotta di nuovo dalla parola «oggi»: “Oggi Maria nasconde in noi i lievito di Abramo. Amiamo anche noi i poveri come lui li amò… Oggi cade in noi il fermento di Davide, il clemente. Ciascuno sia misericordioso come lui lo fu verso Saul…”. E quindi lungo le dieci ultime strofe dell’inno, Efrem in questo «oggi» della nascita del Figlio di Dio incarnato dipinge la vita nuova che ne sgorga: “Oggi… non ci sia né buio, né ira, né orgoglio… ma rediamo partecipi i poveri dei propri beni… Oggi è impressa la divinità nell’umanità, affinché anche l’umanità fosse intagliata nel sigillo dell’a divinità”.


venerdì 11 dicembre 2015



(Manifestazione dell'angelo nel sogno a Giuseppe. Evangeliario siriaco, XIII secolo.)
I vigilanti oggi sono nella gioia,
poiché è venuto il Vigilante a svegliarci.
Chi dormirà in questa notte
nella quale veglia l’intera creazione?
 (Efrem il Siro. Inno I sulla Natività)

Vi auguro a tutti un Santo Natale.

Arch. P. Manuel Nin osb, Rettore
Pontificio Collegio Greco
Roma, Natale 2015





       La Parola di Dio in questi giorni ci prepara come una pedagoga alla manifestazione del mistero della nostra fede: l’Incarnazione del Verbo eterno di Dio. E come avviene questa pedagogia? Lasciamo riecheggiare nel nostro cuore tre pericope che scandiscono la liturgia di questi giorni. Nella Domenica degli Antenati, ascoltiamo la genealogia di Matteo, quella lunga lista di nomi, forse conosciuti ed importanti in se stessi? Sicuramente importanti per Colui a cui essi guardavano, per Colui verso cui andavano e ci portavano: Gesù Cristo. Nel vespro del giorno di Natale ascoltiamo la pericope di Luca, l’annuncio della nascita nella povertà, nella piccolezza, del Verbo di Dio, quella povertà della grotta, del bimbo neonato, fragile, messo in una mangiatoia. E l’annuncio ai pastori, a gente anch’essa povera, magari neanche proprietaria del proprio gregge, ma gente che sa ascoltare, che è capace ancora di meraviglia, che sa accogliere, che sa correre… verso dove? Verso che cosa? Verso chi? Verso un bambino neonato, povero fragile. Infine la terza pericope: quella di Matteo ascoltata nella Divina Liturgia del giorno 25: i magi, gente lontana, ma che pure sa accorgersi ed accogliere un segno, e sa cercare… cercare che cosa? Cercare chi? Seguire nella fiducia un segno che gli porterà non ad una grande teofania, non ad un grande prodigio, ma ad un bambino neonato. O se volete sì ad una grande teofania, sì ad un grande prodigio: il nostro Dio che si manifesta nella povertà di una stalla, nella piccolezza di un neonato. Gli antenati, i pastori, i magi… sono i testimoni di questo grande prodigio. Sono per noi modelli di speranza, di fiducia, di un cuore capace di sperare, di ascoltare, di adorare.

        P. Manuel Nin


mercoledì 18 novembre 2015

21 novembre, festa dell’Ingresso della Madre di Dio nel Tempio.
Oggi il Creatore si annienta davanti alla creatura annientata.
          Il 21 di novembre, nei calendari delle Chiese cristiane, si celebra la festa dell’Ingresso della Madre di Dio nel Tempio. Nella tradizione bizantina, questa celebrazione ha un giorno di pre festa, in cui i testi liturgici annunciano quello che sarà uno dei punti costanti nella celebrazione festiva: la gioia del cielo, della creazione tutta, degli angeli e degli uomini per il mistero che Dio adopera in e per mezzo della Madre di Dio. La festa quindi si prolunga fino al giorno 25. Vorrei soffermarmi nella lettura dei tropari del giorno prefestivo, attribuiti molti di essi all’innografo bizantino Giorgio di Nicomedia (+860). Questi testi mettono in evidenza già quello che diventerà il tema centrale della festa: Maria introdotta nel tempio di Dio diventa per l’incarnazione del Verbo, lei stessa tempio di Dio. Inoltre Maria vergine nel suo ingresso nel tempio è accompagnata da un coro di vergini; e troviamo qua nei testi liturgici un riferimento a Mt 25 nella pericope delle dieci vergini in attesa dello Sposo alla porta del Regno. E in alcune icone della festa addirittura vengono dipinte non cinque ma diverse addirittura le dieci vergini con le lampade accese: “Vergini recanti lampade, facendo lietamente strada alla sempre Vergine, realmente profe­tizzano in spirito ciò che avverrà: la Madre di Dio, che è tempio di Dio, con gloria verginale è introdotta nel tempio, ancora bam­bina”. Alcuni dei testi liturgici si servono di immagini e simboli che in Maria diventano realtà vera e propria: “Nutrita fedelmente con pane celeste, o Vergine, nel tem­pio del Signore, tu hai generato al mondo il Verbo, pane di vita: come suo tempio eletto e tutto imma­colato, fosti mi­sti­camente fidanzata allo Spirito, spo­sata a Dio Padre”. Maria nutrita dall’angelo col pane celeste che genera il pane della vita. Alcune delle icone raffigurano Maria ricevuta nel tempio dal sacerdote Zaccaria collocato di fronte all’altare, quasi rafigurante il vescovo di fronte all’altare ricevendo nella celebrazione della Divina Liturgia i doni presentati per essere deposti sull’altare; quindi, sempre nell’icona, Maria seduta all’interno del santuario nutrita dall’angelo.
          I tropari del giorno prefestivo riprendono con insistenza il parallelo tra il tempio che accoglie Maria, ed essa stessa diventata a sua volta tempio di Dio: “Oggi è condotto al tempio del Signore il tempio che ac­coglie Dio, la Madre di Dio, e Zaccaria la riceve. Oggi il san­­to dei santi esulta, e il coro degli angeli è misticamente in­ festa; con loro anche noi oggi facciamo festa e insieme a Ga­briele acclamiamo: Gioisci, piena di grazia, il Signore è con te, lui che possiede la grande misericordia”. Nel mattutino uno dei tropari canta in una bella armonia tra teologia e poesia, il mistero della redenzione adoperata nell’Incarnazione del Verbo di Dio: “Il Creatore di tutte le cose, l’Artefice e Sovrano, pie­gan­dosi con ineffabile compassione, solo per il suo amore per gli uomini, ha avuto pietà di colui che con le sue mani aveva formato e che vedeva caduto, e si è compiaciuto di rialzarlo, riplasmandolo in modo più divino, con il proprio annientamento, perché per natura è buono e miseri­cordioso. Egli prende pertanto Maria, vergine e pura, come mediatrice del mistero, per assumere da lei, secondo il suo disegno, ciò che è nostro: essa è celeste dimora”. Di fronte all’uomo caduto nel peccato, il Creatore si piega, “cade”, si fa piccolo “pie­gan­dosi con ineffabile compassione”, per rialzare e ricreare l’opera delle sue mani. Potremmo dire che Dio “vede l’uomo caduto” e si annienta davanti all’uomo annientato. E Maria, nel mistero della redenzione, diventa la mediatrice, colei da chi il Verbo di Dio, incarnandosi, assume pienamente la natura umana, la rialza e la riporta alla sua primitiva bellezza nella gloria.
          L’ultimo dei tropari del mattutino del giorno prefestivo è un vero e proprio intreccio di tre testi veterotestamentari, salmo 44, Isaia 45 ed Ezechiele 44, che la tradizione patristica e liturgica delle diverse Chiese cristiane ha letto in chiave cristologica e quindi anche mariologica; si tratta di un tropario che mette in evidenza l’Incarnazione del Verbo di Dio e la verginità di Maria prefigurate ambedue nella porta orientale del tempio, e quindi Maria stessa diventata tempio di Dio nel tempio di Dio: “Esulti oggi il cielo in alto, e le nubi facciano piovere leti­zia sulle magnificenze oltremodo prodigiose del nostro Dio (Is 45). Ecco infatti: la porta che guarda a oriente (Ez 44), generata secon­do la promessa da una sterile senza frutto e consacrata come dimora di Dio, è condotta oggi al tempio quale obla­zione immacolata. Esulti Davide suonando la cetra: Sa­ran­no condotte al Re le vergini dietro a lei, egli dice, le sue com­pagne saranno condotte: dentro alla tenda di Dio (salmo 44), nel luogo del suo propiziatorio dovrà venir allevata per essere dimora, a salvezza delle anime nostre, di colui che prima dei secoli è stato immutabilmente generato dal Padre”. Le nubi che fanno piovere il Giusto e la terra che l’accoglie e genera il Salvatore; la porta chiusa del tempio di Dio guardante all’oriente e varcata soltanto da Dio; il corteo delle vergini che accompagnano Maria. Si tratta di un tropario prefestivo che ci introduce alla contemplazione del mistero che la festa del 21 novembre celebra: Maria diventata tempio nel tempio, ognuno dei cristiani alimentati dal pane della vita, diventati anche noi tempio del Signore. “Entra, o Signo­ra, nel tempio del Re; entra, tu la cui gloria si scorge nel nascondimento; tu, dalla quale fluirà per tutti, come latte e miele, il Cristo luce”.



mercoledì 28 ottobre 2015


Invito alla presentazione del libro
Uno sguardo orientale a Roma
Venerdì 6 novembre alle ore 18.00
Pontificio Collegio Greco



mercoledì 21 ottobre 2015

La celebrazione della liturgia di san Giacomo.
Gerusalemme, madre di tutte le Chiese.
La tradizione liturgica bizantina, oltre alle anafore di san Giovanni Crisostomo e di san Basilio Magno, conosce un’altra anafora attribuita a san Giacomo, fratello del Signore e primo vescovo di Gerusalemme e “fratello di Dio” come viene chiamato nei libri liturgici. Questa anafora, caduta quasi in disuso, viene adoperata nella celebrazione della Divina Liturgia il giorno 23 ottobre, festa liturgica di san Giacomo. A Roma, dalla fine degli anni ’60 del xx secolo, per iniziativa dell’allora rettore del Pontificio Collegio Greco archimandrita p. Olivier Raquez osb, questa anafora viene celebrata la domenica più vicina alla festa del 23 ottobre. Lo stesso p. Raquez ne curò una traduzione italiana ad uso dei fedeli. Questa tradizione viene tuttora mantenuta nella vita liturgica del suddetto Collegio Greco, nella sua chiesa di Sant’Atanasio dei Greci, celebrata quest’anno la prossima domenica 25 ottobre.
         Come accennato, ci troviamo con una liturgia che la tradizione bizantina ha lasciato cadere praticamente dal tutto, e che invece la tradizione siro occidentale usa molto spesso, assieme all’anafora dei Dodici Apostoli. Questa liturgia la troviamo in diverse versioni linguistiche ma specialmente sotto due versioni, quella siriaca e quella greca; sembra che il testo siriaco sia traduzione da un primo testo greco, più semplice ed arcaico dell’attuale; in ambedue versioni, l'attribuzione a San Giacomo, fratello del Signore, è unanime. Ce ne sono ancora altre versioni: armena, georgiana, etiopica, fatto che dimostra l’importanza che ebbe questo testo almeno durante il primo millennio. Si tratta di una anafora di origine gerosolimitana, con tanti riferimenti a dei personaggi veterotestamentari: Abele, Noè, Abramo, Zaccaria, ai luoghi santi, alla Gerusalemme celeste. Come datazione, si tratta di un testo elaborato in diversi momenti nell’arco che va dalla fine III secolo fino al VII. Teologicamente si tratta di un testo diverso da quello di san Giovanni Crisostomo e da quello di san Basilio. La struttura anche architettonica della celebrazione è un po diversa da quella normale nella tradizione bizantina, e si avvicina di più a quelle di tradizione siro-antiochena: davanti all’iconostasi viene situato il “bima” cioè lo spazio -nelle chiese siriache chiuso da un cancello-, dove su un ambone viene deposto l’evangeliario e su un tavolino chiamato “calvario” viene posta la croce; attorno al bima si collocano il sacerdote col diacono e i concelebranti e ivi si celebra tutta la liturgia della Parola. La liturgia eucaristica, poi, viene celebrata nel santuario. Lo schema della celebrazione è come segue: Preghiere iniziali, ingresso con l’evangeliario e canto dell’inno “O Unigenito”, grande litania diaconale, trisaghion (“Santo Dio, Sano Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”), letture (fatte dal bima). Quindi già dal santuario l’ingresso con i doni del pane e del vino col canto dell’inno “Ammutolisca ogni carne umana… il Signore dei Signori avanza per essere immolato…”, cantato anche il Sabato Santo nella liturgia di san Basilio; segue il credo, lo scambio della pace di Cristo, e quindi l’anafora, il Padrenostro, la comunione e il congedo. Vorrei sottolineare di questa struttura: l’avvio del piccolo ingresso subito all’inizio, senza le tre antifone della liturgia di san Giovanni Crisostomo, fatto che accomuna la nostra liturgia con le liturgie di tradizione siriaca. Nelle diverse litanie fatte dal diacono si aggiunge nell’ultima petizione oltre alla Madre di Dio anche Giovanni Battista, i profeti, gli apostoli, i martiri, e in una di esse anche Mosè, Aronne, Elia, Eliseo, Samuele, Davide, Daniele. E ancora lo scambio della pace di Cristo fatto dopo il credo.
L’anafora di san Giacomo viene centrata, come d’altronde anche le altre anafore cristiane, tra due grandi movimenti di lode a Dio, cioè all’inizio dell’anafora: “E’ veramente cosa buona e giusta, conveniente e doverosa, lodare inneggiare, adorare, glorificare e rendere grazie a Te, creatore delle cose visibili e invisibili...”,  e alla fine dell’anafora la conclusione del sacerdote: “Per la grazia, la misericordia e l’amore per gli uomini del tuo Cristo, con il quale sei benedetto e glorificato insieme con il santissimo buono e vivificante tuo Spirito...”. Cioè il movimento che va dall’opera creatrice di Dio alla sua opera di santificazione operata da Cristo per mezzo dello Spirito; dalla creazione, alla redenzione, alla santificazione. Giacomo non fa, come faranno altre anafore -Giovanni Crisostomo, Basilio- l’enumerazione di tutta una serie di attributi apofatici di Dio: invisibile, incomprensibile, incommensurabile.... Troviamo soltanto tre titoli: “Creatore di tutte le cose, Tesoro dei beni, Sorgente di vita e di immortalità”; invece l’autore a lungo tutte le schiere di coloro che sono chiamati a questa lode: i cieli, il sole, la luna, la terra, il mare... e ancora: la Gerusalemme celeste, la Chiesa dei primogeniti, i giusti, i profeti, i martiri, gli apostoli, cherubini, serafini... Non si fa l’enumerazione dei temi divini da lodare, ma si fa l’enumerazione di coloro che si uniscono alla lode di Dio. È tutta la chiesa che Giacomo attira alla lode di Dio. Prima della narrazione dell’istituzione dell’eucaristia e dell’epiclesi, Giacomo narra la storia della salvezza, adoperando tutta una serie di verbi: “hai avuto compassione... hai creato l’uomo... lui cadde... non lo hai disprezzato... non lo hai abbandonato... corretto, richiamato, guidato...”, e aggiunge: “…hai inviato nel mondo il tuo proprio Figlio unigenito, nostro Signore Gesù Cristo, perché egli con la sua venuta rinnovasse e risuscitasse la tua immagine”. L’autore mette in rilievo come la venuta di Cristo rinnova nell’uomo l’immagine di Dio; in questa frase ritroviamo la soteriologia dei Padri, da Ignazio di Antiochia a Ireneo, a Origene. Vorrei ancora sottolineare qualche punto dell’epiclesi di questa anafora: Il dono dello Spirito viene invocato sui fedeli e sui doni presentati: “Manda su di noi e su questi santi doni che ti presentiamo il tuo Spirito Santissimo, Signore e vivificante, consustanziale e che condivide l’eternità......”. Ancora l’epiclesi chiede come frutto della santificazione dello Spirito che i doni diventino Corpo e Sangue di Cristo e che la Chiesa sia santificata e rimanga stabile nella roccia della fede. L’azione dello Spirito, in questa anafora, viene strettamente collegata alla sua azione lungo tutta la storia della salvezza; è Lui che “ha parlato nella Legge, nei Profeti e nella nuova Alleanza...”. L’epiclesi ha pure una chiara dimensione ecclesiologica, che verrà in qualche modo sottolineata di nuovo nella grande preghiera di intercessione alla fine dell’anafora che ha ancora degli indici chiaramente gerosolimitani: “…a sostegno della tua santa Chiesa cattolica e apostolica che hai stabilito sulla roccia della fede... Ti offriamo questo sacrificio per la tua santa e gloriosa Gerusalemme, madre di tutte le chiese... Ricordati di questa santa tua città... Ricordati Signore di tutti i cristiani che sono andati o si recano nei Luoghi santi di Cristo...”. Infine la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo porta la comunità, la Chiesa alla plenitudine della forza dello Spirito. Questo Spirito invocato sulla comunità, viene ad essa dato attraverso la comunione; lo Spirito costruisce il corpo ecclesia­le di Cristo per mezzo della santificazione, della divinizzazione di coloro che vi si comunicano.
         Celebrare la liturgia di san Giacomo, se non altro una volta all’anno, è sempre celebrare il mistero della morte e risurrezione del Signore, e farlo con una anafora che ci mette di fronte ad aspetti teologici, ecclesiologici, liturgici ed anche architettonici un po diversi da quelli a cui siamo abituati nella celebrazione liturgica bizantina, e soprattutto è celebrare con una anafora che ci fa presente la comunione con la Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le Chiese cristiane.



mercoledì 23 settembre 2015

Biglietto di ringraziamento del Papa emerito Benedetto XVI

Grazie anche a Lei, Santità.


venerdì 11 settembre 2015

L’Esaltazione della Santa Croce nell’innografia di Romano il Melodo.
Oggi la croce riapre ad Adamo il paradiso.
          La tradizione innografica dell’Oriente cristiano adopera spesso il genere letterario del “dialogo” o della “disputa”, cioè la composizione poetica in cui due personaggi o delle volte due luoghi sviluppano lungo un numero variabile di strofe un tema di carattere teologico, servendosi appunto del dialogo/disputa come genere letterario. Efrem (+373) in ambito siriaco e Romano il Melodo (+555) in ambito greco sono due esempi notevoli di innografi che si servono di questo genere letterario. Di Romano abbiamo due inni dedicati alla Croce di Cristo, di cui il primo presenta appunto la discussione tra l’Ade ed il diavolo presentato sotto la forma del serpente. È un testo che sviluppa, lungo ventun strofe, il tema della redenzione di Cristo per mezzo della sua croce; è un poema che in alcune delle strofe raggiunge una profondità e una bellezza uniche nel suo genere. Il filo conduttore del testo è il ritorno di Adamo in paradiso grazie alla croce di Cristo, che ne diventa la chiave per la sua riapertura. I tre primi tropari sono dei testi di introduzione, si potrebbe dire di situazione di tutto il poema: “La spada di fuoco non custodisce più la porta dell’Eden, perché al suo posto è sopraggiunto il lego della croce. Il pungiglione della morte e la vittoria dell’Ade sono stati inchiodati… Ed in essa inchiodato tu ci hai redenti, o Cristo Dio nostro… Le creature celesti e terrestri gioiscono con Adamo, perché è stato chiamato di nuovo nel paradiso”. La prima delle strofe, che è poi entrata nella tradizione bizantina come kontakion in alcuni giorni dell’anno liturgico, descrive quasi fisicamente il Golgota e l’Ade sconfitto dalla croce: “Tre croci piantò Pilato sul Golgota, due per i ladroni e una per il Datore di vita; l’Ade la vide e disse a quelli di laggiù: «O miei ministri e miei eserciti, chi ha conficcato un chiodo nel mio cuore? Una lancia di legno mi ha trafitto all’improvviso… e sono costretto a rigettare Adamo e i nati da lui che a me mediante un albero erano stati dati: un albero li introduce di nuovo nel paradiso»”.



          La disputa tra l’Ade ed il diavolo/serpente inizia dalla strofa seconda, con il rimprovero di costui all’Ade che si accorge di essere sconfitto dalla croce, rimprovero originato dalla cecità del serpente di fronte alla forza della croce di Cristo: “Ade che hai? Perché piangi a vuoto? Ho architettato io lassù per il figlio di Maria questo legno che ti ha spaventato… E’ la croce sulla quale ho fatto inchiodare Cristo, perché con un legno voglio distruggere il secondo Adamo. Non ti turbare, continua a tenere stretti i tuoi prigionieri”. E la risposta dell’Ade rimproverato che diventa quasi una professione di fede nella redenzione avvenuta nella croce: “Corri ed apri bene i tuoi occhi, e guarda la radice del legno dentro la mia anima: mi è scesa fin nel profondo per portare in alto Adamo ed essere ricondotto in paradiso”. Lungo quattro strofe l’innografo prosegue con i rimproveri tra l’Ade ed il diavolo, descritti dal poeta orbo l’uno e cieco l’altro. L’Ade presenta al serpente la forza della croce di Cristo: “L’ora presente ti mostrerà la potenza della croce e la grande autorità del Crocifisso. Per te la croce è stoltezza, ma da tutto il creato è ammirata come un trono, inchiodato sul quale Gesù ascolta il ladrone e gli dice: «Oggi, povero uomo, con me entrerai di nuovo nel paradiso»”. La promessa fatta da Cristo al ladrone fa reagire ed aprire gli occhi al diavolo cieco che confessa la sua sconfitta; e l’autore sottolinea il legame tra l’audizione e la visione nella confessione del diavolo: “Il serpente vide quel che aveva udito: il ladrone rendere testimonianza a Cristo che testimoniava per lui… E (il diavolo) sbigottito e battendosi il petto diceva: «Parla con un ladrone e non risponde agli accusatori? Neanche di una parola ha degnato Pilato, ed adesso si rivolge ad un assassino?»”. Sconfitto il diavolo cerca rifugio presso l’Ade e nella sua disfatta descrive la salvezza che sgorga dalla croce di Cristo, luogo della vittoria col suo sangue e della vita che sgorga dall’acqua del costato di Cristo; Romano ci presenta messo in bocca del diavolo un riferimento di carattere sacramentale del battesimo e dell’eucaristia: “«Accoglimi, Ade: presso di te è il mio rifugio! Ho visto anch’io il legno che ti ha spaventato, e arrossato di sangue ed acqua… L’uno prova l’uccisione di Gesù, l’altro prova che egli è vivo, poiché la vita è sgorgata dal suo fianco… ed è stato il secondo Adamo a far rifiorire Eva, la madre dei viventi, di nuovo nel paradiso»”. Le parole di Gesù sulla croce quindi diventano buona novella, vangelo anche per gli occhi e le orecchie dei due personaggi della disputa. In questa strofa, la quattordicesima, troviamo delle immagini di una profondità poetica e teologica ineguagliabili: “«Aspetta, Ade sciagurato», disse piangendo il demonio, «taci, sopporta. Sento una voce annunciatrice di gioia, un sussurro mi è giunto che porta buone notizie, un brusio come di foglie dall’albero della croce. Sul punto di morire Cristo ha detto: “Padre, pedona loro… non sanno quel che fanno”. Noi però sappiamo che colui che soffre è il Signore della gloria, che vuol riportare Adamo di nuovo nel paradiso»”. La croce quindi diventa luogo di conversione, non più albero di condanna, vigna dai tralci amari, bensì luogo della dolcezza e della vita: “Piangiamo ora, o Ade, vedendo l’albero che avevamo piantato trasformato in un tronco sacro! Ai suoi piedi hanno preso dimora e fra i suoi rami hanno nidificato briganti e assassini, esattori e meretrici, per cogliere il frutto della dolcezza da quello che pareva un albero secco. Abbracciano la croce come pianta della vita, si aggrappano ad essa per compiere a nuoto la traversata col suo aiuto e approdare di nuovo nel paradiso!”. Infine Romano nella penultima delle strofe mette in bocca all’Ade il tema del furto del ladrone che nella croce “ruba” la sua salvezza: “Nessuno di noi dovrà più far violenza alla stirpe di Adamo, perché è stata segnata dal sigillo della croce, come un tesoro che dentro un fragile scrigno ha una perla inviolabile, che l’accorto ladrone sulla croce è riuscito a sottrarre… e per questo furto è stato chiamato di nuovo nel paradiso!”. L’inno di Romano finisce con una preghiera che rinchiude tutta la teologia della salvezza per mezzo della croce sviluppata lungo il poema: “Altissimo e glorioso, Dio dei padri e dei fanciulli… la tua croce è la gloria di noi tutti… La nave di Tarsis una volta recava oro a Salomone nel tempo stabilito: a noi il tuo legno procura ogni giorno e ogni momento ricchezza incalcolabile, perché conduce tutti di nuovo nel paradiso”.

domenica 6 settembre 2015

La Natività della Madre di Dio nell’innografia siriaca.
La Madre di Dio tesse un vestito di gloria.
          L’abbondantissima produzione letteraria messa sotto la paternità di sant’Efrem il Siro (+373), ha una serie di inni considerati dagli editori come dei testi soltanto attribuibili al grande Padre della Chiesa siriaca, ma in realtà composti dal V secolo in poi e certamente ispirati all’innografia di Efrem. Molti di questi inni pseudo efremiani sono dedicati a Maria nella sua divina maternità, inni che la cantano, meditando e lodando allo stesso tempo il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio. Ci soffermiamo in due di questi inni. Ambedue iniziano con una sorta di preghiera a Cristo, affinché sia Lui stesso a illuminare il canto del poeta: “La Vergine mi chiama a cantare il mistero che ammiro. Dammi, o Figlio di Dio, il tuo dono di ammirazione… per dipingere un’immagine piena di bellezza alla tua Madre. Canterò per tua grazia, o Signore, inni eletti alla Vergine, la quale divenne madre in modo prodigioso; lei è vergine e pur madre. Lode a colui che la prescelse!”. La verginità di Maria ed il concepimento in lei del Verbo di Dio incarnato vengono messi in evidenza con delle immagini molto contrastanti, a partire dall’umanità stessa di Maria nel suo essere pienamente donna e concepire verginalmente: “Un feto nel suo seno senza connubio, grande prodigio! Latte è nelle sue mammelle, cosa inconsueta! I segni della verginità assieme al latte sono nel suo corpo…”. E prosegue con delle espressioni che sottolineano la divino umanità di Colui che è nato da Maria: “La Vergine Maria santamente partorisce il Figlio; dà il latte a colui che nutre il genere umano; sulle ginocchia sostiene colui che tutto sostiene. Lei è Vergine, è pure Madre: cosa lei non è?”.
         L’autore prosegue introducendo il tema della verginità –sia in un riferimento alle dieci vergini del vangelo-, sia soprattutto tenendo presente la verginità come realtà ecclesiale già nel IV secolo nelle Chiese di tradizione siriaca: “In Maria goda tutta la schiera delle vergini, perché una fra di esse si è chinata e ha partorito il Gigante che sostiene le creature, lo stesso che liberò il genere umano fatto schiavo”. Il riferimento cristologico al “gigante” partorito da Maria è preso dal salmo 18,6, un testo che la tradizione dei Padri e le liturgie orientali ed occidentali hanno letto ed interpretato applicato a Cristo stesso nella sua incarnazione e nascita da Maria.
         Nel primo dei due inni di cui facciamo la lettura, troviamo una serie di quattro strofe che iniziano con la forma: “Si rallegrino in Maria…”, ed enumerano tutti coloro che per mezzo di lei trovano in Cristo la loro piena redenzione, ad iniziare da Adamo stesso fino ai sacerdoti, ai profeti e ai padri: “Si rallegri in Maria Adamo ferito dal serpente, perché lei a lui ha fornito la pianta medicinale… Si rallegrino in Maria i sacerdoti, perché lei ha partorito il grande sacerdote divenuto vittima… La schiera dei profeti, perché in lei si sono adempiute le loro profezie…”. Il nesso con Adamo guarito dalla medicina che è Cristo stesso porta l’autore in ambedue inni a cantare il tema dell’incarnazione e la nascita del Verbo di Dio vista come una nuova creazione di Adamo, di Eva e dell’umanità stessa: “Maria dette il dolce frutto agli uomini, in luogo di quel frutto dell’amarezza che Eva aveva raccolto dall’albero… Maria tesse una stola di gloria per il suo padre che era stato denudato tra gli alberi: rivestendola castamente, egli acquistò decoro… ”. Maria ancora è presentata come vite che produce il vino che è Cristo stesso, riferimento che ha anche un carattere eucaristico e collegato con il vino come bevanda di salvezza: “La vite verginale produsse un grappolo dal dolce vino, e per esso furono consolati dalle tristezze Adamo ed Eva addolorati: gustando il farmaco di vita, e furono da questo consolati dalle loro tristezze”.

         Il collegamento che l’autore fa tra Eva e Maria viene sviluppato ancora nell’ultima parte del secondo degli inni. Dopo aver di nuovo avvicendato le dieci vergini con delle lampade in mano del vangelo di Matteo con Maria vergine che porta l vera luce del mondo e che è Cristo stesso, l’innografo si dilunga a sviluppare il nesso tra Eva e Maria, tra la caduta nel peccato e la redenzione –la nuova creazione- avvenuta nella nascita di Cristo: “Per lei si sollevò il capo di Eva rimasto abbattuto. Maria infatti ha portato il Bambino che afferrò il serpente, e le foglie della nudità si tramutarono in gloria. Due vergini ha avuto l’umanità: una causa della vita, l’altra della morte; da Eva spuntò la morte, da Maria la vita”. E ancora l’autore riprende il tema del vestito di gloria tessuto da Maria nel suo grembo: “La madre caduta fu sorretta da sua figlia, e poiché quella era rivestita di foglie di nudità, questa le tesse e le dette un vestito di gloria”. In diverse strofe dei due inni troviamo ancora i titoli cristologici dati a Maria e presi da immagini veterotestamentarie: lei è il campo che non ha conosciuto il seminatore, lei è la nave che porta agli uomini il frutto della salvezza, lei è la lampada che porta la luce per gli uomini: “Per Maria spuntò la luce che scacciò le tenebre che si erano diffuse tramite Eva offuscando l’umanità. Per mezzo di Maria il mondo è stato illuminato”.


sabato 29 agosto 2015

L’inizio dell’anno liturgico nella tradizione bizantina.
Oggi la creazione canta la discesa di Dio tra gli uomini.
          La giornata di preghiera per la cura del creato, indetta per il 1 settembre da papa Francesco, coincide, nella tradizione liturgica bizantina, con l’inizio dell’anno liturgico. Nella centralità della Pasqua, che per tutte le Chiese cristiane di Oriente e di Occidente è la festa più antica e più importante ed è all’origine delle altre feste liturgiche, la tradizione bizantina ha fissato in questo primo giorno di settembre l’inizio del ciclo delle grandi feste e più precisamente dell'anno liturgico. È il mese delle ultime raccolte e dell’inizio della preparazione per un nuovo ciclo della vegetazione; ed è un momento propizio quindi per ringraziare Dio per la sua provvidenza verso tutta la creazione e soprattutto per l’opera della sua redenzione in Cristo. E in questo stesso senso la celebrazione di questo inizio di anno celebra Cristo, Figlio e Verbo di Dio, incarnatosi per portare tutte le cose all’unità e riconciliare tutti gli uomini in se stesso. Vorrei proporre di vedere questo mistero centrale della nostra fede a partire da due momenti liturgici della tradizione bizantina: in primo luogo le odi (cantici biblici e poetici) del cànone del mattutino delle domeniche; e quindi la festa del 1 settembre. Nello stesso 1 settembre la Chiesa bizantina celebra la festa di san Simeone Stilita, vissuto in Siria nel V secolo come monaco e solitario su una colonna.
          La tradizione bizantina, nel suo canto alla creazione, che è opera delle mani del Signore, parte dal misero della morte e risurrezione di Cristo, che è visto come una nuova creazione, un riportare l’uomo, creato a immagine di Dio, alla sua primitiva bellezza. Le odi domenicali negli otto toni in cui esse si dividono nella tradizione bizantina, sono dei testi che risalgono direttamente a san Giovanni Damasceno (VIII sec.), oppure a lui vengono attribuiti. Mi soffermo soltanto in alcuni tropari delle odi settima ed ottava di questi testi domenicali, odi poetiche che commentano appunto i cantici veterotestamentari di Dn 3,16-24;e Dn 3,57-88. Sono dei testi che mettono in luce come la lode della creazione intera sgorga dalla passione, morte e risurrezione di Cristo, mistero che rinnova l’uomo e la creazione intera: “Tu che col tuo volere fai tutte le cose e le trasformi, e con la tua passione volgi l’ombra di mor­te in vita eterna, o Verbo di Dio, noi tutte, opere tue, incessantemente quale Signore ti celebriamo e ti sovresaltiamo per tutti i secoli… Dal tuo fianco trafitto le gocce di sorgente divina del tuo sangue vivificante, o Cristo, stillando a terra conforme all’economia hanno riplasmato i nati dalla terra…”. Ulteriormente viene sottolineato come è nel grembo di Maria, quasi un nuovo paradiso e una nuova fornace, dove l’uomo in Cristo viene riplasmato e ricreato: “Noi fedeli ti contempliamo, o Madre di Dio, quale spirituale fornace: come salvò i tre fanciulli, così colui che è sovresaltato ha interamente riplasmato me, l’uo­mo, nel tuo grembo, lui, il Dio dei padri…”. Ed è quindi la la creazione stessa che diventa partecipe, con l’umanità, al mistero della redenzione; il velo del tempio si squarcia di fronte alla croce di Cristo ed il sole si oscura e si avvolge di tenebra di fronte alla passione di Cristo. La tomba di Cristo, infine, diviene più bella dal paradiso stesso: “La tua tomba, sorgente della nostra risurrezione, o Cristo, si è rivelata portatrice di vita, più bella del paradiso, più splendete di qualsiasi talamo regale”. Il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio, la “discesa di Dio” come la canta la liturgia bizantina, è la causa e la sorgente della lode degli angeli dei fanciulli nella fornace, immagine dell’umanità e di tutta la creazione: “Il glorioso annientamento, la divina ricchezza della tua povertà, o Cristo, rende attoniti gli angeli che ti vedono inchiodato sulla croce… Il fuoco ebbe paura un giorno a Babilonia di fronte alla discesa di Dio. Per questo i fanciulli, quasi danzando in un prato, salmeggiano: Benedetto tu, o Dio, Dio dei padri nostri”.
          Per quanto riguarda l’inizio del nuovo anno liturgico bizantino, i testi della liturgia di questo giorno mettono in risalto diversi aspetti. In primo luogo il nuovo anno è visto come una nuova creazione e quindi si mette in evidenza la figura di Cristo come creatore; la benedizione di Cristo sul nuovo anno è vista come l’azione della sua mano creatrice e provvidente sul mondo e sulla Chiesa stessa: “Tu che hai creato l’universo con sapienza, Verbo del Padre che sei prima dei secoli, e formato tutta la creazione con la tua parola onnipotente, benedici la corona dell’anno della tua benignità… Creatore e Sovrano dei secoli, Dio dell’universo, benedici questo ciclo annuale… Tu, congiunto al santo Spirito, Verbo senza principio e Figlio, con lui creatore e artefice di tutte le cose vi­si­bili e invisibili, benedici la corona dell’anno… per intercessione della Madre-di-Dio e di tutti i tuoi santi…”. Alcuni dei testi liturgici riecheggiano la pericope evangelica di Lc 4,16-22 e introducono anche il tema di Cristo come maestro per la sua Chiesa: “Tu che un tempo sul monte Sinai hai scritto le tavole della Legge, tu stesso, nella carne,  hai ricevuto a Nazareth un li­bro profetico da leggere, o Cristo Dio, e apertolo insegna­vi ai popoli che in te si era compiuta la Scrittura”. Sulla scia della figura di Cristo maestro, i testi indicano come lo è anche nella preghiera della Chiesa: “Appresa la preghiera dal divino insegnamento a noi impartito da Cristo stesso, gridiamo ogni giorno al Creatore: Padre nostro, che dimori nei cieli, donaci il pane quotidiano, senza far conto delle n­o­stre colpe”. Quindi alcuni dei testi dell'ufficiatura ancora invocano la protezione del Signore per tutta la creazione da lui fatta: “Tu, o Re, tu che sei e rimani per i secoli senza fine, ricevi la preghiera dei peccatori che chiedono salvezza, e concedi, o amico degli uomini, fertilità alla tua terra, donando climi temperati, per l’intercessione della Madre di Dio… Artefice di tutto il creato, che hai posto in tuo potere tempi e momenti, benedici la corona dell’anno della tua benignità, Signore, custodendoci nella pace…”.
          I Padri della Chiesa, da Oriente ad Occidente, da Efrem a Basilio al Crisostomo ad Ambrogio e ad Agostino, contemplando e cantando il mistero della creazione, cantano Colui che ne è l’Artefice; la voce dei Padri diventa la lira della lode al Creatore, e all’opera delle sue mani, di cui ne è la primizia l’uomo fatto a sua immagine e somiglianza, che per la passione, morte e risurrezione di Cristo viene riportato alla primitiva bellezza, viene ricondotto alla pace e la riconciliazione con il suo Creatore, con il creato e con l’altro, suo fratello, come lo canta il Damasceno la notte pasquale: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione, e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, ed ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”.


sabato 22 agosto 2015

La croce di Cristo abbattuta, ma mai sradicata.
Fino a quando, Signore…
         Nell’estate del lontano 1922 il monaco benedettino di Montserrat, P. Bonaventura Ubach, dopo essersi messo in contatto col patriarca siro cattolico Ignazio Efrem II Rahmani (1848-1929), soggiornò diverse settimane nel villaggio di Qaryatain, vicino a Palmira in Siria, per proseguire lo studio approfondito della lingua siriaca e la conoscenza dei libri liturgici della tradizione siro occidentale, e così prepararsi bene alla celebrazione della sua prima liturgia siriaca, che celebrò poi nella cattedrale di Aleppo il 21 settembre dello stesso anno, accolto dall’allora arcivescovo siro cattolico della città Gabriele Tappouni (1879-1968), diventato patriarca nel 1929 col nome di Ignazio Gabriele I; e quindi creato cardinale nel 1935 da papa Pio XI. Da questo momento la vita di P. Ubach, come monaco e come sacerdote divenne pienamente immersa nella vita della Chiesa siro occidentale. Queste sono le sue parole che scriveva per commentare questi eventi: “La mia piena integrazione in questa tradizione (siro occidentale) avvenne con la celebrazione della messa siriaca… e cercai di accelerare il mio inserimento nel clero della cattedrale siriaca di Bagdad… Celebravo ogni giorno la liturgia siriaca, poi mi ritiravo nella mia cella per pregare il breviario, e studiavo le antichità classiche del paese, la sua storia, i suoi monumenti…”.
         La sollecita attenzione di un mio confratello monaco che tempo fa aveva curato delle note biografiche di p. Bonaventura, e soprattutto i fatti ancora drammatici di queste ultime settimane in Siria, e precisamente a Palmira e nel villaggio di Qariatayn, dove numerose famiglie siro cattoliche erano state spietatamente sequestrate e poi in parte rilasciate, mi hanno scosso nella relativa calma estiva, e riportato alla piena comunione con la sofferenza martiriale di tanti fratelli cristiani che nel prossimo Oriente continuano, senza disperare mai, a dare testimonianza della loro fede, della croce di Cristo abbattuta sì barbaramente dalle loro ciese, dai loro monasteri, ma mai dai loro cuori. Sono dei momenti in cui la preghiera dei salmi affiora nel proprio cuore, e con quella osata parresia che direi soltanto i salmi hanno per innalzare al Signore la preghiera: “Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?”.
La barbara uccisione nei giorni scorsi di Khaled Asaad, archeologo capo di Palmira, rifiutatosi di consegnare i reperti archeologici più preziosi e da lui nascosti, ci fa pensare a tanta tradizione culturale, archeologica, scultoria, anche letteraria, patrimonio dell’umanità, trasformata in macerie, da una mano che impunemente riduce a mille pezzi più di tremila anni di storia. E all’inizio di questo mese di agosto si alzava ancora una volta la voce del patriarca Ignazio Youssif III Younan, padre e pastore della Chiesa siro occidentale cattolica, che riportava dei fatti accaduti alle famiglie cristiane appunto di Qaryatain, e denunciava ancora una volta quell’indifferenza con cui in questi ultimi anni l’occidente guarda –o appunto non vuol guardare- i fatti drammatici dei cristiani perseguitati, uccisi, martiri nel prossimo Oriente. La voce del patriarca era molto incisiva, facendo vedere come di una pulizia etnica non si trattasse, e diceva: “È una pulizia religiosa. Quella che i vostri governanti non vogliono vedere: non ne vogliono sapere niente! A loro importa poco delle libertà di queste comunità, che sono riuscite a sopravvivere proprio perché attaccate al loro Salvatore e al Vangelo… A Qaryatain c’erano circa 300 famiglie rimaste lì… E il loro parroco siro cattolico, padre Jacques Murad, rapito, era nel convento di Mar Elian a ricevere anche tanti musulmani ed aiutarli…”. Sono le parole accorate e sofferenti di un vescovo per il suo popolo, e sono anche parole, queste del patriarca Younan che ci riportano al Vangelo di Cristo, perché la carità non fa differenze di persone: “…a ricevere anche tanti musulmani ed aiutarli…”.

         Oggi le immagini arrivate da Qaryatain ci mostravano quelle ruspe inclementi che abbattevano le mura, le croci, le tombe del monastero di Mar Elian, che demolivano impunemente la carità cristiana che tra quelle mura sante ci dimorava dal V secolo in poi, fino a pochi giorni fa. Immagini veramente strazianti che si innalzavano come in una loro effimera vittoria, per abbatterle poi al suolo, le mura, le soffitta, ma soprattutto le preghiere, la vita, le sofferenze, le lacrime che attraverso i secoli, lungo più di mille cinquecento anni, erano diventate come l’intonaco, il vero cemento che reggeva quel luogo santo. “Un’altra chiesa…un altro monastero…” potrebbe essere l’indifferente titolo della notizia data. Ma non si tratta di “un’altra chiesa…” ma della Chiesa di Cristo, cattolica o ortodossa che essa sia, siriaca, assira, caldea, copta, latina…, senza fare liste ecclesiologiche complete, che è diventata oggi la Chiesa martire di Cristo. Una Chiesa che nel martirio rimane fedele al suo Salvatore, e al suo Vangelo, fedele alla preghiera, anche per i propri nemici. P. Bonaventura Ubach diceva nelle sue note: “…mi ritiravo nella mia cella per pregare il breviario…”. Una preghiera fatta dai testi biblici, dalle preghiere dei Padri, intrecciati gli uni e gli altri dalla presenza perseverante del salterio, questi testi che Cristo stesso e le tradizioni cristiane di Oriente e di Occidente ne hanno fatto preghiere cristiane e dei cristiani. Salmi di lode, quelli che troviamo nelle ore di preghiere dei cristiani siriaci, e anche salmi di pentimento, di sofferenza, di speranza, e anche dei salmi, forse paradossali, ma pure loro cristiani, in cui il salmista, il cristiano chiede a Dio la fine non del malvagio e dell’empio, ma sì del male e dell’empietà che annida nel suo cuore: Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando su di me prevarrà il mio nemico? Libera la mia vita dalla loro violenza, dalle zanne dei leoni l'unico mio bene”. Questa forse è la preghiera di tanti cristiani oggi, lì nella sofferenza fisica in Oriente, e qua in Occidente nella comunione pure essa sofferente. Fermi sempre nella parola di perdono che ci viene dal Vangelo, e in quella fede che, vedendo la croce abbattuta dalle chiese, dai monasteri, sa che mai potrà essere sradicata dal cuore dei cristiani.




mercoledì 12 agosto 2015

La Dormizione di Maria nell’innografia siro orientale.
Oggi il cielo dei cieli la canta sorella
          La tradizione siro orientale, a cui appartengono la Chiesa Assira e la Chiesa Caldea, ha dei testi innografici notevoli per le feste della Santissima Vergine Maria. Molti di questi testi, in forma innorafica, sono entrati nei libri liturgici per le diverse festività, e specialmente gli inni di Giorgio Warda, autore vissuto tra a fine del XII e l’inizio del XIII secolo ad Arbela, nell’attuale Iraq. Il nome Warda (che significa rosa in siriaco) è un soprannome legato alla raccolta delle sue composizioni poetiche nei libri liturgici siro orientali. Si tratta di poemi teologici e omelie metriche per le feste liturgiche del Signore, della Vergine Maria e dei santi. In due dei suoi inni dedicati a Maria, troviamo approfondito il tema del suo transito in cielo. Sono dei testi in cui l’autore medita il mistero di Maria, vergine e madre di Cristo Redentore dell’uomo. Queste righe, ispirate ai testi di una delle tradizioni teologiche e liturgiche del prossimo Oriente cristiano, vogliono essere anche una forma di preghiera e di vicinanza umana e cristiana a tanti cristiani della tradizione siro orientale e delle altre tradizioni cristiane sofferenti e martirizzati nei nostri giorni in Oriente ed ovunque.
Giorgio inizia tutti e due i suoi inni applicando a Maria tutta una serie di titoli cristologici e quindi mariologici presi dai testi e dai fatti veterotestamentari: “Se io la chiamassi (Maria) terra, sarei un insensato, perché so che lei non ha chi le somigli sulla terra… La potrei paragonare al giardino i cui quattro fiumi, ai quattro angoli, si dividevano? Ma la sorgente che scorreva dal paradiso non ha salvato nessuno… Da Maria invece è zampillata una fonte, che quattro bocche hanno sparso, la quale inebriò tutta la terra…”. E quindi Giorgio prosegue il suo paragone esegetico trattenendosi su alcune figure e personaggi presi dal libro della Genesi, cioè l’albero, l’arca, la roccia, il roveto: “Lei è l’albero stupendo che produsse il frutto meraviglioso… Lei è l’arca fatta di carne in cui si riposò il vero Noè… Lei è la figlia di Abramo che Adamo prevedeva in figura; portò il figlio e Signore di Abramo… Lei è la roccia donde sorse una fonte… Lei è il roveto prodigioso arso dal fuoco, in cui abitò per nove mesi il fuoco incandescente…”.
Nella parte centrale di ambedue gli inni, il poeta canta il mistero della morte di Maria. Seguendo la tradizione degli apocrifi, Giorgio descrive si potrebbe dire tutta la liturgia celebrata nella piena comunione tra il cielo e la terra. In primo luogo descrive la presenza, quasi vedendo e contemplando la rappresentazione iconografica della festa, di tutti i personaggi venuti dal cielo per celebrare Maria nel suo transito: “Nel giorno della separazione del corpo dalla gloriosa anima, gli angeli solennemente si precipitarono dal cielo per rendere omaggio a lei…, dal seno della quale zampillava la vita per tutto il genere umano! Gli angeli vennero dall’alto, i profeti risuscitarono, gli apostoli venero dai quattro venti per celebrare la sua gloria”. Quasi facendo un parallelo tra la morte e risurrezione di Cristo, e quella di sua Madre, Giorgio Warda canta la pasqua di Maria facendovi presente anche la figura di Adamo e della sua discendenza: “Venne Adamo, che era stato ucciso dalla moglie, per vedere l’esaltazione di sua figlia. Vennero Israele e gli antenati, Isaia e i suoi compagni… I profeti assieme ai patriarchi, gli apostoli con i pastori… Durante la sua vita visse morta al mondo e, morendo, richiamò i morti alla vita. I profeti sono usciti dai loro sepolcri, ed i patriarchi dalle loro tombe…”. E seguendo la descrizione quasi iconografica prosegue: “Lei fu portata sulle nubi ed esaltata fra gli spiriti, per ricevere la lode immortale per tutta l’eternità”. E l’autore si trattiene quasi in ogni dettaglio a descrivere la liturgia che è celeste e terrestre allo stesso tempo, attorno al transito di Maria; liturgia celebrata dagli angeli e dagli uomini, dai profeti e dagli apostoli, dalla creazione intera, a lode di Maria e di Cristo stesso; sono delle strofe in cui Giorgio adopera delle immagini molto belle e toccanti come quella della pioggia che invidia il grembo di Maria: “Il firmamento e le nubi piegarono le ginocchia, ed i fulmini si unirono ai tuoni per irradiare il suo splendore e diffondere la gloria di suo Figlio. La pioggia e la rugiada invidiarono il suo grembo perché, mentre loro nutrono solo semi della terra, esso ebbe l’onore di nutrire il Creatore dei semi. Le stelle la adorarono, il sole e la luna si inchinarono davanti a lei. Il cielo la proclamò beata, il cielo dei cieli la professò sorella”. Quindi a partire dalla descrizione fatta nella tradizione apocrifa della festa, il poeta, accanto alla liturgia celeste colloca anche quella terrestre, con la presenza dei Dodici accanto al letto funebre di Maria: “Fra gli apostoli alcuni erano già morti, gli altri erano in vita ma lontani. I morti sono risuscitati, e quelli lontani si assembrarono, alla sua morte”. Liturgia celeste e terrestre celebrata dagli angeli e dagli apostoli che diventano, con Maria, intercessori per tutti gli uomini: “Gli apostoli, in processione, portarono il suo corpo, i profeti ed i sacerdoti scortarono la sua bara. Gli angeli intrecciarono corone e le bocche ignee le resero omaggio. E nel momento del suo transito, la sua intercessione venne in aiuto agli afflitti. I malati e le anime sofferenti furono esauditi all’invocazione del suo grande nome”.
E Giorgio Warda conclude il secondo dei suoi inni con una lunga serie di beatitudini a Maria, che sono un canto all’incarnazione in lei del Verbo di Dio: “Beata sei, o Vergine fidanzata, o donna che hai generato un figlio… Beata sei, o madre senza padre, il cui Figlio non ebbe padre tra i mortali! Beata sei, o terra, nella quale si formò e in cui abitò, incarnandosi, il Dio di Adamo. Beata sei, o città dell’Altissimo e tabernacolo del Figlio del Creatore. Beata sei, o cielo terrestre che hanno invidiato le acque di sopra i cieli. Beata sei, tu, per la quale fu ristabilita per Adamo e la sua discendenza la salvezza eterna!”.
E come troviamo spesso tra gli innografi cristiani, anche Giorgio chiede alla fine dei suoi inni l’intercessione e la preghiera di Maria: “Per me, che sono di tutti gli uomini il più peccatore, e per tutto il popolo che celebra la Tua festa, chiedi il perdono e la remissione dei peccati, o Tu, il cui Figlio regna nella gloria eterna. Amen”.



martedì 4 agosto 2015

La Trasfigurazione del Signore nell’omelia di Anastasio il Sinaita.
Oggi tutta la creazione è trasfigurata.
       La festa della Trasfigurazione del Signore, celebrata il 6 agosto, è una delle feste importanti nei calendari delle Chiese cristiane di Oriente e di Occidente. L’iconografia della festa ci riporta a dei capolavori di carattere musivo nel monastero di santa Caterina del Sinai (VI s.), a Ravenna a san Apollinare in Classe (VI s.) e a Roma ai santi Nereo ed Achilleo (VIII-IX s.). Diversi Padri hanno commentato la pericope della festa: Origene, Efrem, Giovanni Crisostomo, Agostino. In queste righe vorrei presentare l’omelia per la Trasfigurazione di Anastasio il Sinaita, un autore di cui abbiamo poche notizie biografiche, e che visse nel Sinai come monaco nella seconda metà del VII secolo.
        Anastasio inizia l’omelia con una captatio benevolentiae facendo un elogio del monte Tabor, dove avviene l’episodio evangelico della Trasfigurazione del Signore, partendo dalla visione di Giacobbe nel libro della Genesi: “Quanto è terribile questo luogo! Mi viene da gridare come Giacobbe, nel giorno della festa di questo monte. Come lui, vedo anche io una scala che sale dalla terra al cielo, poggiata sulla cima di questo monte. Anche io dico: Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”. La grandezza del monte come luogo santo, come nuovo Sinai, Anastasio la vede nella testimonianza del Padre e nella manifestazione del Figlio, sole di giustizia. Il monte Tabor, lungo tutta l’omelia verrà presentato come tipo della Chiesa stessa, luogo della piena rivelazione del Verbo di Dio incarnato. La stessa liturgia del giorno ne diventa epifania.
        Anastasio fa una lunga lode del monte della Trasfigurazione, prefigurato nell’Antico Testamento e manifestato nel Nuovo: “Questo è il monte da cui si è staccata la pietra, cantato dagli angeli e di cui parlano i profeti, annunciato dal salmista, che istruisce gli ignoranti ed illumina i peccatori… creato dalla mano destra del Signore…”. Tutta una serie di temi che fanno del monte Tabor un tipo della Chiesa stessa, luogo della redenzione, dell’istruzione e dell’illuminazione. E senza soluzione di continuità passa alla simbologia neotestamentaria: “In questo monte sono stati prefigurati i simboli del Regno, preannunciato il mistero della crocifissione, svelata la bellezza del Regno e manifestata la seconda venuta di Cristo. In questo monte i beni futuri furono presentati già come attuali… In questo monte si preannuncia senza inganno la nostra immagine futura e la nostra configurazione con Cristo”. E Anastasio associa alla gioia del monte Tabor anche quella di tutta la creazione: le altre montagne esultano, le colline si riempiono di fiori e di foreste, i ruscelli che scorrendo fanno risuonare la loro voce di lode nell’acqua, gli uccelli i loro cinguettii. E aggiunge una frase che dà la chiave ecclesiologica alla simbologia del Tabor: “Questa montagna è il luogo dei misteri, il posto delle realtà ineffabili, la roccia dei segreti nascosti e la sommità dei cieli”. Il Tabor come chiesa, e come altare.
        Anastasio prosegue l’omelia situando la liturgia della festa, e con una lunga serie di frasi iniziate con “oggi”, dà la spiegazione della festa stessa della Trasfigurazione: “Oggi sul Tabor è stata rinnovata e trasformata l’immagine della bellezza terrestre in bellezza celeste… Oggi il Tabor e l’Hermon esultano ed invitano tutto l’universo alla gioia… Oggi Galilea e Nazareth danzano insieme e si rallegrano per la festa…”. E quindi sgrana tutta la redenzione operata da Cristo e quasi annunciata in anticipo nella sua Trasfigurazione: “Oggi il Signore è stato visto sul monte. Oggi la natura di Adamo, già creata a somiglianza di Dio ma oscurata dagli idoli, è stata riportata alla sua primitiva bellezza di uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Oggi la natura che si era allontanata per l’idolatria, risplende di nuovo nei raggi della divinità”. Anastasio sottolinea ancora come la Trasfigurazione del Signore allontana le vecchie tuniche di pelle e riveste l’uomo di luce come di un manto. Il giorno della Trasfigurazione è la festa in cui gli araldi dell’antica e la nuova alleanza appaiono accanto al Signore. E con una bella immagine l’autore paragona il Tabor con il Golgota: “Fu crocefisso tra due uomini sul Golgota, ed oggi appare divinamente tra Mosè ed Elia”. E prosegue paragonando il Sinai col Tabor: “Sul Sinai la tormenta, sul Tabor il sole… Là il decalogo, qua il Verbo preesistente. Là la verga germina, qua la croce fiorisce. Là le quaglie come castigo, qua la colomba come salvezza. Là Maria, sorella di Mosè, suonò il tamburello, qua Maria genera divinamente. Là Elia si nascondeva, qua vede Dio”.

        Nella parte centrale del testo omiletico, l’autore mette in bocca di Mosè una lunga anamnesi dei fatti adoperati da Dio nell’antica alleanza nel Sinai e che adesso sul Tabor trovano la loro pienezza, un testo che è una professione di fede nella vera incarnazione del Verbo di Dio: “E adesso ti vedo, tu che sei con il Padre e sula montagna hai detto: «Io sono colui che sono». Che io possa vederti per poterti conoscere. E adesso ti vedo non più di spalle bensì visibilmente sul Tabor… Tu che sei il Dio pieno di amore, nascosto nella mia forma umana… Tu che scendesti nel roveto ardente, che guidasti e dissetasti il popolo nel deserto… adesso sei sceso per umanizzare la natura dell’uomo che era disumana…”. E a conclusione dell’omelia Anastasio invita tutta la creazione, anch’essa trasfigurata in Cristo, e specialmente il Tabor e tutte le montagne a un cantico di lode con uno sguardo quasi geografico a tutta la terra santa della Galilea che si espande ai piedi del monte della Trasfigurazione: “Rallegrati, Creatore di tutte le cose, o Cristo re, Figlio di Dio pieno di luce, che a tua immagine hai trasfigurato tutta la creazione. Rallegrati, Maria, santa montagna amata da Dio, che hai formato Cristo nella carne ma senza trasfigurarla; Maria, cittadina di Nazareth, Vergine Madre di Dio. Rallegrati Nazareth, santuario di Dio. Rallegrati Tabor, la più bella tra le montagne. Rallegrati mare di Tiberiade, percorso e santificato dai piedi divini. Rallegratevi, sacerdoti santi che portate nella terra di Melchisedec l’immagine di Cristo. Rallegratevi, assemblee angeliche dei vergini e delle vergini imitatori di Elia il tesbita. Rallegrati Chiesa dei credenti, celebrando questa festa in onore del vero Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo. A lui la gloria nei secoli. Amen”.