sabato 24 dicembre 2016

La festa del Natale, professione di fede di Giuseppe
Avvolto in fasce Colui che è la Vita.
          L’ufficiatura bizantina celebra la figura di san Giuseppe, lo sposo della Madre di Dio, la domenica precedente il Natale ed in quella immediatamente dopo. Diversi dei tropari di questi giorni, e la stessa icona della festa di Natale presentano la figura di Giuseppe sotto diversi aspetti, ma in modo speciale come uomo della confessione di fede, che è la fede della Chiesa. Molti dei tropari della festa hanno un carattere possiamo dire chiaramente “dogmatico”, e diventano delle brevi e poetiche professioni di fede: il Verbo del Padre, a lui coeterno, prende forma di servo dalla santa Vergine Maria. Il primo tropario del vespro del giorno di Natale, ad esempio, opera di Germano di Costantinopoli (VIII sec.), sviluppa tutto il mistero della nostra redenzione mettendo insieme i primi capitoli della Genesi con i testi paolini delle lettere ai Filippesi e agli Efesini dove l’apostolo annunzia appunto la redenzione di Cristo: “Venite, esultiamo per il Signore, esponendo questo mistero. Il muro di separazione che era frammezzo è abbattuto; la spada di fuoco si volge indietro e i che­ru­bini si ritirano dall’albero della vita: e anch’io godo del pa­radiso di delizia, da cui ero stato scacciato per la disub­bidienza. Poiché la perfetta immagine del Padre, l’im­pronta della sua eternità, prende forma di servo, procedendo da Madre ignara di nozze, senza subire mutamento: ciò che era è rimasto: Dio vero; e ciò che non era ha assun­to, divenendo uomo per amore degli uomini. A lui accla­mia­mo: O Dio che sei nato dalla Vergine, abbi pietà di noi”.
          Questa professione di fede, viene messa anche in bocca a Giuseppe in alcuni dei tropari. Lui è la figura umile, discreta, messa in un angolo della scena nell’icona stessa, in atteggiamento pensieroso, quasi dubbioso di fronte all’accaduto, di fronte ai due grandi misteri che lo sorpassano: la verginità di Maria e soprattutto la vera incarnazione del Verbo di Dio; questa figura umile e discreta diventa tipo del cristiano, di ognuno di noi che guidati e ammaestrati dalla Chiesa, di cui la Madre di Dio è tipo e figura, confessiamo la nostra fede, feriti tante volte dal dubbio, confermati dalla fiducia di Maria, della Chiesa stessa. In molti dei tropari che troviamo in questi giorni natalizi, prima e dopo la festa, Maria diventa verso Giuseppe, verso ognuno dei cristiani, la guida nella fede, quasi la pedagoga che lo prende (ci prende) per mano e lo (ci) conduce alla fede.

          Giuseppe è presentato sempre come un uomo aperto al mistero di Dio. In tutti i tropari che parlano di lui, il suo dubbio e quindi la sua professione di fede sono in rapporto alla vera incarnazione del Verbo di Dio: “Celebriamo, o popoli, le festività vigilari della Natività di Cristo: e sollevando l’intelletto, saliamo con la mente a Betlemme e con i pensieri dell’anima contem­plia­mo la Vergine che si appresta a partorire nella grotta il Signore dell’universo e Dio nostro; Giuseppe, considerando la grandezza delle meraviglie di Dio, pensava di vedere un semplice uomo in questo bambino avvolto in fasce, ma dai fatti com­prendeva che egli era il vero Dio, colui che elar­gi­sce alle anime nostre la grande misericordia”. Due dei tropari sembrano riportarci alla festa dell’Ingresso della Madre di Dio nel tempio, riprendendo uno dei titoli che in quella festa riecheggiava spesso: Maria diventata tempio di Dio: “Inneggiando alla Vergine che portava in seno il Verbo sempiterno, il giusto Giuseppe esclamava: Ti vedo divenuta tempio del Signore, perché tu porti colui che vie­ne a salvare tutti i mortali e a rendere templi divini, nella sua misericordia, coloro che lo cele­brano…. Non affliggerti, Giuseppe, osservando il mio grem­bo: vedrai infatti colui che da me nascerà e ti rallegrerai, e come Dio lo adorerai”.
          Betlemme, il luogo della nascita di Cristo, diventa una chiesa, e la nascita stessa del Signore quasi una liturgia dove si congiungono, in un’unica celebrazione la Natività di Cristo e la sua Pasqua. E di questa liturgia la mangiatoia ne diventa l’altare e allo stesso tempo la tomba di Cristo, e le fasce, chiamate in modo bello “teofore”, la testimonianza della sua risurrezione: “Su, Betlemme, prepara ciò che serve al parto; vieni Giuseppe a farti registrare con Maria; santissima è la mangiatoia, teòfore le fasce: la vita, in esse avvolta, spez­zerà le catene della morte, strin­gendo i mortali per renderli in­corruttibili, o Cristo, Dio nostro”.
          Il dubbio di Giuseppe, che tante volte è quello dell’umanità intera, viene messo in primo piano, come nell’icona stessa: “…Maria, che è questo fatto che io vedo in te? Non so che pensare nel mio stupore e la mia mente è sbigottita… In luogo di onore, mi hai por­tato vergogna; in luogo di letizia, tristezza; in luogo di lode, biasimo… Ti avevo ricevuta irreprensibile da parte dei sa­cerdoti, dal tempio del Signore: ed ora che è ciò che vedo? La risposta al dubbio di Giuseppe, viene messa in bocca di Maria, messa in bocca della Chiesa: “O Vergine, quando Giuseppe saliva verso Betlemme ferito dal dolore, tu gli dicevi: Perché, vedendomi incinta, sei cupo e turbato, ignorando del tutto il tremendo mistero che mi riguarda? Deponi ormai ogni timore, e considera il prodigio: Dio, nella sua misericordia, discende sulla terra, nel mio grembo, e qui ha preso carne…”.
       Infine in diversi dei tropari scopriamo in modo molto bello come la risposta di fede di Giuseppe, e anche quella di ognuno dei cristiani, poggia sulle profezie veterotestamentarie a cui lui attinge quasi ne facesse una lettura liturgica: “Di’ a noi Giuseppe, come conduci incinta a Be­tlemme la Vergine che hai presa dal santo dei santi? Ci risponde: Io ho esaminato i profeti, e, ricevuto il responso da un angelo, sono persuaso che, in modo inesplicabile, Maria genererà Dio: per adorarlo verranno magi dall’oriente e gli ren­de­ranno culto con doni preziosiGiuseppe ha visto chia­ramente compiute le predizioni dei profeti…”. E Giuseppe, testimone della vera nascita del Verbo di Dio incarnato, ne diventa annunziatore anche ai profeti che l’hanno preceduto e quindi profetizzato: “Annuncia, Giuseppe, i prodigi al padre di Dio Davide: tu hai visto la Vergine incinta, insieme ai magi hai adorato, con i pastori hai glorificato, da un angelo hai avu­to la rivelazione… Sei divenuto pari in onore a tutti gli angeli, i profeti e i martiri, o beato, e vero consorte dei sapienti apostoli: con loro dunque, sempre ti proclamiamo beato e veneriamo, o Giuseppe, la tua sacra memoria”.
       Giuseppe, in un angolo dell’icona, nella discrezione è anche potente intercessore: “La tua memoria invita alla letizia tutti i confini della terra, e li induce a lodare il Verbo che ti ha glorificato. Tu che stai con franchezza presso il Cristo, intercedi incessantemente per noi… Tu hai custodito la pura che custodiva integra la verginità, e dalla quale si è incarnato il Verbo Dio, con­servandola vergine dopo la sua nascita ineffabile: insieme a lei, o teòforo Giuseppe, ricordati di noi”.



lunedì 12 dicembre 2016


Croce etiopica con la Natività di Cristo. Possibile datazione fine XVIII secolo. Si vede Maria sdraiata col Bambino nel mezzo del suo mantello aperto. Nella parte superiore il volto di Giuseppe e sopra quello di un angelo(?), un pastore (?). Sotto due teste coronate che sono i magi di Oriente, con una terza figura senza corona che col dito indica Gesù nato. A destra si vedono il bue e l'asino con la lingua fuori a riscaldare (leccare) il neonato, oppure reggendo il mantello della Madonna.




H παρθνος σμερον, τν προαινιον Λγον, ν σπηλαίῳ ρχεται, ποτεκεν πορρτως. Χρευε οκουμνη κουτισθεσα· δξασον μετ γγλων κα τν Ποιμνων, βουληθντα ποφθναι, παιδον νον, τν πρ αἰώνων Θεν.

Oggi la Vergine viene nella grotta per partorire ineffabilmente il Verbo che è prima dei secoli. Danza, terra tutta, che sei stata resa capace di udire questo; glorifica con gli angeli e i pastori il Dio che è prima dei secoli, che ha voluto mostrarsi come bimbo appena nato. (Kondakion del 24 dicembre)









Πολυαγαπημένα μου αδέλφια,
Στα πρώτα μου Χριστούγεννα ως Αποστολικός Έξαρχος επιθυμώ να σας απευθύνω λίγα λόγια εκκλησιαστικής κοινωνίας και θερμών ευχών κατά τις ημέρες αυτές, κατά τις οποίες τελούμε και ζούμε μέσα στα βάθη της χριστιανικής μας καρδιάς, το μυστήριο της γεννήσεως του ενσαρκωμένου Λόγου του Θεού. Θα γιορτάσουμε το μυστήριο αυτό με τρόπο προσωπικό και με τρόπο εκκλησιολογικό ως Εξαρχία, ως χριστιανική κοινότητα κατά τις άγιες αυτές ημέρες ιδιαίτερα κατά την ιερουργία της θείας λατρείας.
         Η θεία λατρεία της Εκκλησίας και ιδιαίτερα στη δική μας βυζαντινή ιερή παράδοση μας οδηγεί πάντοτε στην ιερουργία της συναντήσεως μας με τον Κύριο. Και αυτό το πράττει στις μεγάλες στιγμές του λειτουργικού έτους, και επίσης σε κάθε μέρα της χριστιανικής μας ζωής με έναν τρόπο πολύ παιδαγωγικό: πραγματικά, η θεία λατρεία κάθε χριστιανικής Εκκλησίας γίνεται παιδαγωγία, δηλαδή καθοδήγηση των πιστών στη συνάντησή τους με τον Κύριο.
Η παιδαγωγία αυτή εκδηλώνεται με πολλούς τρόπους. Αν προσέξετε παράδειγμα το συναξάριο του μήνα Δεκεμβρίου θα δείτε ότι σε τρις εβδομάδες τιμούμε μια ολόκληρη σειρά αγίων προσώπων, με πολύ ιδιαίτερα χαρακτηριστικά.
Τους προφήτες: Ναούμ, Αβακούμ, Σοφονία, Δανιήλ. Τους μάρτυρες: Βαρβάρα, Λουκία, Σεβαστιανό. Τους μεγάλους Επισκόπους: Ιωάννη τον Δαμασκηνό, Νικόλαο, Σπυρίδωνα, Ιγνάτιο της Αντιοχείας. Τους αγίους μοναχούς: Σάββα, Πατάπιο, Δανιήλ τον Στυλίτη. Κατά κάποιο τρόπο φαίνεται ότι η θεία λατρεία θέλει να συναθροίσει όλους αυτούς τους μεγάλους χριστιανούς (και να συναθροίσει όλους εμάς, μαζί τους) για να προετοιμάσει και να μαρτυρήσει το μυστήριο της Ενσαρκώσεως του Λόγου του Θεού.
         Κατά τη χρονική αυτή περίοδο των Χριστουγέννων ή βυζαντινή θεία λατρεία μας κάνει να γευόμαστε, μας κάνει να ψάλλουμε και να ζούμε λατρευτικά κείμενα πολύ ωραία, ωραία στην ποιητική τους σύνθεση, ωραία και στο θεολογικό τους περιεχόμενο. Τόσα και τόσα ωραία τροπάρια και κοντάκια, τα οποία μας κάνουν να ξαναζούμε το μυστήριο της σωτηρίας μας, την Ενσάρκωση του Υιού του Θεού από την Αγία Αειπάρθενο Μαρία. Είναι κείμενα πολύ ωραία και μιας ωραιότητας την οπο΄8ια δύσκολα κατορθώνουμε να σχολιάσουμε ή να εξηγήσουμε, μια ωραιότητα που κάνει τη θεία λατρεία κάθε χριστιανικής Εκκλησίας να έχει μία αίγλη την οποία ποτέ δεν μπορούμε να απαρνηθούμε ή να αμφισβητήσουμε την ομορφιά της. Και αυτό συμβαίνει όχι μόνο για λόγους καθαρά αισθητικούς, οι οποίοι έχουν ασφαλώς την σπουδαιότητά τους, αλλά και για λόγους βαθύτερους. Η θεία λατρεία κάθε χριστιανικής κοινότητας στην Ανατολή όπως και στη Δύση, κοινότητας επαρχιακής, κοινότητας ενοριακής, κοινότητας μοναστικής, είναι ο χώρος όπου μεταφέρουμε αυτό που είμαστε, ως άνθρωποι και ως χριστιανοί, ο χώρος στον οποίο μεταφέρουμε τη χριστιανική μας οντότητα όλη την οντότητά μας ως άνθρωποι και ως χριστιανοί. Τίποτα δεν αφήνουμε έξω από αυτόν τον χώρο με τη χάρη του Θεού παρουσιάζουμε τα πάντα σε Εκείνον ο οποίος μας κάλεσε και μας συνάθροισε. Όλη την πραγματικότητά μας στην αμαρτία και στη χάρη στην αγάπη και στη συγχώρηση, την λαβαίνουμε και τη ζούμε διαμέσου αυτών των κειμένων τα οποία είναι ταυτόχρονα και ποιητικά και πολύ αληθινά.
         Η θεία λατρεία είναι χώρος της ωραιότητας και μπορούμε να αναρωτηθούμε: που φανερώνεται αυτή η ωραιότητα, που μπορούμε να την συλλάβουμε? Που μπορεί να την αντιληφθεί ο Χριστιανός ή ακόμα και ο απλός άνθρωπος του κόσμου μας, ο οποίος πλησιάζει για πρώτη φορά στη χριστιανική θεία λατρεία?
         Πρώτα πρώτα στην ίδια την ιεροτελεστία. Ως ιερείς και ως πιστοί οφείλουμε να επιδοθούμε για να τελέσουμε και να ζήσουμε καλά τη λατρευτική μας ιεροτελεστία. Και αυτό όχι μονάχα για τον Θεό, ο οποίος είναι η πηγή κάθε ωραιότητας, «ο ωραιότερος μεταξύ όλων των υιών των ανθρώπων», όπως ψάλλει ο ψαλμός σαράντα τέσσερα (44), όχι μόνο για τον Θεό, ο οποίος είναι ο πρώτος και ο μοναδικός λόγος αυτής της λατρείας, αλλά και για μας και για την κοινότητά μας. Η πίστη μας περνά διαμέσου της Ενσαρκώσεως, περνά διαμέσου των ανθρωπίνων μέσων δηλαδή των ιερών μυστηρίων, εφόσον τα ιερά αυτά μυστήρια χρησιμεύουν ως υλικά μέσα για να μας οδηγήσουν στη σωτηρία, που προέρχεται από τον Χριστό. Επομένως ο τρόπος με τον οποίο τελούμε αυτά τα ιερά μέσα (δηλαδή τα ιερά μυστήρια), είναι πολύ σπουδαίος, γιατί αυτός μας αποκαλύπτει την βαθύτερη διάθεσή μας αυτήν την οποία ζούμε στα βάθη της καρδιάς μας.
         Στη δεύτερη θέση, η ωραιότητα για την οποία μιλήσαμε εκδηλώνεται στον ίδιο χώρο της θείας λατρείας. Η ωραιότητα της χριστιανικής θείας λατρείας εκδηλώνεται στον χώρο εκείνο, όπου η κοινότητα συναθροίζεται για να προσευχηθεί εκεί όπου η Εκκλησία μεταδίδει τα ιερά μυστήρια της σωτηρίας. Έχει μεγάλη σπουδαιότητα: ο χώρος αυτός να είναι ωραίος, και την ίδια σπουδαιότητα έχει και η εικονογραφία των πιστών αλλά εξαιτίας του γεγονότος ότι η χριστιανική εικονογραφία είναι ένας χώρος κατηχήσεως για τους πιστούς και για όλους μας.
         Στην Τρίτη θέση η ωραιότητα εκδηλώνεται στο περιεχόμενο των ιεροτελεστιών, ιδιαίτερα στο επίπεδο των κειμένων και των ύμνων. Στη γνωριμία στην εμβάθυνση των κειμένων, τα οποία είναι πηγή ζωής και πηγή προσευχής, η χριστιανική προσευχή αναβλύζει από την καρδιά του ανθρώπου όταν αυτός προσεύχεται. Και τα κείμενα της βυζαντινής θείας λατρείας έχουν έναν τέτοιο πλούτο τον οποίο δεν είναι δυνατό με κανένα τρόπο να τον παραβλέψουμε. Η ωραιότητα των χριστιανικών λατρευτικών τύπων εκδηλώνεται ιδιαίτερα στην ιερή υμνωδία. Όταν  μια χριστιανική εκκλησία ή χριστιανική κοινότητα (εκκλησιαστική επαρχία μοναστήρι, ενορία) ψέλνει καλά, αποδείχνει ότι κατά βάθος αυτό που ψέλνει είναι προσευχή, και αυτό προσεύχεται το ζει.
         Η ωραιότητα της χριστιανικής θείας λατρείας εκδηλώνεται τελικά, αλλά όχι με μικρότερη σπουδαιότητα, στην καρδιά του κάθε χριστιανού, εκεί όπου χάρη στο ιερό μυστήριο του βαπτίσματος ο Κύριος κατοικεί σ’ αυτόν τον άγιο χώρο σ’ αυτόν τον ιερό ναό της θεϊκής παρουσίας, όπου πραγματοποιείται η θεία λατρεία της ζωής μας, στο χώρο ο οποίος μεταμορφώνεται από τα ιερά μυστήρια του Χριστού.
Εάν αυτός ο χώρος δεν είναι ωραίος, δηλαδή εάν εκεί δεν κατοικεί Εκείνος, ο οποίος ομορφαίνει όλα τα πράγματα και μας κάνει να συμμετέχουμε στην ωραιότητά του τότε μάταια θα ομορφαίνουμε την εξωτερική μας θεία λατρεία. Κατά βάθος υπάρχει πάντοτε μία διπλή κίνηση από τα μέσα προς τα έξω και αντίστροφα.
         Θέλω να σας προτρέψω να ζείτε πάντοτε, ιδιαίτερα κατά τις μέρες αυτές, με σε ένα κλίμα αδελφικό ή αν θέλετε μέσα σε ένα κλίμα που να είναι πάντοτε χριστιανικό, εδραιωμένο στις αξίες τις οποίες ο Κύριος μας δίνει κάθε μέρα στο Ευαγγέλιό του. Ας ζούμε την κάθε μέρα μας τις χριστιανικές εκείνες πραγματικότητες που είναι η αγάπη η φιλανθρωπία, η συγνώμη, η υπομονή: ακόμη και η καλή ευθυμία (θα λέγαμε ο καλός και χαρούμενος χαρακτήρας) είναι μία πραγματικότητα, η οποία κάνει την καθημερινή ζωή όλο και πιο ωραία.
         Είθε ο Κύριος να ευλογεί τον καθένα σας και τις οικογένειες σας, και να σας δίνει πάντοτε τη χάρη να τρέχετε, όπως η Μητέρα του Θεού, προς το σπήλαιο της Βηθλεέμ, για να δείτε και να υποδεχθείτε τον Λόγο του Θεού, ο οποίος έγινε άνθρωπος και μας σώζει.

Εύχομαι σε όλους Καλά Χριστούγεννα.
+ O Καρκαβίας Εμμανουήλ Νιν
Επίσκοπος-Έξαρχος Ελληνορρύθμων Καθολικών Ελλάδος
Χριστούγεννα 2016


martedì 1 novembre 2016

Di fronte a quelle chiese rovinate. La speranza che rinasce dalla preghiera. Da Norcia a Qaraqosh.
La tradizione bizantina recita ogni giorno all’inizio del vespro il salmo 103, che nel versetto 32 canta: “…Lui che guarda sulla terra e la fa tremare: tocca i monti e fumano”. In queste settimane che l’Italia è stata ed è ancora investita dalle scosse sismiche, giorni in cui i mezzi ci hanno fornito delle immagini di tanti uomini e donne sfollati, di paesi, case, chiese devastate dal sisma, il versetto del salmo non esce facilmente dalla bocca e dal cuore. Settimane che oltre alle scosse telluriche, abbiamo continuato a sentire le scosse belliche, martellanti su Mosul e altre città della Siria. Luoghi cari a tutti noi, dall’Umbria di san Benedetto alla Piana di Ninive di Sant’Efrem, luoghi dove tanti cristiani lungo i secoli hanno vissuto, hanno pregato, hanno sofferto, hanno aperto i loro cuori al Signore e agli uomini. Luoghi di pellegrinaggio ai posti di nascita o di morte dei santi, da Egeria nel IV secolo alla tomba di sant’Efrem, fino ai nostri giorni il pellegrinaggio di tanti monaci fino a Norcia per trovare il luogo che fu culla di san Benedetto e l’accoglienza di fratelli che lì pregavano nella quotidianità del loro umile servizio.
In ambedue i luoghi, Umbria e Messopotamia, fedeli e monaci hanno pregato, gioito e pianto in quelle chiese oggi ridotte a macerie. Uomini e donne, monaci e monache che a Norcia hanno dovuto lasciare case e celle, masserie e lavoratori del quotidiano impegno monastico, nel pianto e nella sofferenza. Uomini e donne, sacerdoti e fedeli che sono ritornati a casa nella loro Qaraqosh in Iraq, e che mai avevano lasciato nel profondo del loro cuore. Macerie dall’Umbria alla Piana di Ninive, macerie però grondanti dal canto gregoriano dei monaci, dal canto bizantino dei fedeli, dal canto siriaco che porta gli accenti, il suono della lingua parlata da Gesù stesso. Croci buttate a terra dagli uomini, croci crollate al suolo dalle scosse, in queste settimane sono immagini che ci si sono presentate quasi in parallelo ai nostri occhi. Attaccate a quelle croci, tra quelle mura, in quei sassi, erano e sono contenute le preghiere degli uomini e delle donne, dei monaci, delle monache, dei pellegrini, che le hanno sì imbevute di fede e di speranza.
Un confratello monaco in questi giorni mi confessava: “La creazione e il cuore umano portano una ferita che ogni tanto fa tremare tutto”. Ma di questa ferita, che si congiunge sempre a quella del Signore sulla croce, ne sgorga la speranza. Due immagini sono diventate quasi un’icona ai nostri occhi: Monaci e popolo pregando a Norcia, in piazza, inginocchiati tra le macerie…. Monaci e preti e popolo pregando a Qaraqosh, tra le macerie… E da queste macerie, dall’Italia all’Iraq, rinasce la speranza, la vita, e rinasce dalla preghiera del popolo e dei monaci, inginocchiati in piazza, raggruppati attorno a un piccolo altare tra le macerie.
         In queste settimane, da agosto ormai, è stato il terremoto che ha scosso le nostre case, le nostre chiese, i nostri cuori fino a far versare delle lacrime per quella storia venuta giù a pezzi, per quelle persone che hanno perso i loro cari, le loro case, il loro lavoro, si potrebbe dire le loro radici. Ma le radici vere, malgrado le scosse, rimangono lì, a Norcia e a Qaraqosh, no si staccano da una terra che ha loro generato, fatto crescere, vivere, amare.

         Scosse che in queste ultime settimane hanno colpito i nostri occhi, i nostri cuori. Guardare Aleppo devastata fino all’inverosimile, rivedere Mosul nella sofferenza di coloro che quasi martiri ci sono ancora, vedere Qaraqosh nelle sue chiese frantumate, scorgere Norcia, e tanti paesi dell’Italia tra le macerie. Chiese e case sobbalzate dalla terra tremante, e altre distrutte non dalle scosse della terra ma di quelle altre scosse, pure micidiali, delle bombe, e dell’odio. Domenica mattina a Norcia e a Qaraqosh, monaci e popolo erano lì pregando inginocchiati in piazza, celebrando i Santi Misteri attorno a un piccolo altare nei ruderi delle chiese, annunciando la risurrezione di Cristo con fede e con speranza, con un unico canto di vittoria, che non è la vittoria degli uomini ma quella del loro Signore: “Venite, prostriamoci ed adoriamo al Cristo Signore. Salvaci, Figlio di Dio, risorto dai morti”.




mercoledì 14 settembre 2016

L’Esaltazione della Santa Croce nell’innografia di Romano il Melodo.
Oggi la croce riapre ad Adamo il paradiso.
          La tradizione innografica dell’Oriente cristiano adopera spesso il genere letterario del “dialogo” o della “disputa”, cioè la composizione poetica in cui due personaggi o delle volte due luoghi sviluppano lungo un numero variabile di strofe un tema di carattere teologico, servendosi appunto del dialogo/disputa come genere letterario. Efrem (+373) in ambito siriaco e Romano il Melodo (+555) in ambito greco sono due esempi notevoli di innografi che si servono di questo genere letterario. Di Romano abbiamo due inni dedicati alla Croce di Cristo, di cui il primo presenta appunto la discussione tra l’Ade ed il diavolo presentato sotto la forma del serpente. È un testo che sviluppa, lungo ventun strofe, il tema della redenzione di Cristo per mezzo della sua croce; è un poema che in alcune delle strofe raggiunge una profondità e una bellezza uniche nel suo genere. Il filo conduttore del testo è il ritorno di Adamo in paradiso grazie alla croce di Cristo, che ne diventa la chiave per la sua riapertura. I tre primi tropari introducono e situano tutto il poema: “La spada di fuoco non custodisce più la porta dell’Eden, perché al suo posto è sopraggiunto il lego della croce. Il pungiglione della morte e la vittoria dell’Ade sono stati inchiodati… Ed in essa inchiodato tu ci hai redenti, o Cristo Dio nostro… Le creature celesti e terrestri gioiscono con Adamo, perché è stato chiamato di nuovo nel paradiso”. La prima delle strofe, che è poi entrata nella tradizione bizantina come kontakion in alcuni giorni dell’anno liturgico, descrive quasi fisicamente il Golgota e l’Ade che è sconfitto dalla croce di Cristo: “Tre croci piantò Pilato sul Golgota, due per i ladroni e una per il Datore di vita; l’Ade la vide e disse a quelli di laggiù: «O miei ministri e miei eserciti, chi ha conficcato un chiodo nel mio cuore? Una lancia di legno mi ha trafitto all’improvviso… e sono costretto a rigettare Adamo e i nati da lui che a me mediante un albero erano stati dati: un albero li introduce di nuovo nel paradiso»”.


         La disputa tra l’Ade ed il diavolo/serpente inizia dalla strofa seconda, con il rimprovero di costui all’Ade che si accorge di essere sconfitto dalla croce, rimprovero originato dalla cecità del serpente di fronte alla forza della croce di Cristo: “Ade che hai? Perché piangi a vuoto? Ho architettato io lassù per il figlio di Maria questo legno che ti ha spaventato… E’ la croce sulla quale ho fatto inchiodare Cristo, perché con un legno voglio distruggere il secondo Adamo. Non ti turbare, continua a tenere stretti i tuoi prigionieri”. E la risposta dell’Ade rimproverato che diventa quasi una professione di fede nella redenzione avvenuta nella croce: “Corri ed apri bene i tuoi occhi, e guarda la radice del legno dentro la mia anima: mi è scesa fin nel profondo per portare in alto Adamo ed essere ricondotto in paradiso”. Lungo quattro strofe l’innografo prosegue con i rimproveri tra l’Ade ed il diavolo, descritti dal poeta come orbo l’uno e cieco l’altro. L’Ade presenta al serpente la forza della croce di Cristo: “L’ora presente ti mostrerà la potenza della croce e la grande autorità del Crocifisso. Per te la croce è stoltezza, ma da tutto il creato è ammirata come un trono, inchiodato sul quale Gesù ascolta il ladrone e gli dice: «Oggi, povero uomo, con me entrerai di nuovo nel paradiso»”. La promessa fatta da Cristo al ladrone fa reagire ed aprire gli occhi al diavolo cieco che confessa la sua sconfitta; e l’autore sottolinea il legame tra audizione e visione nella confessione del diavolo: “Il serpente vide quel che aveva udito: il ladrone rendere testimonianza a Cristo che testimoniava per lui… E (il diavolo) sbigottito e battendosi il petto diceva: «Parla con un ladrone e non risponde agli accusatori? Neanche di una parola ha degnato Pilato, ed adesso si rivolge ad un assassino?»”. Sconfitto il diavolo cerca rifugio presso l’Ade e nella sua disfatta descrive la salvezza che sgorga dalla croce di Cristo, il luogo della vittoria per mezzo del suo sangue e luogo della vita che sgorga dall’acqua del costato di Cristo. Romano fa parlare ancora il diabolo: “Accoglimi, Ade: presso di te è il mio rifugio! Ho visto anch’io il legno che ti ha spaventato, e arrossato di sangue ed acqua… L’uno prova l’uccisione di Gesù, l’altro prova che egli è vivo, poiché la vita è sgorgata dal suo fianco… ed è stato il secondo Adamo a far rifiorire Eva, la madre dei viventi, di nuovo nel paradiso”. Lungo tutto il testo troviamo delle immagini di una profondità poetica e teologica ineguagliabili: “«Aspetta, Ade sciagurato», disse piangendo il demonio, «taci, sopporta. Sento una voce annunciatrice di gioia, un sussurro mi è giunto che porta buone notizie, un brusio come di foglie dall’albero della croce. Sul punto di morire Cristo ha detto: “Padre, pedona loro… non sanno quel che fanno”. Noi però sappiamo che colui che soffre è il Signore della gloria, che vuol riportare Adamo di nuovo nel paradiso»”. La croce quindi diventa luogo di conversione, non più albero di condanna, vigna dai tralci amari, bensì luogo della dolcezza e della vita: “Piangiamo ora, o Ade, vedendo l’albero che avevamo piantato trasformato in un tronco sacro! Ai suoi piedi hanno preso dimora e fra i suoi rami hanno nidificato briganti e assassini, esattori e meretrici, per cogliere il frutto della dolcezza da quello che pareva un albero secco. Abbracciano la croce come pianta della vita, si aggrappano ad essa per compiere a nuoto la traversata col suo aiuto e approdare di nuovo nel paradiso!”. Romano verso la fine mette in bocca all’Ade il tema del “furto” del ladrone che nella croce “ruba” la sua salvezza: “Nessuno di noi dovrà più far violenza alla stirpe di Adamo, perché è stata segnata dal sigillo della croce, come un tesoro che dentro un fragile scrigno ha una perla inviolabile, che l’accorto ladrone sulla croce è riuscito a sottrarre… e per questo furto è stato chiamato di nuovo nel paradiso!”. L’inno di Romano finisce con una preghiera che rinchiude tutta la teologia della salvezza che viene per mezzo della croce: “Altissimo e glorioso, Dio dei padri e dei fanciulli… la tua croce è la gloria di noi tutti… La nave di Tarsis una volta recava oro a Salomone: a noi il tuo legno procura ogni giorno e ogni momento ricchezza incalcolabile, perché conduce tutti di nuovo nel paradiso".


martedì 6 settembre 2016

XII Symposium Syriacum, Roma agosto 2016
          Nei giorni dal 19 al 24 agosto si sono svolti a Roma il XII Symposium Syriacum, dal 19 al 21, ed in concomitanza con esso il X Congresso Internazionale di Studi Arabo-Cristiani, dal 22 al 24. Arrivato alla sua dodicesima edizione, con una scadenza quadriennale, il Symposium Syriacum questa vota tornava alla sua sede iniziale. Infatti il primo di questi simposi si svolse a Roma, dal 26 al 31 ottobre 1972, nella sede del Pontificio Istituto Orientale che ne era l’organizzatore anche questa dodicesima volta. Il ritorno a Roma del Symposium quest’anno ha voluto indicare in qualche modo quasi l’inizio delle celebrazioni centenarie della fondazione dell’Istituto Orientale a Roma da parte di papa Benedetto XV nel 1917. Il I Symposium del 1972 supponeva l’inizio di una serie di incontri di studiosi della letteratura, della teologia, della patrologia, della filologia, della storiografia di tradizione siriaca, che lungo gli anni avrebbero anche a loro volta dato inizi a incontri di carattere regionale e nazionale di studiosi siriacisti: Libano, Italia, Stati Uniti. Quando le grandi collane di testi siriaci nate e sviluppatesi nel XX secolo arrivarono alla loro maturità, a un numero notevolissimo di testi editi e tradotti (pensiamo a Patrologia Orientalis, Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Anaphorae Syriacae), allora i simposi siriaci, ogni quattro anni, hanno voluto radunare gli studiosi della tradizione siriaca da ogni parte del mondo, dai grandi nomi che hanno segnato le edizioni, le traduzioni e i commenti dei testi antichi siriaci: R. Lavenant, L. Leloir, E. Beck, A. de Halleux, S.P. Brock, P. Bettiolo. Grandi nomi che hanno segnato e continuano a segnare il percorso degli studi siriaci dal punto di vista filologico a quello teologico, liturgico e spirituale. Grandi nomi che hanno contribuito con i loro interventi lungo i simposi a mettere le basi per i futuri studi e approfondimenti nella letteratura siriaca, e hanno spinto -questo è anche un altro dei frutti dei simposi- giovani generazioni di studiosi mettendo nelle loro mani gli strumenti e i fondi da editare e studiare.
          Il XII Symposium Syriacum si è svolto nella sede del Collegio Internazionale San Lorenzo da Brindisi a Roma, ed è stato aperto, dopo i saluti iniziali, dalla lectio magistralis del prof. S.P. Brock dal titolo Melkite Writings in Syriac: A Neglected Field, in cui ha messo in luce l’importanza del fondo di testi conservati in siriaco provenienti dalla tradizione melchita. Nei due giorni e mezzo di studio, gli interventi sono stati distribuiti in diverse aree di studio: dal Nuovo Testamento al cristianesimo in India, dalla tradizione patristica (Efrem, Giacomo di Sarug, Giovanni di Apamea, Narsai) e monastica siriaca, all’agiografia e ai temi di carattere filologico. Una sezione propria l’ha avuta anche l’applicazione dell’informatica agli studi di tradizione siriaca.

          Il X Congresso di studi Arabo-Cristiani si è svolto dal 22 al 24 agosto nella stessa sede. Dopo la lectio magistralis del P. Samir Samir Khalil, dal tema Situation actuelle de la recherche dans le domaine arabe chrétien: projets communs souhaitables, il congresso per due giorni ha visto gli interventi di diversi studiosi che hanno messo in luce l’importanza della letteratura cristiana in lingua araba, dal punto di vista filologico e teologico.

La Natività della Madre di Dio
Oggi nasce il libro del Verbo della vita.
Due grandi feste della Madre di Dio aprono e chiudono l’anno liturgico nella tradizione bizantina: la Natività della Madre di Dio il giorno 8 settembre e la sua Dormizione il 15 agosto. Due feste che ricongiungono il ciclo liturgico in un unico mistero, quello di Cristo, quello di Maria e quello della Chiesa stessa che nasce, come Maria, voluta e amata dal Signore, che percorre con il Signore i grandi momenti della salvezza, e che come Maria è glorificata pienamente in cielo dal Signore che l’accoglie nella gloria. La tradizione bizantina inoltre, nelle grandi feste dell’anno liturgico, legge al vespro tre letture bibliche prese normalmente dall’Antico Testamento, testi scelti in una chiave di lettura allegorica per farne un’esegesi cristologica, mariologica ed ecclesiologica nelle diverse feste. Nelle celebrazioni della Madre di Dio una delle letture sempre utilizzate è Ezechiele 43-44: la descrizione del tempio, con la porta chiusa che guarda ad oriente, e che viene aperta e varcata soltanto dal Signore. Questa lettura cristologica e mariologica dei testi biblici è molto presente nella tradizione bizantina, e nella festa dell’8 settembre, la Natività della Madre di Dio, la troviamo in tre testi letti al vespro: Gen 28: la visione notturna di Giacobbe con l’immagine della scala che sale in cielo; Pr 9: la sapienza che si costruisce una casa; ed infine Ez 44. I testi dell’ufficiatura inoltre adoperano altri testi profetici, come Isaia e Daniele. Testi biblici letti in una chiave cristologica e mariologica, e che sono un bell’esempio di come la liturgia diventa luogo di professione di fede, e luogo di esegesi cristiana dei testi veterotestamentari nella scia dei Padri sia orientali che occidentali.
A partire del testo di Ezechiele 44, la liturgia presenta con delle immagini quasi opposte e contrastanti da una parte la sterilità di Anna, e dall’altra la verginità di Maria. Essa è la porta che guarda all’oriente e, nell’incarnazione del Verbo di Dio diventa il libro in cui la Parola viene scritta nella carne umana: “Questo è il giorno del Signore, esultate, popoli: poiché ecco, il talamo della luce, il libro del Verbo della vita, è uscito dal grembo; la porta che guarda a oriente è stata generata, e attende l’ingresso del sommo sacerdote, lei che in­tro­duce nel mondo, sola, il solo Cristo, per la salvezza delle anime nostre”. La porta di cui parla Ezechiele è presentata e cantata dalla liturgia come immagine dell’incarnazione del Figlio di Dio, unica porta per cui Lui entra nel mondo: “Anche se, per divino volere, famose donne sterili hanno generato, pure, al di sopra di tutti i loro figli, divinamente risplende Maria, poiché, prodigiosamente partorita da madre sterile, ha partorito nella carne il Dio dell’universo, da grembo senza seme, oltre la natura: unica porta dell’Uni­ge­nito Figlio di Dio, che attraver­sandola l’ha custodita chiu­sa, e tutto dispo­nen­do con sapien­za come egli sa, per tut­ti gli uomini ha operato la salvezza”. I testi liturgici, servendosi della stessa immagine della porta, dopo il contrasto, la utilizzano per mettere in parallelo sterilità e verginità, di Anna e di Maria: “Oggi le porte sterili si aprono e ne esce la divina por­ta ver­ginale. Oggi la grazia comincia a dare i suoi frutti, ma­nifestando al mondo la Madre di Dio, per la quale le cose ter­restri si uniscono a quelle celesti, a salvezza delle anime nostre”.
Il testo di Ezechiele è usato ancora dai testi dell’ufficiatura della festa con una lettura collegata sia alla verginità di Maria sia all’incarnazione del Verbo di Dio: “Il profeta ha chiamato la santa Vergine porta invalicabile, custodita per il solo Dio nostro: per essa è passato il Signore, da essa procede l’Altissimo e la lascia sigillata, liberando la nostra vita dalla corruzione. Il nesso stretto tra liturgia e professione di fede lo troviamo in uno dei testi del vespro che con delle immagini poetiche di straordinaria bellezza canta Maria come luogo dell’incarnazione del Verbo, luogo della congiunzione delle due nature in Cristo:“Venite, fedeli tutti, corriamo verso la Vergine, per­ché ec­co, nasce colei che prima di essere concepita in seno è stata predestinata ad essere Madre del nostro Dio; il tesoro della verginità, la verga fiorita di Aron­ne, che spunta dalla radice di Iesse, l’annuncio dei profeti, il germoglio dei giusti Gioacchino e Anna nasce, e il mondo con lei si rin­nova. Essa è partorita, e la Chiesa si riveste del proprio de­co­ro. Il tempio santo, il ricettacolo della Divinità, lo stru­mento verginale, il talamo regale nel quale è stato portato a compimento lo straordinario mistero della ineffabile unione delle nature che si congiungono in Cristo: adorando lui, celebriamo l’immacolata nascita della Vergine.
I testi della liturgia odierna inoltre sottolineano sia la preghiera di Gioacchino ed Anna nell’angoscia per la loro mancanza di discendenza, sia la grande gioia per la nascita di Maria: “Sterile, senza prole, Anna batta oggi gioiosa le mani, si rivestano di splendore le cose della terra, esultino i re, si allie­tino i sacerdoti tra le benedizioni, sia in festa il mondo intero: perché ecco, la regina, l’immacolata sposa del Padre, è germogliata dalla radice di Iesse. Non partoriranno più figli nel dolore le donne, perché è fiorita la gioia, e la vita degli uomini abita nel mon­do. Non saranno più rifiutati i doni di Gioacchino, perché il lamento di Anna si è mutato in gioia ed essa dice: Rallegratevi con me, tutti voi del po­polo eletto Israele: poiché ecco, il Signore mi ha donato la reggia vivente della sua divina gloria, per la comune letizia, gioia e salvezza delle anime nostre. La festa della Natività di Maria mette in luce sia la preghiera e il gemito di Gioachino ed Anna ascoltati dal Signore, sia anche l’inizio della salvezza che ci viene da colei che porta il frutto vivificante per i cristiani, Cristo Verbo di Dio incarnato.




giovedì 11 agosto 2016

La Dormizione della Madre di Dio
Salvati dalla sua vigile intercessione.
         La festa della dormizione della Madre di Dio è l’ultima delle grandi feste nel calendario delle Chiese di tradizione bizantina. Il ciclo liturgico annuale ha la prima grande festa il giorno 8 settembre con la celebrazione della nascita della Madre di Dio, e si conclude con la sua dormizione, il suo transito glorioso in cielo accolta tra le braccia di suo Figlio. I testi della liturgia di questa festa abbondano nell’esegesi di carattere cristologico ed ecclesiologico di molti passi dell’Antico Testamento, proponendo soprattutto delle immagini bibliche applicate a Maria e al suo ruolo nel mistero dell’incarnazione del Figlio e Verbo di Dio. Una delle immagini che più è presente nella liturgia odierna è quella dell’arca: “arca tutta d’oro… nuova arca dell’alleanza che è portata nel santuario…”, presa da Es 25,10. Come l’arca dell’alleanza è portata nel tempio, anche Maria vi è paragonata nel suo transito, nel suo ingresso nella gloria di Dio. Il titolo di arca applicato a Maria lo troviamo anche in un’altra delle grandi feste dell’anno liturgico, quella del 21 novembre, cioè il suo ingresso nel tempio. Maria, portata al tempio da fanciulla, ed entrando ora nella gloria del cielo, è presentata come la nuova arca dell’alleanza che porta nel suo grembo il Verbo di Dio incarnato. In alcuni dei testi liturgici troviamo delle immagini che mettono in risalto il rapporto tra il cielo e la terra, tra la divinità e l’umanità nel mistero celebrato in questo giorno: “O straordinario prodigio! La fonte della vita è deposta in un sepolcro, e la tomba diviene scala per il cielo. Rallegrati, Getsemani, santo sacrario della Madre di Dio”. Ritroviamo queste immagini quasi opposte tra la fonte di vita e la sepoltura, tra la tomba sulla terra e la scala che sale nei cieli, anche nei testi del Sabato Santo quando si canta la morte e sepoltura di Cristo.
         La liturgia della festa odierna è anche una confessione di fede nella vera incarnazione del Verbo di Dio e nella sua doppia consustanzialità come vero Dio e vero uomo: mentre l’ascensione di Cristo ne sottolinea la sua natura divina, la dormizione e l’assunzione in cielo di sua Madre ne sottolinea la vera natura umana: “Era conveniente che i testimoni oculari e ministri del Verbo vedessero anche la dormizione della Madre sua secondo la carne, l’ultimo dei misteri che la riguarda, perché non risultassero spettatori solo dell’ascensione del Salvatore dalla terra, ma anche testimoni del transito di colei che lo aveva generato”. I testi sottolineano il rapporto di maternità di Maria verso suo Figlio, ma anche il rapporto sponsale: “La sposa tutta immacolata e Madre del beneplacito del Padre, colei che da Dio è stata prescelta come luogo della sua unione senza confusione, consegna oggi l’anima immacolata a Dio Creatore”.
         L’esegesi cristologica e mariologica specialmente dei salmi è molto presente nei testi liturgici della festa. Diversi dei tropari riprendono il versetto 6 del salmo 30: “Nelle tue mani affido il mio spirito… Signore, Dio fedele”, applicato al transito di Maria in cielo, ed anche evidenziato nell’icona della festa dall’immagine dell’anima di Maria accolta tra le braccia del Figlio: “Colei che su tutti regna, consegna la sua anima nelle mani del Figlio… Deposta la tua anima tra le mani di coli che, tuo Creatore e Dio, da te per noi si è incarnato…, nelle mani di colui che da lei, senza seme, si è incarnato”. La liturgia, adoperando questo versetto salmico, sottolinea due immagini che ritroviamo in molti dei tropari: Maria nelle mani del Figlio e nelle mani del Creatore. Oltre al salmo 30, altri salmi vengono applicati allegoricamente al mistero che oggi si celebra. I salmi 23,7; 44, 15, e specialmente il salmo 131 in diversi dei suoi versetti, particolarmente nel versetto 8: “Sorgi, Signore, verso il tuo riposo, tu e l’arca della tua santità”. Uno dei tropari del vespro mette in parallelo in modo contrastante Maria che ha partorito il Verbo incarnato, ed il cielo che apre il suo grembo per accoglierla, quasi per “partorirla” alla vita nuova: “Vieni, assemblea degli amici della festa, venite e formiamo un coro… nel giorno in cui l’arca di Dio giunge al luogo del suo riposo. Oggi infatti il cielo apre il suo grembo per ricevere colei che ha partorito colui che l’universo non può contenere; e la terra, consegnando la fonte della vita, si abbiglia di benedizione e decoro. Gli angeli fanno coro insieme agli apostoli, fissando pieni di timore colei che ha partorito l’autore della nostra vita mentre passa da vita a vita”. Il doppio coro, degli angeli in cielo e degli apostoli in terra diventa anch’esso un’icona della confessione della fede della Chiesa nel Verbo di Dio incarnato come vero Dio e vero uomo. Altri testi ancora riprendono questo paragone tra il grembo di Maria che accoglie nell’incarnazione il Verbo di Dio, ed il cielo che la accoglie gloriosa in questo giorno: “Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora. Colui che, incarnandosi, o Madre-di-Dio, ha straordinariamente abitato nel tuo grembo immacolato, lui accogliendo il tuo sacratissimo spirito, in sé stesso gli dona riposo… Oggi la Madre di Dio ha reso paradiso la tomba che ha abitata”. Il grembo e le braccia di Maria accolgono l’incarnazione del Figlio di Dio, il cielo e le braccia del Figlio diventano trono per la Madre di Dio.
         Molti dei tropari cantano infine Maria come interceditrice. In uno dei testi troviamo un’immagine molto bella dell’intercessione, della preghiera vegliante di Maria per la Chiesa: “Per la dormizione dell’unica Madre di Dio esulti il cuore di tutti i fedeli, salvati dalla sua vigile (insonne) intercessione”. Maria è colei che, come i monaci nella Chiesa, veglia incessantemente nella preghiera. In molti altri tropari della festa ritroviamo questa insistenza nella preghiera di intercessione di Maria presso il Figlio: “Non dimenticarti, Sovrana, di quanti festeggiano con fede la tua santissima dormizione… Colei che senza sosta intercede perché a tutta la terra siano donate la pace e la grande misericordia…”.