martedì 23 gennaio 2024

 

Icona di sant'Isacco di Ninive


“…e vedrà che è un’opera bella…”.

Fare il vescovo nel VII e nel XXI secolo.

 

          Quando il 2 febbraio 2016 fu pubblicata la mia nomina a vescovo ed Esarca apostolico in Grecia, il compianto confratello Franghiskos Papamanolis (1936-2023), vescovo dell’isola di Syros nelle Cicladi in Grecia per ben quarant’anni, ed in quel 2016 anche Presidente della Conferenza Episcopale Greca, mi chiamò per farmi gli auguri, assicurandomi la sua fraterna vicinanza e la sua preghiera. E da subito mi consigliò di leggere nella versione latina della Vulgata il testo paolino di 1 Tim 3,1: “…si quis episcopatum desiderat, bonum opus desiderat…” (…se qualcuno desidera l’episcopato, desidera un’opera…, una cosa buona…), e mi suggerì, allo stesso tempo “di spostare la virgola”. E, tra sornione e serio mi spiegò cosa intendeva con questo gioco o movimento di parole o di virgole. Mi disse che, se la virgola si sposta dal verbo “desiderat” all’aggettivo “bonum”, la frase diventa: “…si quis episcopatum desiderat bonum, opus desiderat…”, che si può tradurre come: “… se qualcuno desidera un episcopato buono, desidera “un impegno, un lavoro, un’opera… (opus)”, cioè “fare bene il vescovo” è un peso, un lavoro, un impegno non da poco. E il caro vescovo Francesco concludeva la sua chiamata telefonica di augurio dicendomi: “…quindi, desiderare un buon episcopato, di essere un bravo vescovo è un peso, una croce e dovrai darti da fare…”.

          La chiamata del vescovo Francesco mi è ritornata alla memoria con la lettura del “Commento al Paradiso dei Padri” di Dadisho Qatraya, che mi ha portato ad imbattermi -uso questo termine perché è un tema che non mi sarei mai aspettato di trovare-, in una domanda e risposta tra i discepoli e Dadisho che porta al tema del sacerdozio e più concretamente dell’episcopato, e alle sue difficoltà, al peso che suppone il ministero di “vegliare sul gregge”, e quindi alla tentazione, reale e non letteraria, di fuggire sia prima sia dopo l’accettazione di questo giogo, di questo peso, di questo opus. Si tratta di un testo che ha un’attualità direi unica e per questo mi permetto di trascriverne la traduzione e condividerlo. Come indicavo in un mio commento precedente sullo stesso Padre della Chiesa siro orientale, anche questo testo lo troviamo nell’opera “Commento al Paradiso dei Padri” di Dadisho Qatraya, monaco siro orientale vissuto nella seconda metà del VII secolo nel Beth Qatraya, regione costiera ad ovest del Golfo Persico, zona molto importante per la fioritura di monasteri, di figure e testi monastici di tradizione siriaca. Semplicemente trascrivo la traduzione del testo, fatta dall’originale siriaco e alla fine ne sottolineo qualche aspetto che ritengo sia importante ed anche molto attuale. Si tratta della risposta che Dadisho dà ai suoi discepoli monaci su diverse questioni sia ecclesiali, sia spirituali.

 

Dadisho Qatraya, Commento al Paradiso dei Padri I,32.

Domanda dei fratelli. Il beato (apostolo) Paolo afferma: “Colui che desidera l’episcopato, desidera una opera buona” (1Tim 3,1), e il beato Interprete (Teodoro di Mopsuestia), nel suo “Libro sul sacerdozio”, dà un avvertimento al suo amico Ciriaco per convincerlo di rimanere nell’ordine episcopale che aveva ricevuto. Come mai allora il santo uomo Paolo, vescovo della città di Qentos in Italia e che fu collaboratore di Giovanni di Edessa, dopo quindici giorni sul trono episcopale si accorse della moltitudine di distrazioni e chiese a Dio di poter dimettersi dal suo ufficio, e Dio glielo permise per mezzo di una rivelazione?

Risposta di Dadisho. 1 Non c’è niente di più amato e prezioso davanti a Dio della giustizia dei giusti. Essa è la causa di tutte le cose buone che accadono sulla terra. Cioè, voglio dire il sacerdozio e tutti gli altri doni che in cielo vengono dispensati dal grande Sacerdote della nostra confessione di fede, nostro Signore Gesù Cristo. Infatti, san Paolo si accorgeva che molti, mancati di saggezza e di una buona condotta, desideravano di essere messi a capo (desideravano la preeminenza, il presiedere), a causa della loro vanagloria, mentre che molti altri che avevano acquistato la conoscenza con una condotta nobile, fuggivano l’essere messi a capo (la preeminenza, il presiedere) a causa della loro umiltà. Siccome questi fatti mettono inciampi all’insegnamento e alla pratica della fede cristiana, afferma: “Colui che desidera l’episcopato, desidera una opera buona”, e con questo vuole dire: “Io non metto impedimenti né spingo a ciò (all’episcopato). Infatti, se io spingessi, tanti andrebbero di corsa verso il sacerdozio, anche gli stupidi e i malvagi; ma, se io mettessi impedimenti, nessun saggio neppure virtuoso si avvicinerebbe (all’episcopato)”.

2 E allora? Colui che vuole essere vescovo, o sacerdote, o superiore o guida (di una comunità), non deve guardare all’onore che viene dal sacerdozio e non deve desiderarlo per ragioni di onore o di potere. Deve guardare invece all’opera (lavoro, sforzo, opus…) del sacerdozio, cioè i duri e molteplici sforzi (lavori) che sono ad esso collegati. Ha la saggezza naturale e si istruisce nei libri Santi? È saldo nella fede e si impegna a mantenere la disciplina della sua vita? In più acquista anche delle virtù che vanno oltre a quelle comuni, cioè la bontà, la dolcezza, la serenità, l’umiltà, la misericordia, il perdono, il discernimento e la comprensione? È stato scelto dalla grazia divina per i lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio e che servono la volontà dello spirito del sacerdozio, e non a causa delle passioni e per l’intervento di adulatori? Che quest’uomo ne sia convinto, e vedrà che è un’opera bella.

3 Il beato Interprete (Teodoro di Mopsuestia) diede un consiglio al suo amico Ciriaco per convincerlo a rimanere fedele all’ordine sacerdotale e (diede) cinque ragioni. Primo, perché l’aveva ricevuto da molto tempo. Secondo, perché era stato scelto da tanti uomini timorosi di Dio. Terzo, a causa della sua saggezza e conoscenza. Quarto, a causa della sua vita nella virtù. Quinto, a causa della sua grande umiltà. Infatti, questa lo costringeva a rifiutare l’ordine non soltanto all’inizio della sua elezione, ma anche dopo che era stato costretto (ad accettare) per la forza, continuava a rifiutare con ardore.

4. Il beato Paolo fu un uomo giusto e virtuoso, era umile e disprezzava sé stesso. Amava il silenzio e la solitudine. Per questa ragione, né le distrazioni che venivano dell’essere messo a capo, né i molteplici impegni, non gli giovavano. Quindi, quando tantissime persone lo costrinsero (ad accettare) il sacerdozio, dopo quindici giorni con lacrime e tanta sofferenza chiese al Signore di accettare le sue dimissioni, per poterlo servire in un modo di cui fosse capace e gli fosse di profitto, cioè un lavoro come manovale all’estero, nel disprezzo e l’umiliazione. Nella sua bontà, il Signore, vedendo la sua umiltà, accettò e lo fece per due ragioni: in primo luogo perché per lo stesso Paolo sarebbe stato profittoso; in secondo luogo, per evitare che tanti stolti desiderassero accedere al primo posto e quindi (evitare) le lotte che ne verrebbero fuori.

 

          Annotazioni al testo.

1.     Nel VII e nel XXI secolo, accettare l’episcopato, essere vescovo è una croce che il Signore dà ad alcuni, dandoci anche, ne siamo certi, per Sua misericordia e per Sua grazia, la forza per portarla. Quel “episcopatum bonum” sorto dallo spostamento della virgola nel testo paolino, sarà sempre Lui, il Signore, che è il primo ed unico grande επίσκοπος della sua Chiesa, che ci darà di portarlo a termine malgrado le nostre debolezze, le nostre imperfezioni, sempre guarite e redente dalla Sua Divina Grazia. Come non ricordare qua il testo di una delle più arcaiche preghiere di ordinazione in Oriente: “La Divina Grazia che sempre guarisce ciò che è infermo e completa ciò che manca”.

2.    Tra i Padri della Chiesa, greci, latini, siriaci…, abbiamo esempi di figure che cercano di sfuggire o addirittura fuggono l’ordinazione sia presbiterale sia episcopale. Addirittura, abbiamo qualche esempio di “fuga, rifiuto, rinuncia…” avvenuta anche dopo l’ordinazione. Il grande Isacco di Ninive (autore siriaco del VII secolo), consacrato vescovo di Ninive, dopo cinque mesi di episcopato “per una ragione che soltanto Dio conosce” -come afferma un suo biografo-, si ritirò in un monastero dove si applicò allo studio della Sacra Scrittura e alla vita solitaria. Quindi le risposte del nostro autore siriaco del VII hanno una grande validità ed attualità, e se volete potete aggiungere quel “nihil novum sub sole” per quanto ci tocca di vivere anche nei nostri giorni, nella vita della Chiesa, quando leggiamo di confratelli che poco prima o poco dopo l’ordinazione hanno rassegnato le loro dimissioni.

3.    La domanda fatta dai discepoli a Dadisho nel nostro testo, parte dal confronto tra due affermazioni autorevoli: da una parte san Paolo e Teodoro di Mopsuestia, che confermano l’importanza e la bellezza del ministero episcopale ed incoraggiano ad accettare e a perseverare chi vi si trova o chi vi sia chiamato, e dall’altra parte il caso del vescovo Paolo a cui Dio concede di dimettersi dal ministero episcopale dopo quindici giorni dal suo inizio.

4.    La risposta di Dadisho la vediamo divisa in quattro punti. In primo luogo, il sacerdozio, l’episcopato è un dono che viene dato da Cristo stesso, e che paradossalmente può essere cercato o desiderato per vanagloria, oppure rifiutato per umiltà. E l’autore aggiunge in modo molto perspicace il suo commento al testo paolino di 1Tim 3. Per Dadisho l’episcopato è “…una opera buona”, e con questa affermazione né spinge alla sua ricerca, né mette impedimenti ad esso: “Io non metto impedimenti né spingo a ciò… Infatti, se io spingessi, tanti andrebbero di corsa verso il sacerdozio, anche gli stupidi e i malvagi; ma, se io mettessi impedimenti, nessun saggio neppure virtuoso si avvicinerebbe”. In secondo luogo, Dadisho descrive le virtù necessarie al vescovo e che gli permettono di portare a termine questa opera, questo peso: deve essere sapiente, istruito nei Libri Santi, saldo nella fede, ed avere quelle virtù che “vanno oltre a quelle più communi”: bontà, dolcezza, serenità, umiltà, misericordia, perdono, discernimento, comprensione. Ed infine sottolinea che la scelta viene da parte del Signore –“…dalla grazia Divina…”-, e attraverso le mediazioni umane: “…È stato scelto dalla grazia divina per i lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio…. Che quest’uomo ne sia convinto e vedrà che è un’opera bella” (la parola siriaca potrebbe essere tradotta anche come “splendente”). In terzo luogo, Dadisho riporta i consigli dati da un uomo saggio ad un vescovo che era tentato di lasciare, di dimettersi dal suo ministero, spingendolo alla perseveranza: “Primo, perché l’aveva ricevuto da molto tempo. Secondo, perché era stato scelto da tanti uomini timorosi di Dio. Terzo, a causa della sua saggezza e conoscenza. Quarto, a causa della sua vita nella virtù. Quinto, a causa della sua grande umiltà”. Tra queste cinque ragioni, mi piace sottolineare la seconda, cioè il ruolo della Chiesa (e qua si può pensare al ruolo del sinodo) nella scelta del vescovo: “…perché era stato scelto da tanti uomini timorosi di DioIn quarto luogo, Dadisho torna a parlare del vescovo Paolo, a chi il Signore accetta le dimissioni dal ministero episcopale, affinché siano un esempio per tanti, cioè da una parte la vita santa nella virtù dello stesso Paolo, e dall’altra l’esempio che ne viene fuori per tanti: “Quindi, quando tantissime persone lo costrinsero (ad accettare) il sacerdozio, dopo quindici giorni con lacrime e tanta sofferenza chiese al Signore di accettare le sue dimissioni… Nella sua bontà, il Signore, vedendo la sua umiltà, accettò e lo fece per due ragioni: in primo luogo perché lo stesso Paolo ne avrebbe tratto profitto; in secondo luogo, per evitare che tanti stolti desiderassero accedere al primo posto e quindi (evitare) le lotte che ne verrebbero fuori”.

5.    Nel VII secolo, come nel XXI secolo, di fronte al peso, alla responsabilità, all’opus che è l’episcopato -un opus che ci confronta tante volte con la propria solitudine nel ministero che ci viene affidato-, ed anche di fronte alla propria fragilità, alla propria umanità direi, la tentazione del rifiuto, del dire di no prima o dopo l’ordinazione episcopale, è molto reale e fino ai nostri giorni è una notizia che continua a sorprenderci, a colpirci, e a chiedercene il perché. Non ho la pretesa di avere delle soluzioni o dei rimedi, semplicemente rimando a qualcosa che dovrebbe farci riflettere, cioè, avere sempre presente l’umanità del sacerdote -vescovo, prete o diacono che sia-, quell’umanità assunta e redenta dal Signore nella sua incarnazione e che rimarrà povera, fragile, sola fino alla sua e nostra croce.

6.    L’episcopato come una croce, un giogo, un peso, quell’opus paolino. Durante le sedute del Sinodo dei vescovi del 2023, ascoltando gli interventi di tanti e tanti membri di quell’assemblea ecclesiale, uomini e donne da tante parti e Chiese del mondo, percepivo in me un sentimento contrastante e riconosco non privo di tensione, di perplessità: da una parte la ricchezza che poteva supporre l’ascoltare la loro esperienza, i loro suggerimenti; dall’altra parte sentire molto viva la consapevolezza, la certezza che alla fine delle sedute, saremo noi ed unicamente noi i vescovi, i veri padri sinodali, che tornando nelle nostre diocesi, tornando in prima fila, riprenderemo la croce, il giogo, l’opus che è il “vegliare sul gregge”.

7.    La virgola del testo paolino di 1 Tim 3 di cui parlavo all’inizio, messa prima o messa dopo l’uno o l’altro dei termini non cambia che l’episcopato sia un “opus”, e qua sfruttiamo i significati, i sinonimi del termine: un’opera, un peso, un giogo, una croce…, che portiamo con la nostra umanità debole, fragile, tante volte sola…; amata però, e rafforzata, guarita, redenta da quella “Grazia Divina” che ci regge e che ci salva. E concludo con Dadisho: “È stato scelto dalla grazia divina per i lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio…. Che quest’uomo ne sia convinto e vedrà che è un’opera bella”.

 

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico