giovedì 30 luglio 2020



Benediamoci / Daniele Piccioni, Roma 24/07/2020

Note personali in punta di piedi, ad un testo di Daniele Piccioni.

Con la trepidazione di qualcuno che non osa calpestare un bel tappeto, bello ed unico, uscito dalla mano e dal cuore del tessitore, custode sia costui che l’opera stessa, di una bellezza che calpestandola si teme quasi di violare, con questa trepidazione e allo stesso tempo con l’audacia di un’amicizia anch’essa “tessuta” negli anni, mi azzardo a dire qualche parola sparsa e senza pretese su un testo che in sé stesso non ha bisogno di commenti bensì vuole soltanto essere letto nella sua bellezza anch’essa a modo suo vergine. Si tratta di un bel testo, una riflessione profonda sia di carattere antropologico sia, in fondo anche teologico, a cui l’autore ci ha abituato in altre opere sue, e in qualche chiacchierata serale che, pur essendo informale, non è stata per questo meno profonda. Parlare dell’uomo, dei suoi rapporti personali ed interpersonali, è parlare anche del rapporto dell’uomo con Dio. In fondo si tratta di una vaticinazione a cui l’autore tiene molto come genere letterario. Quindi si prendano queste mie note come passi in punta di piedi attorno a un bel tappeto, nella speranza di non calpestarne o sbiadirne la bellezza originale. Il testo è diviso da me, per inserirvi le piccole note, i piccoli passi…, ma va letto nella sua unità ed unicità.

 Il progresso futuro si svilupperà intorno a un nuovo modo di stare insieme. Sarà come se ci dicessimo mentalmente: “BENEDIAMOCI”, nel senso di darci l’un l’altro il bene che meritiamo. Quanto più ci “benedaremo” con convinzione, tanto più saremo pronti, non solo a parole ma anche nei fatti, ad adoperarci fin da subito e insieme a cercare, scoprire e donare l’un l’altro il bene auspicato.

Il nuovo modo di stare insieme con cui l’autore inizia la sua riflessione, la sua vaticinazione perché in fondo di questo si tratta, si riassume poi nella frase conclusiva del testo: tu e io…”, “voi e io…” , “tu e noi…”, “voi e noi…” benediamoci! Questa frase finale si trova già presente in qualche modo all’inizio e lungo tutto il testo: “Il progresso futuro si svilupperà intorno a un nuovo modo di stare insieme. Sarà come se ci dicessimo mentalmente: “Benediamoci…”. Creando il neologismo del “benedare”, l’autore mette sul tavolo non soltanto una “nuova parola” ma soprattutto un “nuovo modo” di stare insieme, di vivere la nostra umanità. Oso dire che nella mente e la nella riflessione dell’autore, i mesi di confinamento hanno dato -o dovrebbero- portare alla luce e forse questa è la sua vaticinazione lungo il testo, un nuovo modo di stare insieme, e non soltanto di stare ma soprattutto di vivere, perché di questo si tratta.

 La convinzione con la quale esprimeremo questa intenzione è fondamentale. Implica cioè un fondamento: l’idea che a un livello segreto e profondo – non solo dentro di me e nei miei cari ma nella psiche di un estraneo qualunque affondano le radici della nostra comune consapevolezza di esistere e – soprattutto – risiede una bellezza ignota, in attesa di venire alla luce, una bellezza così magnifica e struggente che chiunque riuscisse (anche solo in minima parte) a scoprirla non vorrebbe il male di un altro che a sua volta la possiede dentro di sé, in gran segreto, spesso senza saperlo.

“…darci l’un l’altro il bene che meritiamo…”, abbiamo trovato all’inizio del testo nel paragrafo precedente. Il benedare, dato ed accolto sempre a vicenda, ci porta a riscoprire nell’altro, sia vicino che estraneo, quella bellezza unica e splendida: “l’idea che a un livello segreto e profondo… risiede una bellezza ignota, in attesa di venire alla luce, una bellezza così magnifica e struggente…”. Una bellezza che, scoperta e “benedata” porterà alla salvezza del mondo, alla salvezza della nostra umanità: “chiunque riuscisse… a scoprirla non vorrebbe il male di un altro che a sua volta la possiede dentro di sé”. Si tratta in fondo della bellezza, sì dell’altro, ma soprattutto la bellezza nell’altro, una bellezza data a lui e a noi da un Altro che gliel’ha messa come un seme di vita. Quest’Altro è il Figlio, l’unico che funge veramente da intermediario, da ponte in noi e verso gli altri.

 Al cospetto di questa emozionale bellezza interiore sbiadisce persino la ricchezza materiale più grande. Vuol dire che siamo tutti interiormente preziosi. Lo è persino un inganno vivente, un individuo superficiale, sopraffattore e corrotto che si identifica solo con la propria maschera che in latino si dice appunto e non a caso “persona”. Non appena anche questa “persona” riuscirà finalmente a scoprire la bellezza comunemente ignorata donerà spontaneamente il bene anche a noi e nel “benedarci” con convinzione gli uni con gli altri, libereremo tra noi la sorgente di quel potente ed appassionante impulso coesivo necessario al progresso e alla piena maturazione dei frutti migliori che l’umanità ha visto – e continua ancora a vedere – persino nelle situazioni più disperate.

Al cospetto di questa emozionale bellezza interiore sbiadisce persino la ricchezza materiale più grande. Vuol dire che siamo tutti interiormente preziosi. Lo è persino un inganno vivente, un individuo superficiale, sopraffattore e corrotto…”. Il tappeto a cui giriamo attorno, trasuda una visione antropologica molto bella e in fondo audace perché è anche positiva. “…siamo tutti interiormente preziosi”. Forse questa è una delle affermazioni più audaci di tutto il tappeto. La Bellezza dell’altro, la Bellezza che è in noi e che salva. Senza una maschera che la copre, che la nasconde, ma una maschera vera e propria, cioè quella “persona”, quel “πρόσωπον” greco che era usato appunto come strumento per “far sentire, far risuonare” la vera voce, la voce che tira fuori il vero, la verità e la bellezza che è nell’attore nascosto in ognuno di noi. “…e nel “benedarci” con convinzione gli uni con gli altri, libereremo tra noi la sorgente di quel potente ed appassionante impulso coesivo necessario al progresso e alla piena maturazione dei frutti migliori che l’umanità ha visto – e continua ancora a vedere – persino nelle situazioni più disperate.”.

 Non importa se l’altro o gli altri si limiteranno per chissà quanto ancora a pretendere il bene senza donarlo: nelle civiltà del futuro il nostro esempio sarà la forza più persuasiva ed attiva. Prima o poi sgretolerà anche le “maschere” più radicate e contorte e accenderà il desiderio di portare alla luce in noi stessi e negli altri tutta la bellezza nascosta, perché chiunque ne troverà finalmente un barlume ne sarà soddisfatto e il benessere risultante sarà così contagioso da indurlo a donarlo anche agli altri, senza dubbi né esitazioni.

Bella immagine dell’esempio che diventa, nel nostro e nel nuovo mondo, la forza più persuasiva, e che in fondo fa risuonare la maschera, fa uscire quello che è nel cuore dell’uomo, nel nostro cuore. La maschera alla fine però, è destinata a sgretolarsi, a non essere più mediazione, ma di farci arrivare alla visione diretta, al “benedarci” senza limiti né intermediari: “…sgretolerà anche le “maschere” più radicate e contorte e accenderà il desiderio di portare alla luce in noi stessi e negli altri tutta la bellezza nascosta, perché chiunque ne troverà finalmente un barlume ne sarà soddisfatto e il benessere risultante sarà così contagioso da indurlo a donarlo anche agli altri, senza dubbi né esitazioni”. La Bellezza è sempre contagiosa, porta in sé stessa il “benedare” innato in essa.

 Come possiamo avvicinarci nella maniera più rapida possibile a questo futuro? Semplice… presentemente con le nostre migliori azioni e intenzioni… “tu e io…”, “voi e io…”, “tu e noi…”, “voi e noi…” benediamoci!

Vaticinazione, avvicinarci, far presente il futuro, come se di una liturgia sacra si trattasse: “Come possiamo avvicinarci… a questo futuro? Semplice… presentemente con le nostre migliori azioni e intenzioni”. Nel pensiero dell’autore, e di questo ne sono testimoni le nostre belle chiacchierate serali a Roma, si tratta di un “nuovo modo di stare insieme” che corrisponde sicuramente a quello “che dicevano i Padri quando parlavano dell’uomo nuovo in contrapposizione all’uomo vecchio”. Come se volesse di nuovo sottolineare il rapporto diretto tra la freschezza interiore da un lato e la compassione, l’altruismo e la generosità dall’altro. Chi riuscirà con grande umiltà a farsi una idea seppur vaga del vero sé (al di là della propria maschera o personalità) inevitabilmente sarà più vicino alla dimensione eterna e divina nascosta alla base del proprio essere.

Finalmente la Bellezza venuta alla luce, sia quella annunciata “benedetta”, sia quella data “benedata”, diventa Vangelo, diventa la parola del Logos incarnato: “tu e io…”, “voi e io…”, “tu e noi…”, “voi e noi…” benediamoci!”.

Dopo questi passi timorosi e girati attorno al tappeto, la lettura del testo in sé stesso, il testo in grassetto e corsivo, è quel che resta da fare. Le parole mie in tondo, i passi miei attorno al tappeto, spero che non ne abbiano sfigurato né storto la bellezza. Camminiamoci attorno.





sabato 25 luglio 2020



La meraviglia del sultano. Atene, 24 luglio 2020

Scrivo queste note quando le campane di tutte le chiese della Grecia suonano a morto, a mezzogiorno di oggi 24 luglio 2020, dopo la decisione del presidente turco, cioè far ridiventare moschea la basilica di Santa Sofia a Costantinopoli. Una storia, quella di questa chiesa cristiana, travagliata come lo fu quella dello stesso impero bizantino di cui era -e rimane tuttora nella mente e nel cuore dei cristiani orientali- icona e memoria indelebile: consacrata chiesa cristiana nel 537, e dedicata alla Sofia, alla Sapienza di Dio, subì in qualche modo le sorti dello stesso impero bizantino, nelle vittorie e nelle sconfitte, nelle meraviglie e nelle miserie che lo contrassegnarono. Diventata chiesa di rito latino dopo la conquista della città da parte dei crociati nel 1204, lo rimase fino al 1261 quando tornò ad essere chiesa di rito bizantino. Dal 29 maggio 1453, alla caduta della città di Costantinopoli nelle mani ottomane, fu convertita in moschea fino al 1935 in cui fu adibita a museo. Storia travagliata, complessa e sofferta.

Ma, ascoltando in questo mezzogiorno ateniese le campane a morto, preferisco smettere di scrivere queste note, per non farlo troppo “a caldo” e con delle parole di cui poi non dico dovrei pentirmi ma sicuramente dovrei forse chiarire per evitare malintesi o letture manipolate. Riprendo la scrittura soltanto nel pomeriggio, ancora un caldo pomeriggio d’estate ad Atene, ma spero di farlo con la mente forse un po’ più se non serena sicuramente più fredda.

Quando nel 1453 Costantinopoli cadde nelle mani delle truppe del sultano Mehmed II, la città fu messa a fuoco e sangue dalle truppe ottomane vincitrici. La morte., la distruzione, il sangue erano di casa nelle strade della grande capitale ormai ridotta a rovina, a città vinta ed umiliata. Nella basilica patriarcale di santa Sofia, dopo l’arrivo delle truppe ottomane e l’uccisione sull'altare dei sacerdoti celebranti i Santi Misteri, l'unica liturgia celebrata lì furono le lacrime, la paura, il terrore nella bocca e negli occhi dei pochi che lì erano ancora presenti. L’unica preghiera era il pianto ed il silenzio; il Corpo ed il Sangue di Cristo offerti sull'altare era diventato quello dei cristiani, del suo Corpo, sacrificati ed uccisi sulle strade della città. Il patriarca, i sacerdoti, tutto il clero ed i fedeli erano stati uccisi, imprigionati oppure erano nascosti in attesa delle risoluzioni di coloro che, per diritto di conquista, erano diventati i signori di quella grande città, Costantinopoli, una volta lei stessa signora del Mediterraneo e del mondo cristiano intero. A Santa Sofia in quel giorno l'unico grande ingresso nella possiamo dire liturgia di sconfitta fu quello del sultano montato sul suo cavallo, scortato non dai cherubini bensì dalle truppe assettate di sangue e di morte.

La tradizione vuole che la visione stessa, la luce, la bellezza di quel luogo di preghiera cristiana, lo sguardo allo stesso tempo penetrante e mite di quei mosaici, di quelle icone uniche nel suo genere in tutto il mondo cristiano, colpirono se non il cuore almeno lo sguardo del sultano che diede ordine non di distruggerli ma di coprirli, di nasconderli. Quasi che coprendoli riuscisse a dimenticare sì quello che quel luogo era stato ma soprattutto a dimenticare la bellezza, quella Bellezza unica, quella Sapienza di Dio, cioè Colui che è il più bello tra i figli degli uomini, quella bellezza che è l’unica che, ancora oggi può o potrebbe salvare il mondo. E quei mosaici, quelle icone in grandissima parte rimangono ancora oggi coperti, accecati, ammutoliti.

Tornando ad oggi, a questo caldo pomeriggio ateniese, dopo aver sentito il rintocco delle campane di tutte le chiese greche, ortodosse e cattoliche che fossero, cosa emerge dai nostri cuori cristiani, noi uomini e donne della Grecia, dell’Europa, cuori che da Oriente ad Occidente vogliono e sanno di essere un ponte, una parola di fede, una preghiera di comunione nell'incontro, nel dialogo e nella fraternità tra le culture del nostro mondo, della nostra Europa che allo stesso tempo Orientale e Occidentale ha sempre saputo di esserlo.

Cosa emerge dai nostri cuori? Forse tristezza per un fatto che crea più tensione che comunione, più disprezzo e forse odio che non amore e fraternità? Forse delusione anche per un silenzio, una arrendevolezza, una sottomissione che speravamo non sarebbero stati usati ancora una volta nella politica del nostro mondo europeo? Forse rivolta e magari rabbia di fronte proprio a questo mondo che contempla muto, rassegnato, sconfitto nelle proprie radici cristiane, contempla un fatto che altro non è se non prepotenza e disprezzo di una storia millenaria, di una cultura e di una fede? Dai nostri cuori però dovrebbe emergere anche lo sguardo di fede, di una fede che non dimentichiamolo è sempre crocefissa, che ha sempre la Croce di Cristo come suo centro. “Forse oggi potrebbe, dovrebbe sicuramente emergere dai nostri cuori, ancora una volta, la contemplazione straziante e incoraggiante del Cristo crocifisso” (Joseph Ratzinger).

Magari nel nostro cuore, non dico ferito ma sì deluso rimanesse il desiderio di vedere un giorno scoperta quella bellezza celata, accecata e coperta, che tuttora c’è lì attaccata alle pareti della basilica di Santa Sofia, una Bellezza che una volta ritrovata porterà, di questo ne siamo sicuri, non ad un odio, o ad un disprezzo ma a un riscoprire e rivivere la fraternità, la riconciliazione, il Vangelo in essa dipinto. Epifania di quel: Quod audivimus sic et vidimus in civitate Dei nostri (Quello che abbiamo udito l’abbiamo anche visto nella città del nostro Dio), come recita il salmo 47,9.

Ho messo come titolo di queste note “La meraviglia del sultano”, prendendo spunto di quello che la tradizione legata alla conquista di Costantinopoli ci dice di quel che accadde nello sguardo del conquistatore ottomano. Sarebbe stato troppo facile lasciarsi prendere dal sentimento che ci tocca in quest’oggi, e mettere un titolo disfattista e magari disperato, sentendo il rintocco lugubre delle campane di Atene in questo giorno. Un titolo, “la meraviglia del sultano”, che vorrebbe sperare che un giorno questa meraviglia, quella Bellezza oggi accecata, possa riapparire, possa risorgere e guarire il cuore e lo sguardo del nostro mondo.