mercoledì 24 dicembre 2014

Quell’ecumenismo del sangue
A proposito della lettera ai cristiani del Medio Oriente, di papa Francesco
«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio…» (Is 40,1). Quasi a riecheggiare le parole del profeta e completarle con quelle dell’apostolo Paolo che chiama in causa il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo… Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione…» (2Cor 1,3), papa Francesco, alle porte del Natale 2014 indirizza una lettera ai cristiani che vivono nelle regioni del Medio Oriente. Cristiani che da anni, ma specialmente negli ultimi mesi vivono in una situazione di sofferenza, di esilio, di persecuzione, fino alla massima testimonianza, quella di versare il sangue per Cristo. Cristiani che versano il proprio sangue, la propria storia, la propria cultura cristiana in quelle terre del Medio Oriente, terre che sono le loro terre da quasi duemila anni. Papa Francesco, in modo lucido, coraggioso e allo stesso tempo paterno, si avvicina alla realtà sofferente di quelle terre e di quegli uomini e donne, che dovranno vivere ancora un Natale nella sofferenza e nella persecuzione, purtroppo tante volte ancora ignorata nell’indifferenza dall’Occidente. Francesco comunque annuncia il mistero della consolazione di Dio verso il suo popolo nella nascita del Figlio: “…ho pensato di scrivere a voi, fratelli cristiani del Medio Oriente. Lo faccio nell’imminenza del Santo Natale, sapendo che per molti di voi alle note dei canti natalizi si mescoleranno le lacrime e i sospiri. E tuttavia la nascita del Figlio di Dio nella nostra carne umana è ineffabile mistero di consolazione…”. E senza mezzi termini né imprecise allusioni, il papa fa riferimento al regime di terrore di portata mai immaginata prima, che si è istallato in quelle terre cristiane popolate lungo i secoli da tanti padri, monaci, cristiani che le avevano coltivate, curate ed amate fino all’estremo: “L’afflizione e la tribolazione non sono mancate purtroppo nel passato anche prossimo del Medio Oriente… …aggravate negli ultimi mesi a causa dei conflitti che tormentano la regione, ma soprattutto per l’operato di una più recente e preoccupante organizzazione terrorista, di dimensioni prima inimmaginabili, che commette ogni sorta di abusi e pratiche indegne dell’uomo, colpendo in modo particolare alcuni di voi che sono stati cacciati via in maniera brutale dalle proprie terre, dove i cristiani sono presenti fin dall’epoca apostolica”. Francesco fa riferimento di seguito alle realtà etniche e religiose non soltanto cristiane che vivono in quelle terre e che sono oggetto di persecuzioni e di atrocità umanamente senza paragone: “Nel rivolgermi a voi, non posso dimenticare anche altri gruppi religiosi ed etnici che pure subiscono la persecuzione e le conseguenze di tali conflitti. Seguo quotidianamente le notizie dell’enorme sofferenza di molte persone nel Medio Oriente”. E la voce del vescovo di Roma si alza per difendere quelli che sono i più deboli di fronte alla sofferenza: “Penso specialmente ai bambini, alle mamme, agli anziani, agli sfollati e ai rifugiati, a quanti patiscono la fame, a chi deve affrontare la durezza dell’inverno… Questa sofferenza grida verso Dio e fa appello all’impegno di tutti noi, nella preghiera e in ogni tipo di iniziativa”. Solidarietà di tutti verso quelle popolazioni con delle iniziative che portino a quei nostri fratelli la consolazione, il supporto, la libertà di agire, di vivere per quello che sono.
         Un paragrafo centrale della lettera diventa il nocciolo di tutto il messaggio, della parola veramente teologica del papa, cioè quasi la professione di fede di quello che è il fondamento della vita e della testimonianza cristiana: la fedeltà totale ed unica a Cristo, e fino al martirio. I cristiani in Oriente e dovunque, lungo la storia dal I al XX secolo, fino ai nostri giorni del XXI secolo, non hanno sofferto e non soffrono una persecuzione sanguinante a causa di eventuali rivoluzioni o di capovolgimenti sociopolitici, bensì a causa del nome e della persona di Gesù Cristo: “…fratelli e sorelle, che con coraggio rendete testimonianza a Gesù nella vostra terra benedetta dal Signore, la nostra consolazione e la nostra speranza è Cristo stesso. Vi incoraggio perciò a rimanere attaccati a Lui, come tralci alla vite, certi che né la tribolazione, né l’angoscia, né la persecuzione possono separarvi da Lui…”. La testimonianza dei martiri, è a Gesù Cristo che viene resa, lui è la loro e la nostra speranza; uniti fedelmente ed unicamente a Lui. Il martirio è anche esigenza per gli stessi cristiani di una vita cristiana più profonda, più fraterna e più autentica: “L’unità voluta dal nostro Signore è più che mai necessaria in questi momenti difficili; è un dono di Dio che interpella la nostra libertà e attende la nostra risposta. La Parola di Dio, i Sacramenti, la preghiera, la fraternità alimentino e rinnovino continuamente le vostre comunità”. E Francesco si ricorda dei fedeli delle diverse Chiese cristiane, vescovi, sacerdoti, uomini e donne, che hanno subito il martirio oppure sequestrati, messi a parte dalla memoria del mondo, quasi a farli cadere nell’oblio da tutto e da tutti: “Ricordo… pastori e i fedeli ai quali negli ultimi tempi è stato chiesto il sacrificio della vita, spesso per il solo fatto di essere cristiani. Penso anche alle persone sequestrate, tra cui alcuni Vescovi ortodossi e sacerdoti…”. Viene introdotto quindi il tema dell’ecumenismo del sangue, quasi che il dialogo fraterno tra le diverse Chiese cristiane venisse in qualche modo coagulato dal sangue dei martiri: “…la comunione vissuta tra di voi in fraternità e semplicità è segno del Regno di Dio”. E il papa si rallegra dalla collaborazione tra i pastori delle diverse Chiese Orientali cattoliche e ortodosse, ed anche tra i fedeli. “Le sofferenze patite dai cristiani portano un contributo inestimabile alla causa dell’unità. E’ l’ecumenismo del sangue, che richiede fiducioso abbandono all’azione dello Spirito Santo”.
         E Francesco introduce un altro aspetto della drammatica vicenda, uno forse tra i più difficili di affrontare: il vincere la tentazione di fuggire, di emigrare, cioè l’esortazione del papa a rimanere in quelle terre martoriate, devastate, ma che sono cristiane da due mila anni; rimanere lì, certo tra le rovine delle case, delle chiese, dei monasteri, ma fermi nella speranza. Una speranza ed un coraggio richiesti malgrado le pietre fumanti ovunque, le icone bruciate, le ceneri delle biblioteche e dei manoscritti che tramandavano il canto di lode e di speranza dei santi Padri.
         Francesco ancora esorta al dialogo con tutti, nell’esigenza di una chiara condanna di una violenza ingiustificabile: “La situazione drammatica che vivono i nostri fratelli cristiani in Iraq, ma anche gli yazidi e gli appartenenti ad altre comunità religiose ed etniche, esige una presa di posizione chiara e coraggiosa da parte di tutti i responsabili religiosi, per condannare in modo unanime e senza alcuna ambiguità tali crimini e denunciare la pratica di invocare la religione per giustificarli”. Nell’ultima parte della sua lettera, Francesco esorta i cristiani di quelle terre ad evitare la tentazione del disinteresse verso un impegno nella vita pubblica, e a vivere come cristiani nello spirito delle Beatitudini evangeliche: “Nella regione siete chiamati ad essere artefici di pace, di riconciliazione e di sviluppo, a promuovere il dialogo, a costruire ponti… a proclamare il vangelo della pace…”.
         Il papa infine si trattiene ad elencare tutti coloro che nella Chiesa si impegnano, senza fuggire, nel servizio della carità. E indirizzandosi ai giovani, gli esorta con le belle parole di Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica sul Medio Oriente: “Desidero esprimere in modo particolare la mia stima e la mia gratitudine a voi, carissimi fratelli Patriarchi, Vescovi, Sacerdoti… che accompagnate con sollecitudine il cammino delle vostre comunità… . Quant’è preziosa la presenza e l’attività di chi si è consacrato totalmente al Signore e lo serve nei fratelli, soprattutto i più bisognosi… Com’è importante la presenza dei Pastori accanto al loro gregge… A voi, giovani… vi ripeto: «Non abbiate paura o vergogna di essere cristiani. La relazione con Gesù vi renderà disponibili a collaborare senza riserve con i vostri concittadini, qualunque sia la loro appartenenza religiosa» (Benedetto XVI, Esort. ap. Ecclesia in Medio Oriente, 63).
         A conclusione della lettera, e come nei suoi interventi precedenti, Francesco si indirizza anche alla comunità internazionale con una parola coraggiosa e di denuncia: “…continuo a esortare la Comunità internazionale a venire incontro ai vostri bisogni e a quelli delle altre minoranze che soffrono; in primo luogo, promuovendo la pace mediante il negoziato e il lavoro diplomatico… Ribadisco la più ferma deprecazione dei traffici di armi. Abbiamo piuttosto bisogno di progetti e iniziative di pace, per promuovere una soluzione globale ai problemi della Regione. Per quanto tempo dovrà soffrire ancora il Medio Oriente per la mancanza di pace?...”.

         Nei giorni del Natale, tanti cristiani nel Medio Oriente, con la lingua dei loro Padri, canteranno con Efrem il Siro, e noi con loro nella solidarietà, nel non oblio e la non indifferenza verso il loro martirio: “Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare Betlemme. Benedetto il bimbo, che oggi ha ringiovanito l’umanità. Benedetto il frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. Benedetto il buono che in un istante ha arricchito la nostra povertà…”.

lunedì 22 dicembre 2014

Nella tradizione degli inni sul Natale, attribuiti a Sant’Efrem il Siro
Benedetto il coltivatore diventato chicco seminato…
          La collezione dei ventotto inni di sant’Efrem il Siro sulla Natività del Signore contiene dei testi di indubbia autorità efremiana, soprattutto dal quinto al ventesimo, ed altri a lui attribuiti dalla tradizione manoscritta. Uno di questi poemi teologici della tradizione siriaca del IV secolo, è il terzo inno della collezione di Efrem, un testo di 22 strofe di sei versetti ognuna. Si tratta di un inno in ci l’autore, con delle forme dossologiche e di benedizione, canta il mistero dell’incarnazione del Verbo e Figlio di Dio: “Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare Betlemme. Benedetto il bimbo, che oggi ha ringiovanito l’umanità. Benedetto il frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. Benedetto il buono che in un istante ha arricchito la nostra povertà…”. Dalle prime strofe l’autore riassume l’opera redentrice di Cristo portata a termine nel mistero della sua stessa incarnazione: “Siano rese grazie alla fonte inviata per la nostra propiziazione. Siano rese grazie a colui che congedò il sabato compiendolo. Siano rese grazie a colui che sgridò la lebbra… anche la febbre lo vide e fuggì… Gloria alla tua venuta che ha riportato alla vita gli uomini”. In due delle prime strofe l’autore loda Dio Padre che per mezzo del Figlio diventa vicino, manifesto, tangibile all’uomo: “Gloria a Colui che è venuto presso di noi mediante il suo primogenito. Gloria a quel Silente che ha parlato mediante la sua voce. Gloria a quello Spirituale compiaciutosi che divenisse corpo il proprio figlio, affinché, mediante esso la sua potenza diventasse tangibile, e grazie a quel corpo potessero vivere i corpi della sua stessa stirpe”. La grandezza, l’invisibilità, il non poter essere toccato di Dio Padre, diventano realtà umane nell’incarnazione e la nascita del Figlio: “Gloria all’Invisibile, il cui figlio diventa visibile. Gloria al Vivente, il cui figlio morì. Gloria al Grande il cui figlio scese e si rimpicciolì…”.
          L’imperscrutabilità del mistero di Dio, nell’incarnazione del Verbo diventa comprensibile e percepibile; l’autore in qualche modo canta la nascita di Cristo come il suo lasciarsi circoscrivere, toccare dall’uomo, fino ad arrivare alla crocifissione, momento della massima umiliazione del Verbo fatto carne: “Gloria all’Invisibile… che non può essere minimamente toccato… ma fu toccato, per sua grazia, in virtù della sua umanità. La natura che mai fi toccata, fu legata e avvinta per le mani, trafitta e crocifissa per i piedi. Volontariamente prese un corpo per coloro che lo afferrarono”. E il teologo poeta continua la sua meditazione della crocefissione e morte di Cristo: “Benedetto colui che la nostra libertà ha potuto crocifiggere poiché egli l’ha concesso. Benedetto colui che anche il legno ha portato perché egli gliel’ha permesso. Benedetto colui che anche il sepolcro ha potuto rinchiudere perché egli si è circoscritto”.
          L’autore sottolinea ancora come grazie all’incarnazione di Cristo, l’umanità è redenta e fatta degna di Dio; nel testo vengono usate delle immagini tipiche della cristologia di tradizione siriaca, come le nozze, la tenda, la cetra per il canto: “Benedetto, lui che ha segnato la nostra anima, l’ha adornata e l’ha sposata a sé. Benedetto, lui che ha fatto del nostro corpo una tenda della sua invisibilità… Siano rese grazie a quella voce, di cui è cantata la gloria sulla nostra cetra, e la potenza sulla nostra arpa”. La redenzione di Cristo quindi diventa la conseguenza della sua incarnazione: “Gloria al figlio del Giusto, crocifissi dagli empi. Gloria a colui che ci ha slegati ed è stato legato al nostro posto… Gloria al bello che ci ha modellati a sua somiglianza. Gloria al limpido che non ha guardato alle nostre macchie.”.
          Troviamo lungo il poema diversi riferimenti all’eucaristia, dove il poeta adopera delle immagini molto belle come quella del pastore, del tralcio, del grappolo, che gli servono per collegare i Santi Doni al mistero dell’incarnazione: “Gloria al celeste il cui corpo è divenuto pane per dar vita alla nostra mortalità… Benedetto il pastore divenuto agnello per la nostra redenzione. Benedetto il tralcio divenuto coppa della nostra salvezza. Benedetto il grappolo, fonte del farmaco della vita. Benedetto il coltivatore, diventato il chicco seminato e il covone mietuto, l’architetto fattosi per noi torre di rifugio”. Due volte ancora l’autore si serve dell’immagine dell’innesto per cantare il farsi presente, l’incarnarsi di Dio nella vita dell’uomo: “Adoriamo colui che ha tracciato nel nostri udito un sentiero per le sue parole. Rendiamo grazie a colui che ha innestato il suo frutto nel nostro albero… Il suo frutto si è unito alla nostra umanità, affinché mediante esso fossimo attratti verso colui che si è piegato verso di noi”.

          La grandezza di Dio, quindi, si manifesta pienamente nella sua piccolezza, nel suo abbassarsi fino alla condizione umana: “Gloria a colui che mai poté essere misurato da noi… Gloria a colui che sa tutto e che si è sottomesso a domandare, per ascoltare, e apprendere ciò che già sapeva, per rivelare, con le sue domande, il tesoro dei suoi doni”. In una delle ultime strofe l’autore introduce l’immagine di Cristo come medico e la sua nascita come farmaco di vita per gli uomini: “Benedetto il medico sceso per un’incisione senza dolore… la sua nascita è il farmaco che ha clemenza dei peccatori…”. L’inno si conclude con la confessione della piccolezza dell’uomo nella lode di Dio: “Sia benedetto colui che la nostra bocca non è all’altezza di rendergli grazie… neppure alla sua bontà. Mare di gloria, che non manchi di nulla, accogli nella tua bontà una goccia di rendimento di grazie, di cui, per tuo dono, è umettata la mia lingua per renderti grazie”.


giovedì 18 dicembre 2014

A proposito di due inni di Sant’Efrem il Siro sul Natale
È entrato eccelso ed è uscito umile
          La collezione di inni di sant’Efrem il Siro sulla Natività del Signore contiene 28 poemi. Due di essi, il X e XI, sono dei testi assai brevi con dodici strofe il primo ed otto il secondo, che snodano in modo particolare e con delle immagini simboliche specialmente ricercate e belle, il tema dell’incarnazione del Verbo di Dio.
          Il primo dei due inni, il decimo della collezione, canta il mistero della redenzione adoperata da Cristo dalla sua incarnazione alla sua risurrezione, e lo fa a partire dal parallelo tra il grembo verginale (custodito) di Maria, e la tomba di Cristo sigillata (custodita) anche essa. Efrem inizia il canto con un argomento a lui caro, e che troviamo presente in diversi degli inni di questa collezione sul Natale: le nenie cantate da Maria a suo Figlio, messe in parallelo a quelle cantate dalle madri dei patriarchi dell’antico testamento: “Lia e Rachele, Zilpa e Bila, quando cantavano nenie ai desiderati, ai dodici che avevano partorito, cosa di uomini erano le loro nenie. Cosa della divina signoria sono le tue nenie, o Signore dei tuoi fratelli”. Dalla seconda strofa in poi Efrem introduce ed sviluppa l’immagine del sepolcro sigillato da coloro che seppellirono Cristo: “…sigillato essi ti posero: sigillarono la pietra e posero la guardia. Fu a tuo vantaggio che sigillarono il tuo sepolcro, o Figlio del Vivente”. Il sepolcro sigillato diventa una testimonianza del fatto che non ci fu nessun furto del corpo di Gesù da parte di nessuno: “Dopo averti seppellito… ci sarebbe stato spazio per affermare falsamente che ti avevano rubato. O onnivivificante, con l’astuzia del sigillo del tuo sepolcro accrebbero la tua gloria!”. Daniele il profeta e Lazzaro l’amico di Cristo vengono messi in parallelo da Efrem, a partire dalla loro permanenza nella fossa dei leoni sigillata il primo e nella tomba suggellata il secondo, e così diventano tipo di Cristo stesso chiuso anche lui nel grembo di Maria e nel sepolcro: “Di te fu tipo sia Daniele che Lazzaro, l’uno nella fossa che i popoli sigillarono, e l’altro nella tomba che il popolo aprì…”. Inoltre Daniele nella fossa dei leoni è tipo di Cristo nel grembo di Maria; il grembo ed il sepolcro di Cristo testimoniano sia la sua vera incarnazione che la sua risurrezione: “Con la tua risurrezione tu li hai convinti della tua nascita, perché sigillata era la fossa e suggellato era il sepolcro… tuoi testimoni furono la fossa e il sepolcro sigillati”. Quindi il ruolo del grembo e del sepolcro è simile in quanto ambedue hanno generato Cristo alla vita. Ambedue hanno come ruolo quello di concepire e partorire: “Il grembo ti ha concepito, lui che era sigillato; lo sheol ti ha partorito, lui che era suggellato. Fuori dall’ordine naturale il grembo concepì e lo sheol ridiede… Sigillato era il sepolcro che custodiva il morto. Vergine era il grembo, che nessun uomo aveva conosciuto…”. Attraverso l’incarnazione e la nascita verginale di Cristo, e la sua risurrezione dai morti, Efrem sottolinea ancora la vera natura divina di Cristo: “Il grembo sigillato e la pietra suggellata… hanno confutato e persuaso che tu sei celeste”. Nascita e risurrezione di Cristo, quindi sono segno di contradizione e allo stesso tempo ne testimoniano la sua vera divinità: “Il popolo stava tra la tua nascita e la tua risurrezione. Calunniava la tua nascita? La tua morte lo biasimava. Scioglieva la tua risurrezione? La tua nascita lo confutava. Due atleti colpivano la bocca calunniatrice”.
          Il secondo degli inni, undecimo della collezione, e più breve dal precedente, soltanto otto strofe, e sviluppa parallelamente il tema dell’incarnazione del Verbo di Dio e quello della divina maternità di Maria, misteri che per Efrem rimarranno sempre incomprensibili alla mente umana: “La madre tua, Signore, nessuno sa come chiamarla. Se la chiama «vergine», il figlio si alza; se «maritata», nessun uomo l’ha conosciuta. E se la madre tua è incomprensibile, comprendere te, chi sarà in grado?”. Efrem dà a Maria in questo inno gli appellativi di madre, sorella, sposa e vergine: “Ella è tua madre e tua sorella, e anche sposa…, sposa secondo natura, prima della tua venuta… concepì fuori dall’ordine naturale… ed era vergine quando ti partorì santamente…”. La maternità di Maria serve ad Efrem per mettere chiaramente in luce la vera incarnazione del Verbo di Dio: “Se lei ti poteva dare cibo, era perché tu avevi fame. Se poteva darti da bere, era perché avevi voluto aver sete. Se lei ti poteva abbracciare, era perché il carbone ardente d’amore custodiva il suo grembo”. Notiamo che la tradizione liturgica siriaca chiamerà il corpo di Cristo sull’altare col titolo di «brace o carbone ardente». Infine nelle ultime tre strofe Efrem riprenderà delle belle immagini cristologiche proposte per via di contrasto: “Egli è entrato in lei Signore ed è divenuto servo. È entrato eloquente… è entrato in lei tuono e la sua voce si è fatta silente. È entrato in lei pastore dell’universo, ed è diventato in lei agnello… è entrato ricco ed è uscito povero… è entrato eccelso ed è uscito umile… Nudo e spoglio è uscito da lì, colui che veste tutti”.



giovedì 4 dicembre 2014


(Annunciazione e Madre di Dio. Dittico etiopico in pietra e legno, XIX secolo)
Una terra vergine aveva partorito Adamo, capo della terra.
Una Vergine oggi ha partorito l’Adamo capo del cielo.
I vigilanti oggi sono nella gioia, poiché è venuto il Vigilante a svegliarci.
Chi dormirà in questa notte nella quale veglia l’intera creazione?
 (Efrem il Siro. Inno I sulla Natività)

Vi auguro a tutti un Santo Natale.

Arch. P. Manuel Nin osb, Rettore
Pontificio Collegio Greco

Roma, Natale 2014

lunedì 1 dicembre 2014

San Saba, l’uomo santificato
Uomo di comunione con Dio e con i fratelli
          Il beato papa Paolo VI tra il 1964 e 1965 compì due gesti profetici nel rapporto con le Chiese ortodosse di tradizione bizantina: la restituzione (potremmo dire la traslatio) delle reliquie di sant’Andrea apostolo a Patrasso e del monaco san Saba al monastero che porta il suo nome nel deserto presso Betlemme. Nel 2004 san Giovanni Paolo II restituiva alla sede patriarcale di Costantinopoli, nelle mani del patriarca ecumenico Bartolomeo I, le reliquie di san Gregorio di Nazianzo e san Giovanni Crisostomo. Gli Apostoli e i Padri venerati nelle loro reliquie che diventano testimoni, martiri del cammino verso la piena comunione tra le Chiese cristiane di Oriente ed Occidente.
          La figura del monaco san Saba (+532) è molto venerata in Oriente ed è una delle personalità più importanti nello sviluppo del monachesimo nella Palestina. Nato in Cappadocia verso il 439, inizia nella Palestina un percorso di vita monastica che va dal cenobitismo all’eremitismo. Verso il 478 fonda la Grande Laura, centro monastico destinato a svolgere un ruolo importante nello sviluppo del monachesimo della regione e nella fedeltà alla confessione cristologica calcedoniana. Saba muore il 5 dicembre del 532, data della sua festa nel calendario bizantino. I testi dell’ufficiatura della festa mettono in risalto alcuni aspetti della vita di san Saba, aspetti che diventano quasi l’icona del monaco e di ogni cristiano. La vita di Saba come monaco e padre di monaci si fa presente nei testi liturgici con due immagini che lo cantano come abitante e come colonizzatore del deserto: “Hai fatto del deserto una città dove si vive se­condo sapienza, o splendore dei padri, Saba, padre no­stro di mente divina, e lo hai reso paradiso spirituale, co­per­to di fiori divini: la molti­tu­dine dei monaci…”. La vita di san Saba come monaco e padre di monaci, ne fa un uomo di comunione col cielo e con le schiere celesti e quindi uomo di intercessione: “Saba di mente divina, simile agli angeli, compagno dei santi, consorte dei profeti, coe­rede dei martiri e degli apostoli, ora che abiti la luce senza tramonto… sup­plica Cristo… perché siano donate alla Chiesa la con­cordia, la pace e la grande misericordia”. La stessa vita di Saba come monaco ne fa anche un uomo di comunione con i monaci, con gli uomini. Per loro diventa modello ed esempio: “Saba beatissimo, lampada inestinguibile della con­ti­nenza, tersissimo luminare dei monaci, ri­splen­dente per i fulgori della carità, torre inconcussa della pa­zien­za… te­so­ro di guarigioni, vero colonizzatore del deserto… torcia che sorge sul mare del mondo, per guidare i popoli al porto divino… gui­da dei monaci… implora Cristo, per­ché siano donate alla Chiesa la concordia, la pace e la grande misericordia”. Questi due aspetti saranno, nella tradizione monastica cristiana due pilastri dell’essere e vivere come monaco: la comunione con Dio e con gli uomini.
          Nei testi liturgici della festa, la vita monastica è presentata quasi come una nuova nascita, e riprendendo Genesi 1,26 come una nuova creazione. Uno dei tropari infatti canta Saba come monaco / uomo nuovo, integro nell’immagine e ricreato nella somiglianza di Dio, pervenuto alla contemplazione della Trinità: “Custodita illesa in te l’immagine di Dio, ma reso l’intelletto signore delle passioni…, mediante l’ascesi hai rag­giunto per quanto possibile la somi­glianza: poiché, fa­cendo coraggiosamente violenza alla natura, ha assoggettato la carne allo spirito. Sei così divenuto eccelso fra i monaci, colonizzatore del deserto, allenatore di quelli che com­pio­no bene la corsa… E ora nei cieli, venuti meno ormai gli specchi, contempli puramente la santa Trinità…”.
          Altri testi presentano Saba, e ogni monaco, con l’immagine del carbone ardente, acceso dallo Spirito Santo e quindi diventato teoforo, ricettacolo del dono di Dio: “Ti sei mostrato al mondo quale carbone divinamente splen­dente, per essere stato a contatto col fuoco, o Saba, teoforo dello Spirito, facendo risplendere le anime di quan­ti con fede a te si accostano… gui­dan­­doli alla luce senza tramonto…”. Saba è quindi portatore di Dio e pienamente configurato con Cristo che raggiunge, con l’immagine della scala di Giacobbe, nella salita della vita ascetica: “La tua vita è stata chiaramente una scala che raggiunge il cielo, o uomo di mente divina: e con essa ti sei sollevato alle altezze, e hai ottenuto di unirti al Cristo sovrano, o bea­tissimo, con l’intelletto risplen­dente per i fulgori che da lui promanano; illuminato dai suoi bagliori, hai ricevuto lo stesso splendore degli angeli…”. Il dono delle lacrime nella compunzione, diventa fonte di fertilità per il deserto; questo è uno degli aspetti che troviamo presenti nei testi di tradizione monastica; ed il tropario della festa di san Saba ne è un bel esempio: “Con lo scorrere delle tue lacrime, hai reso fertile la sterilità del deserto; e con gemiti dal pro­fondo, hai fatto fruttare al centuplo le tue fatiche, e sei divenuto un astro che risplende su tutta la terra…”.

          San Saba abitante e colonizzatore del deserto, configurato col Cristo, intercessore presso Cristo. Icona di san Saba che la tradizione bizantina ci disegna nell’innografia liturgica con delle immagini –servitore, compagno, consorte- che indicano la piena parresia con le realtà del cielo: “Noi, folle di monaci, ti onoriamo come guida, padre nostro Saba, perché grazie a te abbiamo imparato a cam­minare per la via veramente retta. Beato sei tu che hai servito Cristo, diventato com­pagno degli angeli, consorte dei santi e dei giusti…”. 
Icona di San Saba. XX secolo

Monastero della Laura di San Saba, Palestina