venerdì 30 settembre 2022


 "Colei che è più ampia dei cieli...

R. Kopsidis

Cattedrale, Esarcato greco-cattolico, Atene

 

A proposito di alcuni tropari dell’ufficiatura bizantina

Sei divenuta più ampia dei cieli… tu che hai portato il tuo Creatore.

          La tradizione bizantina dà ai diversi tropari con cui canta la lode divina e con cui professa la sua fede, diversi nomi che ne indicano l’indirizzo, il contenuto e delle volte anche il luogo che essi occupano nello sviluppo delle diverse ore dell’ufficiatura delle ore. Alcuni di questi tropari, ad esempio, vengono chiamati nella forma al plurale “Doxastikà”, cioè tropari che vanno preceduti dalla formula dossologica: “Gloria al Padre, e al Figlio e allo Spirito Santo…”; altri dei tropari vengono chiamati “Theotokìa”, cioè tropari che hanno come centro la figura della Madre di Dio, e in essi, come d’altronde in tanti altri testi della tradizione liturgica bizantina, troviamo una vera e propria professione di fede nell’Incarnazione del Verbo di Dio dallo Spirito Santo e dalla vergine Maria.

          Voglio proporre la lettura di alcuni di questi tropari “Theotokìa”, presi dal primo tono dell’Octoechos, cioè dal ciclo degli otto toni musicali corrispondenti anche a otto settimane di testi liturgici che si ripetono in modo ciclico dal primo fino all’ottavo. Prendo i tropari del primo tono, che nei testi liturgici sono attribuiti a san Giovanni Damasceno (+749), uno dei grandi innografi e poeti-teologi della tradizione bizantina.

          In primo luogo, bisogna sottolineare che sono dei testi che hanno un retroterra fortemente biblico, cioè sono testi teologici, delle formule di preghiera frutto di una lectio divina della Sacra Scrittura, seguendo le grandi linee esegetiche che troviamo dai primi secoli della Chiesa nei testi dei Padri. Soprattutto vediamo questa esegesi per esempio nei diversi titoli dati alla Madre di Dio: Gioisci, fonte della grazia; gioisci, scala e porta del cielo (Gen 28,12.17); gioisci, urna e candelabro d’oro (Es 16,33), montagna non tagliata (Dn 2,45), che hai generato al mondo Cristo, il datore di vita”. Sono dei titoli veterotestamentari applicati, faccendone una lettura allegorica, a Maria nel suo ruolo centrale nel mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio.

        In alcuni tropari troviamo anche delle immagini che sono volutamente contrastanti: Maria, da una parte nata nel genere umano e, dall’altra, nel suo accogliere l’annuncio dell’angelo divenuta madre di Colui che è il Signore ed il Sovrano degli uomini: Cantiamo la Vergine Maria, gloria del mondo intero, nata dagli uomini e Madre del Sovrano, porta del cielo (Gen 28,14), canto degli incorporei, decoro dei fedeli: essa è divenuta cielo e tempio della Divinità. Abbattuta la barriera dell’i­nimicizia (Ef 2,14), ha introdotto in suo luogo la pace, e ha aperto il regno. Possedendo dunque quest’àncora della fede (Eb 6,19), ab­biamo quale difensore il Signore nato da lei..”. I tropari, in forma poetica, ci presentano delle immagini molto belle anche a livello teologico: “nata dagli uomini, …cielo e tempio della Divinità…”.

          Il mistero del parto verginale di Maria, che i testi liturgici sempre collegano in modo profetico ai testi di Isaia, fa di lei, in quanto Madre di Dio, anche interceditrice del genere umano: “Ecco compiuta la profetica parola di Isaia: vergine infatti hai generato (Is 7,14), e dopo il parto sei rimasta come prima. Perché era Dio il generato, e perciò le nature ha rinnovato. Non disprezzare dunque, o Madre di Dio, le suppliche dei servi tuoi, offerte a te nel tuo santuario: poiché porti tra le braccia il pietoso, abbi pietà dei tuoi servitori. Intercedi per la salvezza delle anime nostre”. La divino-umanità del mistero dell’Incarnazione viene presentato con immagini molto toccanti: “…poiché porti tra le braccia il pietoso”.

          Uno dei titoli allo stesso tempo cristologico e mariologico che troviamo nei tropari liturgici ed anche tante volte rappresentato nell’iconografia orientale, è quello di “…più ampia dei cieli”. L’incarnazione nel suo grembo di Colui che è il Creatore, fa di Maria veramente un cielo nuovo in cui racchiude, porta Colui che è il Signore del cielo e della terra: “Gabriele ti recò il saluto ‘Gioisci’, o Vergine (Lc 1,28), e a quella voce il Sovrano dell’universo si incarnò in te, arca santa… (Sal 131,8). Sei divenuta più ampia dei cieli, perché hai portato il tuo Creatore. Gloria a colui che ha dimorato in te, gloria a colui che è uscito da te, gloria a colui che per il tuo parto ci ha liberati”. L’ultima parte del tropario, con tre forme verbali, mette in luce tutto il mistero della nostra redenzione: “…ha dimorato in te, …è uscito da te, …per il tuo parto ci ha liberati”.

       Uno dei tropari canta: “Ti riconosciamo quale albero della vita, o Vergine (Gen 2,9; Ap 2,7): da te non è germinato un frutto che, gustato, è letale ai mortali, ma gaudio di eterna vita, per la salvezza di noi che ti can­tiamo”. Troviamo in questo testo l’immagine dell’albero della vita da cui è germinato il frutto della vita, applicato a Maria. Nella festa dell’Esaltazione della Santa Croce il 14 settembre, trovavamo l’immagine dell’albero della vita applicato alla santa Croce, come albero da cui pendeva pure il frutto della vita. Il tropario sopra citato applica la stessa immagine a Maria in quanto, per mezzo dell’Incarnazione, il Cristo, è il frutto che porta la salvezza e la vita. È interessante e bello notare come il testo del libro della Genesi 2,9, la stessa tradizione bizantina lo applica a due aspetti, a due momenti centrali della nostra fede e della nostra redenzione: il mistero dell’Incarnazione del Verbo nel grembo di Maria, ed il mistero della redenzione nella croce del Signore. Il legame col libro della Genesi lo troviamo ancora in un altro dei tropari: “Si rallegrano in te, Vergine immacolata, i progenitori della nostra stirpe, perché per te riacqui­stano l’Eden che per la trasgressione avevano perduto (Gen 3,23)…”.

       Tropari “Theotokia”, della Madre di Dio, tropari che nella liturgia, nella celebrazione ecclesiale diventano professione della nostra fede: “Cantiamo colei che per la folgore divina, senza seme e oltre la natura, ha partorito la perla preziosissima, il Cristo (Mt 13,46), e diciamo: Benedite, opere tutte, il Signore, celebratelo e sovresaltatelo per tutti i secoli (Dn 3,57)”.

+P. Manuel Nin

domenica 11 settembre 2022


 Esaltazione della Santa Croce

Icona slava del XIX secolo


La festa dell’Esaltazione della Santa Croce nella tradizione bizantina

Oggi l’argilla della nostra umanità è innalzata nei cieli.

La festa dell’Esaltazione della Santa Croce il 14 di settembre, è la seconda grande festa dell’anno liturgico bizantino, dopo quella della Natività della Madre di Dio il giorno 8 dello stesso mese. La liturgia bizantina celebra la croce di Cristo come luogo della sua vittoria sul peccato e sulla morte, luogo di salvezza, luogo dove il Signore innalzato in essa ci porta tutti, assieme a Lui, al suo Regno. Nei tropari della festa dell’Esaltazione della Santa Croce troviamo tanti riferimenti veterotestamentari visti, cantati e celebrati come prefigurazione della redenzione portata a termine dal Signore nella sua croce. Tendendo le mani in alto e mettendo in rotta Amalek, il tiranno, Mosè ha prefigurato te, o croce preziosa, vanto dei credenti, sostegno dei martiri lottatori, decoro degli apo­­stoli…, per que­sto, vedendoti innalzata, la creazione gioisce e fa festa, glorificando il Cristo… Tracciando una croce, Mosè, col bastone ver­ticale,  divise il Mar Rosso…, poi lo riunì su se stesso con frastuono… di­segnando, orizzontalmente, l’arma invincibile… Mosè pose su una colonna il rimedio che salvava dal morso velenoso e distruttore… e con questo trionfò del flagello”.

La liturgia bizantina, inoltre, si trattiene a sottolineare il parallelo e la continuità tra l’albero del paradiso e l’albero della croce. Nel luogo dove avvenne la caduta del primo Adamo, avviene l’innalzamento del nuovo Adamo e la nostra redenzione: “Dopo la tremenda caduta nel paradiso per l’amaro consiglio dell’omicida sul Calvario tu mi hai rialzato o Cristo, riparando con l’albero la maledizione dell’alberoVenite, genti tutte, adoriamo il legno benedetto… poiché colui che con l’albero ha ingannato il progenitore Adamo, viene adesca­to dalla croce… poiché con un albero bisognava risanare l’albero, e con la passione dell’impas­si­bile di­strug­gere nell’al­bero le passioni del condannato”.

Nella festa odierna la croce viene innalzata, esposta e venerata in mezzo alla chiesa, che diventa nuovo paradiso, non luogo di condanna ma di salvezza: “In mezzo all’Eden, un albero fece fiorire la morte; in mezzo alla terra, un albero fece germogliare la vita; per aver gustato del primo, da incorruttibili, siamo di­venuti corruttibili, ma, giunti in possesso del secondo, abbiamo goduto dell’incorruttibilità: con la croce, infatti, Cristo ha salvato il genere umano”. Il parallelo, il contrasto e allo stesso tempo l’avvicendamento tra l’immagine dei due alberi, mette in luce anche i due frutti che da essi germogliano: quello della condanna nel primo, e Colui che è la vera vite e la vera vita nel secondo: “O straordinario prodigio! La croce che ha portato l’Altissimo, quale grappolo pieno di vita, si mostra oggi ele­vata da terra: per essa siamo stati tutti attratti a Dio, e la morte è stata del tutto inghiottita. O albero imma­co­lato, per il quale gustiamo il cibo im­mor­tale dell’Eden, dando gloria a Cristo!”.

          Con delle bellissime immagini poetiche e allo stesso tempo profondamente teologiche, alcuni dei testi liturgici collegano nella croce tutto il mistero pasquale di Cristo, la sua morte, la sua risurrezione e la sua ascensione ai cieli: “Oggi la pianta della vita sorgendo dai penetrali della terra, conferma la risurrezione del Cristo in essa confitto; e, innalzata da mani consacrate, annuncia la sua ascensione ai cieli, grazie alla quale la nostra argilla, risollevata dalla terra su cui era caduta, ha la citta­dinanza nei cieli… Signo­re, che sulla croce sei stato innalzato, e che per essa ci hai innalzati con te, rendi degni quelli che ti cantano, della gioia del cielo”. La croce come luogo di vittoria, la croce innalzata come professione di fede cristiana: “Vedrete la vostra vita appesa davanti ai vostri occhi. Oggi la croce è innalzata, e il mondo è liberato dall’in­ganno. Oggi si inaugura la risurrezione di Cristo, ed esul­tano i confini della terra… Hai operato la salvezza in mezzo al­la terra, o Dio, con la cro­ce e la risurrezione…”.

          La croce infine è anche il luogo dove il buon pastore carica sulle sue spalle la pecora smarrita e la riconduce all’ovile: “Hai sollevato sulle spalle, o Salvatore, la pecora smar­rita, l’hai condotta al Padre tuo con la tua croce venerabile e vivificante, e l’hai annoverata tra gli angeli, nello Spirito divino: perché tu hai contrapposto albero ad albero, o Cristo, e noi ora innalzandolo con fede glorifichiamo te, che su di esso sei stato innalzato e con esso hai innalzato noi”.

          La croce vittoriosa piantata, esaltata nel bel mezzo della Chiesa, che diventa l’Eden riaperto alla salvezza ed alla vita. Diventa luogo di pace e di piena comunione. Nella tradizione bizantina, ogni giorno, al mattutino, al vespro e nella celebrazione della Divina Liturgia la Chiesa prega “per la pace del mondo intero…”, affinché la preghiera per la pace sia sempre presente nella liturgia della Chiesa. Oggi, festa dell’Esaltazione della Santa Croce, per espresso desiderio del Santo Padre, preghiamo in modo speciale per la pace in Ucraina, per la fine di una guerra, ingiusta ed ingiustificabile come tutte le altre guerre nel mondo, e preghiamo per le persone che in quella terra martoriata sono morte, per le persone che ne piangono la scomparsa violenta, per i feriti, gli sfollati, i profughi. E preghiamo anche per coloro che l’hanno provocata, l’hanno voluta questa guerra, e lo facciamo perché siamo cristiani e la nostra preghiera, se veramente cristiana e quindi gravida di Vangelo, sarà una preghiera per tutti, amici ed anche nemici. Preghiamo per tutti, aggrediti ed aggressori, per tutti senza eccezione perché questa nostra preghiera nasce ed unicamente dal Vangelo, che è Parola del Signore per tutti quelli che un giorno nel suo nome siamo stati battezzati, un Vangelo che ci chiede di pregare per il nemico, di porgere l’altra guancia, di perdonare fino a settanta volte sette. La Croce come luogo di vittoria sul peccato e sulla morte e anche sulla guerra. Una vittoria scaturita dalla riconciliazione e dalla pace, che ha la Croce di Cristo e la nostra come unico stendardo, unico baluardo, senza vincitori e vinti, senza sconfitti e vincenti, fratelli tutti in Cristo Signore che nella e dalla Croce ha perdonato i suoi crocifissori ed in essa e per essa ha vinto.

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico

 

domenica 4 settembre 2022

 

Natività della Madre di Dio
Rallis Kopsidis
Cattedrale della Santissima Trinità, Atene

La Natività della Madre di Dio nella tradizione bizantina

Oggi è stato partorito sulla terra il cielo di Dio.

La tradizione bizantina inizia il ciclo o l’anno liturgico il giorno 1° settembre e la prima delle grandi feste la troviamo il giorno 8 dello stesso mese con la Natività della Madre di Dio. I tropari della liturgia di questo giorno sono un intreccio di citazioni bibliche veterotestamentarie di cui i teologi poeti che ne sono gli autori fanno una lettura ed una esegesi di carattere cristologico e quindi mariologico. Ad una prima lettura colpisce la quantità di titoli dati a Maria in questa festa. Un primo esempio è un tropario del giorno 7 settembre, vigilia della festa, in cui si raccolgono una dozzina di titoli presi da una altrettanto abbondante lista di citazioni del  libro dell’Esodo, dei profeti e dei salmi: Gioisci, ricapitolazione dei mortali; gioisci, tempio del Signore; gioisci, monte santo; gioisci, mensa di­vina; gioisci, candelabro tutto luminoso; gioisci, vanto dei veri cre­denti, o venerabile; gioisci, Maria, Madre del Cristo Dio; gioisci, tutta immacolata; gioisci, trono di fuoco; gioisci, dimora; gioisci, roveto in­combusto; gioisci, speranza di tutti” (salmi 47 e 67; Es 3; 25; 26; Is 6; Dn 7).

Un altro dei titoli dati a Maria che la liturgia della festa mette in evidenza è quello di “cielo e trono di Dio”: “Oggi Dio, che riposa sui troni spirituali, si è ap­pre­stato sulla terra un trono santo; colui che ha conso­lidati i cieli con sapienza, nel suo amore per gli uomini si è preparato un cielo vivente: perché da sterile radice ha fatto germo­glia­re per noi, come pianta portatrice di vita, la Madre sua… Esulti il cielo, si allieti la terra, perché è stato partorito sulla terra il cielo di Dio: la sposa di Dio, secondo la promessa. La sterile allatta Maria bambina, e Gioacchino gioisce per questo parto, dicendo: Mi è stato partorito il virgulto dal quale il fiore, Cristo, è germo­gliato dalla radice di Davide. O prodigio veramente straordinario!”. Maria è anche presentata come la pianta che porta la vita, da cui germoglia Cristo. Notiamo anche il titolo “sposa di Dio”, che sarà presente in tanti testi della tradizione bizantina.

          Un altro dei titoli dati a Maria che troviamo ripetutamente presente nella celebrazione odierna è quello di “porta”, che scopriamo a partire dalla lettura cristologica del testo di Ez 44, 1ss. Questo è il giorno del Signore, esultate, popoli: poiché ecco, il talamo della luce, il libro del Verbo della vita, è uscito dal grembo; la porta che guarda a oriente è stata generata, e attende l’ingresso del sommo sacerdote, lei che in­tro­duce nel mondo, sola, il solo Cristo, per la salvezza delle anime nostre”. Notiamo come l’incarnazione del Verbo di Dio porta anche a dare a Maria il titolo di “Libro del Verbo”, perché in essa è stato “scritto” Colui che è la Parola, ed essa ha partorito nella carne il Verbo, il Creatore dell’universo: “…risplende Maria, che ha partorito nella carne il Dio dell’universo, da grembo senza seme, oltre la natura: unica porta dell’Uni­ge­nito Figlio di Dio, che attraver­sandola l’ha custodita chiu­sa, e tutto dispo­nen­do con sapien­za come egli sa, per tut­ti gli uomini ha operato la salvezza”. La porta attraversata dal Signore e rimasta chiusa, è prefigurazione e tipo della verginità perpetua di Maria: “Il profeta ha chiamato la santa Vergine porta invalicabile, custodita per il solo Dio nostro: per essa è passato il Signore, da essa procede l’Altissimo e la lascia sigillata, liberando la nostra vita dalla corruzione”.

          Uno dei tropari del mattutino della festa collega quattro citazioni veterotestamentarie che la tradizione dei Padri ha sempre letto in connessione con l’incarnazione (Salmi 47,3; 67,16; Gen 28, 17; Dn 2, 34 e Ez 44, 1), e ne fa un tropario che diventa quasi una professione di fede nell’incarnazione del Verbo di Dio, cantata e celebrata in forma poetica: “Monte, porta celeste e scala spirituale ti ha divi­na­mente profetizzata il sacro coro: poiché da te è sta­ta ta­glia­ta la pietra non toccata da strumento umano; e sei chia­mata anche porta per la quale è passato il Signore dei pro­digi Dio dei padri nostri.

        I testi della liturgia odierna fanno accenno ancora alle figure di Gioacchino ed Anna, genitori della Madre di Dio. Mi trattengo soltanto in due testi di Romano il Melodo (+556), che è uno dei più grandi innografi della tradizione bizantina. Due tropari dell’ufficiatura del mattutino che accostano in modo poetico e teologico allo stesso tempo la figure dei genitori di Maria con Adamo ed Eva da una parte, e dall’altra la preghiera insistente di Gioacchino e la sterilità di Anna offerte al Signore: “Gioacchino e Anna sono stati liberati dal­l’ob­brobrio della sterilità, e Adamo ed Eva dalla corruzione del­la morte, o immacolata, nella tua santa natività: an­che il tuo popolo la festeggia, riscattato dalla pena dovuta alle nostre colpe… La preghiera e il gemito di Gioacchino e Anna per la loro sterilità e mancanza di prole, sono giunti accetti alle orecchie del Signore, ed essi hanno prodotto al mondo un frutto portatore di vita; l’uno compiva sul monte la sua preghiera, e l’altra portava il suo obbrobrio in un giardino: ma con gioia la sterile partorisce la Madre di Dio, la nutrice della nostra vita”.

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico

 



giovedì 1 settembre 2022

Buon Samaritano

Rallis Kopsidis, cattedrale della Santissima Trinità, Atene
 

Speranza e sobrietà.

Pensieri e note sul momento attuale…, settembre 2022.

Nei nostri giorni, …c'è una tristezza che non esclude né la speranza né il senso di colpa” (Terra de cendra, Antoni Puigverd, La Vanguardia 8 agosto 2022). Scrivo queste note a partire dalla lettura dell’articolo del giornalista catalano citato, apparso qualche settimana fa, e che mi ha portato a riflettere sul fatto che tante volte l’esperienza del peccato, in qualsiasi situazione ci tocchi di viverla, ma specialmente quando ci tocca ad ognuno di noi cristiani, ci porta a vivere sì un’esperienza di tristezza, di sconfitta tante volte -il peccato suppone sempre una sconfitta-, ma che non deve, non dovrebbe escludere mai né il dolore -che ci indica che siamo toccati appunto da questa sconfitta, che ci indica che siamo capaci di soffrire, quindi siamo vivi-, neppure escludere mai la speranza -segno che ci fa consapevoli che possiamo alzarci, non da soli certamente, ma mossi dall’Amore fedele datoci da parte di qualcun’Altro.

E mi chiedo e vi esorto a chiedervi come dobbiamo vivere questo nostro oggi, questo nostro “καιρός”, usando il termine greco che ha sempre una forza speciale. Il momento attuale della nostra storia, in questa fine estate afosa che volge lentamente verso un autunno che sembra carico di nuvole piuttosto oscure e minaccianti -non so se a livello meteorologico ma sicuramente a livello sociale ed economico-, e con gli strascichi ancora ben presenti di una pandemia che ci ha colpiti tutti, assolutamente tutti, e in aggiunta con le tensioni socioeconomiche, le lotte politiche, le guerre in corso…

Mi azzardo a dire che dobbiamo viverlo, questo “καιρός”, questo momento attuale con speranza e allo stesso tempo con sobrietà (sobrietà nel vivere, nell'agire, nel parlare, nel dare e nel ricevere). Con speranza, perché siamo cristiani e, assieme alla fede e alla carità, sono i tre pilastri della nostra vita umana e cristiana. Con sobrietà, cioè coinvolti e distanti allo stesso tempo di fronte a tanti fatti che potrebbero rischiare di sopraffarci. Speranza e sobrietà, come cristiani, facendo nostra la preghiera liturgica di sant’Ambrogio di Milano: “Christusque nobis sit cibus, potusque noster sit fides, laeti bibamus sobriam ebrietatem Spiritus -Cristo sia il nostro cibo, la fede la nostra bevanda, beviamo lieti la sobria ebbrezza dello Spirito”.

Speranza e sobrietà, mi sono venute ripetutamente nel mio pensiero in questi mesi in cui viviamo da vicino la guerra in Ucraina e le conseguenze drammatiche che ne vengono fuori. E dico “viviamo” perché nessuna guerra può lasciarci indifferenti, e questa proprio nel cuore della nostra Europa ci tocca da vicino e ci mette di fronte a tante domande e a tante insicurezze che pochi anni fa mai avremo neanche immaginato, allo stesso modo che mai sarebbe neanche passata per l’anticamera della nostra mente una pandemia veramente a livello mondiale.

Speranza e sobrietà. La guerra in Ucraina comunque sta portando anche a delle reazioni diciamo “molto belle, veramente toccanti” di solidarietà, di carità, che hanno fatto e tuttora fanno che la comunità ucraina specialmente nella diaspora europea, non sia né dimenticata né lasciata da parte. La generosità che si è manifestata e si manifesta tuttora in questi mesi di guerra è stata ed è, ripeto, molto bella e edificante, ed uso quest’ultima parola non per abbellire il mio testo, ma perché vuole indicare che qualcosa di nuovo si sta costruendo. Ad Atene, nel nostro Esarcato Apostolico per i cattolici di tradizione bizantina in Grecia, è presente da venticinque anni una bella comunità ucraina che è una delle tre componenti dell’Esarcato, della nostra unica Chiesa, fatta da greci, da ucraini e da caldei e da altri fedeli cattolici. In questi mesi, la quantità di vestiti, di cibo, di medicine che ci sono pervenuti, ci fa vedere come le parrocchie e tutta la comunità cristiana della Grecia, sia cattolica che ortodossa, si sono scoperte generose, solidali, fraterne veramente. E come vescovo della comunità ucraina nell’Esarcato Apostolico mi sento mosso, non soltanto dall’obbligo ma soprattutto dalla gioia, di ringraziare veramente tutti. Una gioia palpabile in tutti, quasi le parole di san Paolo negli Atti degli Apostoli “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”, si fossero avverate nei nostri giorni in modo speciale.

Speranza e sobrietà. Di fronte a questi fatti, cioè da una parte il dramma di una guerra nel cuore dell’Europa, e dall’altra la capacità del cuore veramente cristiano di tanti e tanti che in Grecia ed ovunque hanno dato e danno non soltanto il superfluo, ma addirittura quello di cui loro stessi forse hanno bisogno in un momento economico molto precario, mi chiedo quale deve essere la nostra risposta come Chiesa Cattolica in Grecia, e specialmente la nostra nell’Esarcato Apostolico, dove come accennavo, da venticinque anni vive, cresce e celebra la fede una numerosa comunità ucraina greco cattolica, accresciuta in questi ultimi mesi dall’arrivo di profughi dalla madre patria.

Come vescovo di questa Chiesa Cattolica in Grecia, come pastore dell’unica comunità greca, ucraina e caldea dell’Esarcato, che è, come vi dicevo nella mia lettera pastorale della Pentecoste, un’unica Chiesa attorno ad un unico vescovo, credo dobbiamo essere veramente grati per la reazione caritatevole e generosa di cui siamo stati oggetto, perché la gratitudine è una virtù fortemente cristiana. Una gratitudine che chiede anche da noi adesso, e sempre, un atteggiamento di umiltà, di preghiera e soprattutto di speranza nella condizione in cui ci tocca di vivere, una condizione nel caso dell’Ucraina, di paese aggredito dalla prepotenza e dalle armi di un altro paese, storicamente fratello lungo i secoli, fatto che fa diventare la situazione attuale sicuramente più grave e più sofferta. Siamo tutti cristiani, greci, ucraini, iracheni, come lo sono anche, nella guerra in Ucraina, il popolo ed i governanti della Russia, e questo non rende il nostro atteggiamento, il nostro agire ed il nostro parlare facile nel modo più assoluto.

Speranza e sobrietà. Siamo cristiani ed il nostro agire, il nostro parlare, il nostro cuore debbono essere sempre mossi dal Vangelo, il che vuole dire, come accennavo, anche la gratitudine per quanto ricevuto, una gratitudine umile e senza pretese. E quindi il nostro deve essere un agire, un parlare ed un cuore veramente cristiani pure quando ci viene chiesto di porgere l’altra guancia, di pregare per il nemico -anche se è nostro fratello, addirittura cristiano come noi-, di perdonare fino a settanta volte sette. E questo è il Vangelo, senza “se…”, senza “però…” e senza “ma…”, con un perdono sicuramente sofferto non lo nego, come lo è stato il perdono del Signore nostro Gesù Cristo che dalla croce, in punto di morte lo ha chiesto per i suoi crocifissori. Il nostro agire, il nostro parlare, il nostro cuore diventano -debbono diventare- tre luoghi di Vangelo vissuto, luoghi sicuramente sofferti in questo momento, come lo fu quel grande ed unico Venerdì Santo, ma pure lì ed anche oggi luogo dove viverlo e da dove annunciarlo.

Un agire, il nostro, radicato nel Vangelo, cercando di creare attorno a noi, nei nostri fedeli, nel nostro popolo, un clima di gratitudine, di accoglienza e mai di pretesa, perché questo potrebbe essere nel momento attuale il nostro peccato. Mai la sofferenza, la persecuzione ed il martirio dovrebbero erigerci in oggetto di attenzione, ma piuttosto debbono essere momento di grazia, sofferta ma sempre grazia. La gratitudine senza pretese è, lo dico convinto, una virtù veramente cristiana e che ci fa cristiani, ci fa vicini, ci fa prossimi agli altri.

Un parlare, il nostro, pure esso radicato nel Vangelo, annunciando sempre ed unicamente la Buona Novella di Cristo e non il nostro modo di ragionare. Essere come ci chiede il Vangelo “operatori/creatori/costruttori di pace” (Mt 5).

Infine, il Vangelo nel nostro cuore, affinché costui sia veramente cristiano. Tante volte il cuore dell’uomo è il campo più difficile di arare, di rendere fertile, è la realtà più difficile di evangelizzare.

Speranza e sobrietà. Speranza fondata in Colui, il Signore, risorto dai morti, vincitore del peccato e della morte. Sobrietà che nel momento attuale ci chiede di accettare, direi anche con umiltà e povertà -non facili ma necessarie-, che di tante azioni, di tante iniziative ed anche di tanti provvedimenti presi o non presi di fronte ai grandi problemi del nostro mondo, non ne siamo al corrente in tutti i loro risvolti e sfumature. Questo chiede da noi, come pastori della Chiesa -vescovi o sacerdoti che siamo- un atteggiamento tante volte di silenzio e direi soprattutto di sobrietà, di austerità -forse sofferta, non lo nego!-, ma necessaria nei nostri giorni.

In questo momento, come in altri momenti della storia antica e recente, il grande sbaglio sarebbe, a mio parere, voler porre fine ai conflitti bellici tra i popoli -come è capitato con tante guerre antiche e recenti- con un grande vincitore ed un grande sconfitto. Sarebbe il modo di perpetuare la sofferenza e le divisioni ancora per anni e anni, per dirlo in qualche modo. Le guerre che sono finite con un grande vincitore ed un grande sconfitto, sono state sempre delle grandi sconfitte per i popoli in guerra e per l'umanità stessa.

Riprendendo la frase di A. Puigverd nel suo articolo citato all’inizio, Nei nostri giorni… c'è una tristezza che non esclude né la speranza né il senso di colpa”. Questa tristezza e questo senso di colpa forse sono, o dovrebbero essere, quella “compunzione” di cui parlano spesso i Padri del monachesimo cristiano nei loro scritti, quella compunzione che dovrebbe “affliggere” il cuore del monaco -e magari dell’uomo e dell’umanità nei nostri giorni- in quella afflizione, in quella tristezza, in quelle lacrime di compunzione che, come un battesimo, lavano ed aprono sempre alla nuova speranza. Una tristezza, un’afflizione, un dolore che, come nel Grande e Santo Sabato la liturgia delle Chiese cristiane ci fa vivere già aperto alla speranza, già permeato dalla gioia della risurrezione. Giorno di speranza e di sobrietà.

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico


ΣΚΕΨΕΙΣ ΚΑΙ ΣΗΜΕΙΩΣΕΙΣ:  ΣΕΠΤΕΜΒΡΙΟΣ 2022

 

«Στις μέρες μας… υπάρχει μία θλίψη, η οποία δεν αποκλείει ούτε την ελπίδα ούτε το αίσθημα ενοχής» (Γη του Σέντρα, Αντωνίου Πουϊγκβέρτ, LA VANGUARDIA, 8 Αυγούστου 2022).

 

Γράφω αυτές τις σημειώσεις ξεκινώντας από την ανάγνωση ενός άρθρου του καθολικού δημοσιογράφου που μόλις ανέφερα, δημοσιευμένου πριν λίγες εβδομάδες, και το οποίο με έκανε να σκεφτώ το γεγονός ότι τόσες και τόσες φορές η εμπειρία της αμαρτίας, σε οποιαδήποτε κατάσταση την βλέπουμε, αλλά ιδιαίτερα όταν αγγίζει εμάς τους χριστιανούς, μας οδηγεί να ζήσουμε μία εμπειρία θλίψης, απογοήτευσης (η αμαρτία προϋποθέτει πάντοτε μία απογοήτευση), αλλά δεν πρέπει, δεν θα έπρεπε ποτέ να αποκλείει ούτε τον πόνο (ο οποίος μας δείχνει ότι μας άγγιξε ακριβώς αυτή η απογοήτευση). Ο πόνος μας δείχνει επίσης ότι είμαστε ικανοί να υποφέρουμε, δηλαδή ότι είμαστε ζώντες. Όλα αυτά σημαίνουν ότι ποτέ δεν πρέπει να αποκλείουμε την ελπίδα, σημείο ότι συνειδητοποιούμε ότι μπορούμε να σηκωθούμε, ασφαλώς όχι μόνοι μας, αλλά βοηθούμενοι από την πιστή Αγάπη, δοσμένη σ’ εμάς από κάποιον Άλλον.

Και αναρωτιέμαι και σας προτρέπω να αναρωτηθείτε κι εσείς με ποιο τρόπο οφείλουμε να ζούμε αυτό το δικό μας σήμερα, αυτόν τον δικό μας «καιρό», χρησιμοποιώντας την ελληνική αυτή λέξη (καιρός), η οποία έχει μία ειδική δύναμη. Η παρούσα στιγμή της ιστορίας μας κατά το καλοκαίρι αυτό, με καύσωνες και χωρίς βροχή, πλησιάζει σιγά σιγά προς ένα φθινόπωρο, το οποίο μοιάζει φορτωμένο από σύννεφα μάλλον απειλητικά. Δεν ξέρω αν η απειλή αυτή περιορίζεται στο μετεωρολογικό επίπεδο, αλλά επεκτείνεται ασφαλώς σε επίπεδο κοινωνικό και οικονομικό. Έχουμε ακόμα την έντονη παρουσία των απορριμμάτων μίας πανδημίας, η οποία χτύπησε όλους, απολύτως όλους, και επιπρόσθετα τις κοινωνικές και οικονομικές εντάσεις, τους πολιτικούς ανταγωνισμούς, τους φρικτούς πολέμους…

Τολμώ να πω ότι οφείλουμε να ζήσουμε αυτόν τον «καιρό», την επίκεντρη, στιγμή με ελπίδα, και ταυτόχρονα με λιτότητα (λιτότητα στη ζωή, λιτότητα στη δράση, λιτότητα στην ομιλία, λιτότητα στο «δούναι και λαβείν»). Με ελπίδα, γιατί είμαστε χριστιανοί και η αρετή αυτή (της ελπίδας), μαζί με την πίστη και την αγάπη, είναι οι κολόνες της ανθρώπινης ζωής μας, καθώς και της χριστιανικής. Με λιτότητα, δηλαδή επιδιδόμενοι με διακριτικότητα με επίδοση, αλλά και με απόσταση μπροστά σε τόσα και τόσα γεγονότα, τα οποία θα μπορούσαν να μας νικήσουν. Ελπίδα και λιτότητα ως χριστιανοί, κάνοντας δική μας την λατρευτική προσευχή του Αγίου Αμβροσίου του Μιλάνου: «Ο Χριστός να είναι η τροφή μας, η πίστη να είναι το ποτό μας, ας πιούμε χαρούμενοι τη λιτή μέθη του Πνεύματος».

Ελπίδα και λιτότητα, ήρθαν πολλές φορές στη σκέψη μου τους τελευταίους μήνες, στους οποίους ζούμε από κοντά τον πόλεμο στην Ουκρανία, και τις δραματικές συνέπειες που επακολουθούν. Και λέω «ζούμε», γιατί κανένας πόλεμος δεν μπορεί να μας αφήσει αδιάφορους, και ο πόλεμος στην Ουκρανία βρίσκεται στο κέντρο της Ευρώπης μας· μας αγγίζει από κοντά και μας τοποθετεί μπροστά σε ερωτήματα και σε αβεβαιότητες, που λίγα χρόνια πριν δεν θα μπορούσαμε ούτε να τα διανοηθούμε· με τον ίδιο τρόπο δεν θα μπορούσαμε να διανοηθούμε ούτε στον προθάλαμο του νου μας μία πανδημία πραγματικά παγκόσμια.

Ελπίδα και λιτότητα. Ο πόλεμος στην Ουκρανία παρόλη τη δραματικότητά του, έχει και ορισμένες όψεις, που μπορούμε να τις ονομάσουμε «ωραίες και πραγματικά συγκινητικές», στο τομέα της αλληλεγγύης και της αγάπης· οι όψεις αυτές έκαναν και συνεχίζουν να κάνουν τις ουκρανικές κοινότητες, ιδιαίτερα εκείνες της ευρωπαϊκής διασποράς, περισσότερο αγαπημένες και αλληλέγγυες, ώστε καμία από αυτές να μην ξεχαστεί ή να μην εγκαταλειφτεί στη μοναξιά. Η γενναιοδωρία που εκδηλώθηκε και εκδηλώνεται ακόμα στους μήνες αυτού του πολέμου, ήταν και είναι, (το επαναλαμβάνω), πολύ ωραία και εποικοδομητική· γράφω την τελευταία αυτή λέξη όχι για να ομορφύνω το κείμενό μου, αλλά για να υποδείξω ότι κάτι το ωραίο οικοδομείται. Στην Αθήνα στην Αποστολική μας Εξαρχία για τους Καθολικούς βυζαντινής παράδοσης στην Ελλάδα, από εικοσιπέντε χρόνια βρίσκεται μια ωραία ουκρανική κοινότητα, μία από τις τρεις κοινότητες της Εξαρχίας μας, της μοναδικής μας Εκκλησίας που αποτελείται από Έλληνες, Ουκρανούς, Χαλδαίους και άλλους καθολικούς πιστούς. Κατά τους μήνες αυτούς οι ποσότητες ρουχισμού, τροφίμων, φαρμάκων, που μας έφθασαν, μας κάνουν να βλέπουμε πόσο οι ενορίες και όλη η χριστιανική κοινότητα της Ελλάδος, τόσο των Καθολικών όσο και των Ορθοδόξων ανακαλύφθηκαν γενναιόδωρες, αλληλέγγυες, αληθινά αδελφικές. Και ως Επίσκοπος της ουκρανικής κοινότητας στην Αποστολική μας Εξαρχία αισθάνομαι συγκινημένος, όχι μονάχα από την υποχρέωση, αλλά προπάντων από τη χαρά να ευχαριστήσω πραγματικά όλους για τις προσφορές τους. Επιθυμώ να επαναλάβω τα λόγια του Αποστόλους Παύλου στο βιβλίο «Πράξεις των Αποστόλων»: «Είναι μεγαλύτερη η χαρά να δίνουμε παρά να λαβαίνουμε». Οι λέξεις αυτές επαληθεύονται στις ημέρες μας με ιδιαίτερο τρόπο.

Ελπίδα και λιτότητα μπροστά σε αυτά τα γεγονότα, δηλαδή από τη μία μεριά το δράμα ενός πολέμου στην καρδιά της Ευρώπης, και από την άλλη η ικανότητα της πραγματικής χριστιανικής καρδιάς τόσων και τόσων ανθρώπων στην Ελλάδα και σε όλο τον κόσμο, οι οποίοι έδωσαν και δίνουν όχι μόνο από το περίσσευμά τους, αλλά και από το υστέρημά τους, αυτού που οι ίδιοι έχουν ανάγκη, σε μία πολύ οικονομικά δύσκολη στιγμή, αναρωτιέμαι ποια πρέπει να είναι η δική μας απάντηση ως Καθολικής Εκκλησίας στην Ελλάδα και ιδιαίτερα της δικής μας Αποστολικής Εξαρχίας, όπου όπως ήδη ανέφερα, από εικοσιπέντε χρόνια ζει, αναπτύσσεται και τελεί τα χριστιανικά της καθήκοντα μία πολυάριθμη ελληνοκαθολική ουκρανική κοινότητα, η οποία επαυξήθηκε τους τελευταίους μήνες με την αύξηση των προσφύγων από τη μητέρα πατρίδα.

Ως Επίσκοπος αυτής της Καθολικής Εκκλησίας στην Ελλάδα, ως πνευματικός ποιμένας της ελληνικής κοινότητας, της ουκρανικής και της χαλδαϊκής κοινότητας της Εξαρχίας, κοινότητες οι οποίες, όπως σας έλεγα στην ποιμαντική μου επιστολή της Πεντηκοστής, αποτελούν μία μοναδική Εκκλησία γύρω από ένα μοναδικό Επίσκοπο, πιστεύω ότι οφείλουμε να είμαστε αληθινά ευγνώμονες για την γενναιόδωρη κινητοποίηση αλληλεγγύης απέναντί μας, γιατί η ευγνωμοσύνη είναι μία αρετή πολύ χριστιανική. Μία ευγνωμοσύνη η οποία ζητά και από εμάς, τώρα και πάντοτε, μία στάση ταπεινοφροσύνης στην κατάσταση που πρέπει να ζούμε. Είναι μία κατάσταση στην περίπτωση της Ουκρανίας, μίας χώρας που χτυπήθηκε από την βιαιότητα και τα όπλα μίας άλλης χώρας, ιστορικά μίας χώρας αδελφικής ανά τους αιώνες· το γεγονός αυτό κάνει ασφαλώς την παρούσα κατάσταση ακόμα πιο βαριά και πιο οδυνηρή. Είμαστε όλοι χριστιανοί, Έλληνες, Ουκρανοί, Ιρακινοί, όπως χριστιανοί είναι και στον πόλεμο της Ουκρανίας ο λαός και οι πολιτικοί ηγέτες της Ρωσίας· το γεγονός αυτό δεν καθιστά καθόλου ευκολότερη τη θέση μας, ούτε πιο εύκολη την απάντησή μας στην τραγωδία του πολέμου.

Ελπίδα και λιτότητα. Είμαστε χριστιανοί και η δράση μας, ο λόγος μας,  η καρδιά μας πρέπει να υποκινούνται πάντοτε από το Ευαγγέλιο· αυτό σημαίνει, όπως ήδη προανέφερα μία βαθιά ευγνωμοσύνη για όσα λάβαμε, μία ευγνωμοσύνη ταπεινή και χωρίς αξιώσεις. Επομένως μία δράση, ένα λόγο και μία καρδιά πραγματικά χριστιανικά, ακόμα και όταν μας ζητείται να προτείνουμε και το άλλο μάγουλο, να προσευχόμαστε για τον εχθρό μας, ακόμα και αν αυτός είναι αδελφός μας, και μάλιστα χριστιανός όπως εμείς, να συγχωρούμε μέχρι εβδομήντα φορές επτά. Και αυτό είναι το Ευαγγέλιο, χωρίς «εάν…», χωρίς «αλλά…», χωρίς «όμως…», ασφαλώς με πόνο, δεν το αρνούμαι, όπως ήταν η άφεση του Κυρίου μας Ιησού Χριστού, ο οποίος από τον σταυρό του, λίγο πριν πεθάνει, ζήτησε να συγχωρεθούν οι σταυρωτές του. Η δράση μας, η ομιλία μας, η καρδιά μας γίνονται (οφείλουν να γίνονται), τρεις χώροι ζωής του Ευαγγελίου, χώροι ασφαλώς οδυνηροί κατά την παρούσα στιγμή, όπως οδυνηροί ήταν κατά τη μεγάλη και μοναδική εκείνη Μεγάλη Παρασκευή, αλλά και εκεί όπως και σήμερα τόπος για να ζούμε και να κηρύττουμε το Ευαγγέλιο.

Η δική μας δράση, ριζωμένη στο Ευαγγέλιο προσπαθεί να δημιουργήσει γύρω μας, στους πιστούς μας, στον λαό μας ένα κλίμα ευγνωμοσύνης, φιλοξενίας και ποτέ φιλοδοξίας γιατί αυτή η φιλοδοξία στην παρούσα στιγμή θα μπορούσε να είναι η αμαρτία μας. Ο πόνος, ο διωγμός και το μαρτύριο δεν θα έπρεπε ποτέ να υψώνονται ως αντικείμενο προσοχής, αλλά ως στιγμή χάρης, οδυνηρής αλλά πάντοτε χάρης. Η ευγνωμοσύνη χωρίς αξιώσεις (το λέω με πεποίθηση), είναι μία αρετή αληθινά χριστιανική, η οποία μας κάνει χριστιανούς, μας πλησιάζει μεταξύ μας, δυναμώνει την αλληλεγγύη μας.

Η ομιλία μας, ριζωμένη και αυτή στο Ευαγγέλιο, αναγγέλλει πάντοτε και αποκλειστικά το Χαρμόσυνο Μήνυμα του Χριστού, και όχι τον δικό μας τρόπο σκέψης. Πρέπει να είμαστε όπως μας ζητά το Ευαγγέλιο «ειρηνοποιοί, δημιουργοί, οικοδόμοι της ειρήνης». (Μτθ.5).

Τελικά, το Ευαγγέλιο είναι μέσα στην καρδιά μας, ώστε να την κάνει αληθινά χριστιανική καρδιά. Πολλές φορές η καρδιά του ανθρώπου είναι το δυσκολότερο έδαφος για να οργωθεί, να γίνει γόνιμο, είναι η πιο δύσκολη πραγματικότητα για να ευαγγελιστεί.

Ελπίδα και λιτότητα. Ελπίδα εδραιωμένη σ’ Εκείνον, τον Κύριον, αναστάντα από τους νεκρούς, νικητή κατά της αμαρτίας και κατά του θανάτου. Λιτότητα η οποία κατά την παρούσα στιγμή ζητά από μας να δεχθούμε με ταπεινοφροσύνη και πτώχεια (που δεν είναι εύκολες αλλά απαραίτητες), να δεχθούμε ώστε τόσες πράξεις, τόσες πρωτοβουλίες, τόσες προβλέψεις έναντι των μεγάλων προβλημάτων του κόσμους μας δεν τις αντιλαμβανόμαστε σε όλες τις διαστάσεις τους. Αυτό απαιτεί από εμάς ως ποιμένες της Εκκλησίας (Επισκόπους και Ιερείς), μία στάση πολλές φορές σιωπής, και προπάντων μία στάση λιτότητας και αυστηρότητας ζωής, μίας αυστηρότητας οδυνηρής, δεν το αρνούμαι, αλλά απαραίτητη για τις ημέρες που ζούμε.

Κατά την παρούσα στιγμή, όπως και σε άλλες στιγμές της αρχαίας και της πρόσφατης ιστορίας, το μεγάλο λάθος, κατά τη γνώμη μου, θα ήταν να διεκδικούμε το τέλος των πολεμικών συγκρούσεων μεταξύ των λαών (όπως συνέβηκε με πολλούς πολέμους, παλαιούς και νέους), με έναν μεγάλο νικητή και έναν μεγάλο ηττημένο. Αυτός θα ήταν ο τρόπος για να διαιωνιστεί η πολεμική σύγκρουση, για πολλά ακόμα χρόνια. Οι πόλεμοι που τελείωσαν με έναν μεγάλο νικητή και έναν μεγάλο ηττημένο υπήρξαν πάντοτε μεγάλες ήττες για τους εμπόλεμους λαούς και για την ίδια την ανθρωπότητα.

Επαναλαμβάνω την φράση του Α. Puigverd, στο άρθρο που ανέφερα στην αρχή, «Στις μέρες μας… υπάρχει μία θλίψη, η οποία δεν αποκλείει ούτε την ελπίδα ούτε το αίσθημα ενοχής». Αυτή η θλίψη και αυτό το συναίσθημα ενοχής είναι ίσως, ή θα έπρεπε να είναι εκείνη η «συντριβή της καρδιάς», για την οποία μιλούν συχνά οι Πατέρες του χριστιανικού μηχανισμού στα συγγράμματα τους· πρόκειται για την συντριβή εκείνη που θα έπρεπε να συντρίβει την καρδιά του μοναχού (ακόμα και του ανθρώπου και της ανθρωπότητας των ημερών μας)· σ’ αυτήν τη θλίψη, σ΄αυτήν τη λύπη, σ’ αυτά τα δάκρυα της συντριβής, τα οποία σαν ένα βάπτισμα ξεπλένουν και ανοίγουν πάντοτε μία νέα ελπίδα. Μία θλίψη, μία λύπη, έναν πόνο, τα οποία, όπως κατά το Μεγάλο Σάββατο, η θεία λατρεία των χριστιανικών Εκκλησιών μας κάνουν να τα ζήσουμε ανοιχτά προς την ελπίδα, διαποτισμένα ήδη από την χαρά της Ανάστασης, κατεξοχήν ημέρας ελπίδας και λιτότητας.