martedì 24 maggio 2022

 «Capisci quello che stai leggendo?»

«E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?».

         La lettura continua del libro degli Atti degli Apostoli durante il periodo pasquale ci ha fatto ritrovare tante pericopi del testo sacro che ci riportano agli inizi della Chiesa, ai primi passi degli apostoli -i Dodici, Paolo ed i suoi discepoli- nell’annuncio del Vangelo di Cristo. Una delle pericopi lette è l’incontro, la missione vera e propria, di Filippo verso l’eunuco etiopico che troviamo in Atti 8,26-40. È un testo che sempre mi è apparso come uno dei più bei esempi di mistagogia nella Sacra Scrittura, una mistagogia breve e succinta riassunta in questa frase: “…gli annunziò la buona novella di Gesù…”. Parlo della mistagogia intesa come quella guida, introduzione di qualcuno a qualcun’altro e verso qualcosa, quasi guidandolo per mano. Mistagogia, pedagogia anche se si vuole, due parole che ci riportano a quel “sapiente guidare alla conoscenza, alla comprensione” da parte di un maestro verso un suo discepolo non per forza ignorante ma sì desideroso di imparare, di comprendere. Un imparare ed un comprendere -e quindi anche un vivere- che per i cristiani è il mistero allo stesso tempo manifesto e nascosto, reale e celato nelle pagine della Sacra Scrittura: il Verbo eterno di Dio incarnato, nato, patito, morto e risorto.

Questo è il mistero -ripeto nascosto e celato nel testo sacro- con cui l’eunuco etiopico si imbatte e alla cui comprensione viene portato per mano da Filippo, il suo mistagogo. L’eunuco non chiede grandi delucidazioni, ma porge semplicemente una domanda: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo?”. E Atti conclude: “(Filippo) gli annunziò la buona novella di Gesù”.

Inizio queste mie riflessioni con un aneddoto personale che mi è capitato nel mese di febbraio 2022 a Roma, nella commemorazione del XXV anniversario dell’Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, pubblicata appunto 25 anni fa dalla Congregazione per le Chiese Orientali. Nella tavola rotonda in cui si commemorava, si discuteva, si analizzava il testo della suddetta Istruzione, un vescovo, capo e padre di una delle Chiese Orientali Cattoliche presenti nel convegno romano, fecce un intervento che non soltanto destò in me una vera e propria sorpresa, ma davvero mi preoccupò -per non dire che mi mise in agitazione-, un intervento in cui, riassumendone il contenuto, colui che dovrebbe essere il padre, il pastore, il liturgo di una Chiesa sui iuris, una Chiesa vera e propria, faceva questa affermazione: “La gente ormai non capisce più le nostre liturgie, perché hanno un linguaggio incomprensibile, sono estremamente lunghe e senza un legame con il popolo. Dobbiamo creare un qualcosa di nuovo a livello liturgico, che abbia un linguaggio facile, ed uno svolgimento (celebrativo si intende!) che non stanchi e annoi la gente… Una liturgia che sia anche comprensibile ed accettabile dall’islam (come potete capire si faceva riferimento a una Chiesa che vive in un contesto fortemente islamico!). L’intervento in questione proseguì ancora, ma fu il paragrafo citato che provocò in me l’agitazione di cui sopra, e con tutto il rispetto verso quel padre e pastore di una Chiesa cristiana orientale, ma con la parresia anche con cui da fratello a fratello dovremo sempre parlarci e rapportarci tra di noi almeno i vescovi, risposi a quel intervento dicendo: “Eminenza e caro fratello, ho ascoltato il Suo intervento con interesse all’inizio e con vera preoccupazione poi, e vorrei semplicemente dirLe questo: se nel IV secolo tutti i testi liturgici delle Chiese cristiane, tutte le celebrazioni, tutti i simboli e segni liturgici, fossero stati chiari e comprensibili a tutti, oggi non avremo nelle nostre mani le magnifiche catechesi mistagogiche di Cirillo di Gerusalemme, di Teodoro di Mopsuestia… Il nostro problema oggi -dico nostro e non vostro, perché ci siamo tutti di mezzo!- non è che i testi liturgici siano più o meno comprensibili, più o meno difficili, più o meno lunghi, ma il problema oggi è la nostra rinuncia a fare per i nostri fedeli, che sono il nostro gregge, una vera e propria mistagogia, e coprirci le spalle con quel troppo facile: “…la gente non capisce, la gente si stanca…”. La domanda di Filippo e la risposta dell’eunuco diventano più reali e valide che mai: «Capisci quello che stai leggendo?». «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?».

         La necessità vitale della mistagogia nelle Chiese cristiane, ed anche la povertà della non mistagogia o della mancanza assoluta di essa tra di noi, mi si è presentata in modo molto reale in diversi incontri con i miei fedeli, con i miei studenti, con tanti pastori e fedeli delle Chiese cristiane, specialmente durante il periodo della pandemia, un tema che si ripropone in queste ultime settimane in cui, lentamente, stiamo riprendendo una vita che alcuni qualificano come “normale”, che altri chiamano “già senza limiti”, e che altri con uno spunto anche direi di pigrizia umana e spirituale, semplicemente bollano con un “tornare com’era prima” (prima della pandemia si intende). E il fatto che mi fa pensare è che, trovandoci di fronte ad un momento, un kairòs direi che ci viene offerto, che chiede da noi e quasi ci esige l’opportunità di ripensare tante cose, come le facevamo, come dobbiamo farle, se dobbiamo farle…, di fronte a questo kairòs -non oso parlare di “dono” del covid ma si “a causa sua”- dobbiamo in qualche modo dare una risposta.

         Siamo di fronte al grande problema che le Chiese cristiane tutte di Oriente e di Occidente -e già da alcuni decenni- abbiamo sul nostro tavolo, cioè: fare o non fare una vera e propria mistagogia ai fedeli. L’aneddoto di febbraio 2022 citato sopra -ed uso la parola aneddoto per non usare un termine più forte- ci riporta a un fatto che è centrale per tutti noi: le nostre liturgie, i testi proclamati in esse -biblici e patristici-, i simboli ed i segni presenti in esse, e il cui significato non è sempre evidente ad un primo sguardo, ad una prima lettura, parlano a noi, certamente, ma soprattutto parlano di Lui! “…gli annunziò la buona novella di Gesù…”, leggiamo in Atti 8. E qui entra in gioco il nostro ruolo come mistagoghi. La mistagogia certamente è impegnativa, e deve trovarci preparati, suppone un’abitudine ad una lectio divina della Sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa, ma la mistagogia è necessaria, è vitale per noi e per le nostre Chiese. Se si rinuncia a fare una mistagogia, se i pastori delle Chiese rinunciamo oggi ad essere in primo luogo mistagoghi verso e per il nostro popolo, allora non ci resta altro da fare che -permettetemi l’espressione- la “potatura”, oppure il “taglio netto” dei testi sacri e liturgici delle nostre tradizioni ecclesiali -e la sorte del Salterio nella tradizione latina dopo l’ultima riforma della Liturgia delle Ore ne è l’esempio più tragico.

         Torniamo al testo di Atti 8. Si tratta di uno degli esempi più belli di una mistagogia agli albori della Chiesa. Non farò una lectio del testo per intero. Soltanto sottolineo alcuni punti che mi sembrano notevoli e mi servono per questa mia riflessione:

-Filippo è chiamato dal Signore a raggiungere l’etiopico che legge la Sacra Scrittura. Filippo, ed anche colui che è chiamato oggi a fare una mistagogia, riceve la chiamata dal Signore. Chiamata a che cosa? A raggiungere l’etiopico, cioè colui/coloro che legge/leggono/pregano la Sacra Scrittura. Una chiamata alla mistagogia, a guidare ai misteri, chiamata che riceviamo tutti noi i vescovi, i preti, i diaconi, i maestri -professori di teologia o insegnanti che siano- tutto coloro che abbiamo un ministero didascalico nella Chiesa.

-Il luogo, il cammino descritto negli Atti è deserto, solitario, e non ha possiamo dire punti di appoggio, soltanto ci sono il lettore, il carro su cui è seduto, il rotolo del testo sacro e Filippo che vi raggiunge: “ατη στν ρημος… il luogo era deserto”. L’incontro dell’uomo con il Signore attraverso la sua Parola è sempre un luogo, una esperienza di deserto, Dio e l’uomo seduto sul carro da soli. Anche per questo l’incontro con la Parola, la sua comprensione può essere, è infatti, tante volte arida, forse anche incomprensibile. Ma l’eunuco, di fronte alle difficoltà, non butta via il rotolo, persevera nella sua lettura anche senza capirne il senso.

-Filippo trova l’eunuco che legge il profeta Isaia -Atti degli Apostoli ci indica in modo preciso il passo di cui si tratta, non rimane vago, indeterminato, ma ci situa in un testo concreto e importante-, e Filippo viene spinto dallo Spirito a raggiungere il lettore, ed anche sale sul carro.

-Filippo corre, raggiunge l’uomo, ascolta cosa legge -la lettura ad alta o mezza voce nell’antichità è un fatto importante, che coinvolge possiamo dire corpo e anima di colui che legge-, e li porge quella domanda e riceve quella risposta che sono il nocciolo del testo di Atti: “gli disse (Filippo): «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?»”. Filippo corre all’incontro, non rifiuta l’incontro con quell’uomo non ignorante ma sì sprovveduto e sprovvisto, e ascolta, chiede e ascolta di nuovo.

-Atti degli Apostoli ci dice chiaramente di che testo si tratta: “Come una pecora fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, ma la sua posterità chi potrà mai descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. Avremo potuto aspettarci che la domanda dell’eunuco fosse stata: “…ma non ci capisco niente di quanto il testo dice: … pecora… macello… agnello muto… reciso dalla terra… Cosa è questo linguaggio duro, strano, quasi tragico?”. Ma guardate che la domanda dell’eunuco è semplicemente: «Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di sé stesso o di qualcun altro?». Chiede semplicemente di sapere di chi parla il testo, ha capito che più che comprendere il senso del testo, deve sapere, vedere, capire a chi va attribuito, di chi parla.

-Filippo “…prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù”. La spiegazione del “chi”, la mistagogia di Filippo la troviamo nella frase: “…gli annunziò la buona novella di Gesù”. Il testo sacro infine prosegue col battesimo dell’eunuco, chiesto da lui stesso e l’accoglienza del dono dello Spirito Santo. La mistagogia di Filippo si conclude con il battesimo dell’eunuco.

Si tratta di un brano chiaro e diafano che ci mette di fronte a quelle cose che potevano capitare e proprio non sono capitate, vale a dire: Filippo è mandato, inviato, ma poteva anche rifiutarsi, poteva trovare anche lui delle scuse. Filippo inoltre, dopo aver sentito, ascoltato di ché brano si trattava, poteva dire all’eunuco: “…sei proprio sfortunato…, ti sei imbattuto, hai scelto, un testo proprio difficile… il linguaggio del sacrificio ormai non lo si capisce più… Lascia che ti mostro io altri testi più belli e più facili. L’eunuco da parte sua dall’inizio delle difficoltà poteva anche lui buttare via il rotolo di Isaia bisbigliando tra sé e sé: “…ma chi li capisce questi testi antichi! Non abbiamo altro più poetico, più moderno, più confortante, meno aggressivo?”.

Ma no, né l’uno né l’altro reagiscono così. Filippo raggiunge l’eunuco e diventa per lui un vero e proprio mistagogo. L’eunuco da parte sua non butta via il rotolo, ma chiede sì una spiegazione ma soprattutto chiede di sapere, di comprendere di chi il testo parla, a chi fa riferimento. E “Filippo, prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù”.

Tornando all’inizio della mia riflessione, e in questo momento in cui lentamente torniamo alla “normalità” a livello delle celebrazioni liturgiche nelle Chiese cristiane, vorrei dare una risposta a una domanda che mi è stata posta da parecchi sacerdoti ed anche vescovi: “in questo momento, cosa e soprattutto come dobbiamo fare?”. E qui ribatto il chiodo centrale di queste mie pagine: fare/essere dei veri e propri mistagoghi. Mai e poi mai rinunciare ad esserlo, altrimenti ci imbattiamo col destino tragico di tanti testi sacri e liturgici delle nostre tradizioni. «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?», risuona di nuovo la risposta dell’eunuco.

Faccio due esempi che vengono a galla molto spesso in queste nostre settimane di “ripresa” post pandèmica a livello ecclesiale e liturgico, in Oriente ma soprattutto in Occidente, e cioè: la ricezione della comunione ai Santi Doni nella mano o sulla bocca. Poi lo scambio/abbraccio di pace tra i fedeli. Riguardo al primo punto, la comunione data sotto le due specie, Corpo e Sangue di Cristo per intinzione e data sulla bocca, come tradizione nelle Chiese Orientali, risolve qualsiasi problema ci fosse a livello diciamo polemico sul come si riceve la comunione. Invece, se la comunione si dà soltanto sotto la specie del pane, essa si riceve sulla bocca, oppure se si decide di darla sulla mano, bisogna evitare la polemica e spiegare che la si riceve con la mano destra stesa sulla sinistra, come testimoniato in diversi testi patristici dei primi secoli cristiani, un fatto, un atteggiamento che sottolinea quell’aspetto che è il più fondamentale, cioè: la comunione è un dono che si riceve, ci viene dato dalla Chiesa attraverso il vescovo o il sacerdote che celebra la liturgia, e non è un qualcosa “a cui avrei diritto” e che mi prendo da solo quasi si trattasse -e consentitemi l’espressione- di un “self service” liturgico con il Corpo di Cristo preso da una patena o una pisside che si passa dall’uno all’altro, oppure che “piglio” con due dita, quasi fossero una pinza, da qualcuno che la distribuisce. Torniamo al tema centrale di queste pagine: in questo momento della vita ecclesiale, bisogna fare il mistagogo e spiegare ai fedeli di nuovo cos’è l’eucaristia, il grande dono del Signore agli uomini, dono che per riceverlo, liturgicamente e fisicamente, ci alziamo, facciamo una processione, camminiamo all’incontro con Lui, il Signore e lo riceviamo appunto come dono. «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?», potrebbe ancora risuonare la risposta dell’eunuco.

Il secondo esempio a cui vorrei accennare è lo scambio/abbraccio di pace che avviene nelle liturgie cristiane. Soppresso durante la pandemia, alcune Chiese lo stanno ripristinando lentamente. Anche su questo punto bisognerà indossare i panni del mistagogo e spiegare ai fedeli cosa è, cosa significa questo momento della liturgia delle Chiese cristiane. Per quanto riguarda le Chiese orientali, nella tradizione bizantina un vero e proprio scambio di pace è rimasto soltanto tra il vescovo ed i sacerdoti che concelebrano con lui prima della recita del Credo. In altre Chiese orientali -penso alle Chiese siriache per esempio- il vescovo o il sacerdote celebrante dopo aver baciato e toccato con la mano l’altare, congiunge le sue mani con quelle del diacono, il quale, scendendo dall’altare passa attraverso i banchi dei fedeli congiungendo le sue mani con quelle del primo dei fedeli di ogni banco o sedie. Cioè quella pace che ci si scambia è la pace di Cristo, che viene dall’altare, dal sepolcro di Cristo, dal luogo della sua risurrezione. È la pace di Cristo che ci si scambia tra i fedeli, e lo si fa con queste parole: “Cristo è in mezzo a noi. Lo è e lo sarà”, oppure in periodo pasquale: “Cristo è risorto” Veramente è risorto”. E siamo di fronte, e di nuovo, al ruolo del mistagogo nello spiegare, anche in questo nostro kairòs post pandemico, cosa è questo momento liturgico, chi è l’origine e il datore di questa pace nel momento liturgico in cui esso avviene. Spiegare che non è il momento per salutare amichevolmente o meno il vicino di banco nella chiesa, quasi fosse una rimpatriata tra amici. Neanche, nel rito romano, il momento liturgico che con un suo canto proprio magari debba sostituire quell’altro momento importante che è il canto, l’acclamazione dell’ Agnus Dei che accompagna la frazione del Corpo di Cristo.

Fare ed essere dei veri e propri mistagoghi, mai e poi mai rinunciare ad esserlo. «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?»…. Ci va non dico la sopravvivenza della nostra Chiesa e della liturgia che in essa si celebra, perché ambedue sono dono del Signore, nati dalla sua santa risurrezione e dal dono dello Spirito Santo, da Lui vivificati ogni giorno, ma ci va la comprensione del mistero della nostra fede da parte di molti e molti dei nostri fedeli.

Ho voluto fare, per modo di dire, una lectio del testo di Atti 8. Ho lasciato semplicemente risuonare tra le righe della mia riflessione la risposta dell’eunuco e che possiamo dire mette le dita sulla piaga: “…gli disse (Filippo): «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?»”. L’eunuco etiopico diventa voce di tanti e tanti fedeli cristiani, orientali e occidentali, che non buttano via il rotolo biblico, che rimangono perseveranti nella sua lettura, rispettandone la forma ed il contenuto, ma che ci mettono di fronte al dialogo che avviene su quel carro che scende da Gerusalemme: «Capisci…?», «…e come lo potrei, se nessuno mi istruisce?»”. Ho accennato soltanto due volte al carro su cui siede l’eunuco e a cui sale Filippo per fare la sua mistagogia. Cos’è il carro da viaggio di cui parla Atti? Rimango fedele all’esegesi dei Padri, e propongo di vedere in esso la Chiesa che scende da Gerusalemme dopo la Pasqua del Signore. In essa mistagogo e fedele vivono e celebrano la Pasqua del Signore.

Filippo è mandato, raggiunge l’eunuco che legge e “…prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù”. Mistagogia di Filippo che raggiunge la sua pienezza alla fine della pericope col battesimo dell’eunuco. Il passo degli Atti degli Apostoli mi ha portato a proporvi queste brevi riflessioni attorno a uno dei ministeri più importanti e fondamentali a cui siamo chiamati e di cui mai e poi mai possiamo e dobbiamo scusarci o rinunciare: e “…e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù”.

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico

sabato 21 maggio 2022

 

Cattedrale greco cattolica della Santissima Trinità, Atene

Rallis Kopsidis, XX secolo


Lettera pastorale per la Pentecoste, 12 e 13 giugno 2022

Carissimi,

Il vespro della Pentecoste ci dà due tropari che vorrei fossero il filo conduttore della mia lettera pastorale quest’anno. Due testi liturgici che in qualche modo disegnano l’icona della nostra vita cristiana e del nostro essere Chiesa Cattolica di tradizione bizantina in Grecia.

       “Hai iniziato i tuoi discepoli a lingue di genti straniere, perché con esse annunciassero te, Dio Verbo immortale che elargisci alle anime nostre la grande misericordia”.

       “Ogni bene procura lo Spirito santo: fa scaturire le profezie, ordina i sacerdoti, ha insegnato la sapienza agli illetterati, ha reso teologi i pescatori, tiene saldo tutto l’armonico ordinamento della Chiesa. O tu, consu­stan­ziale al Padre e al Figlio, con essi assiso sull’unico trono, o Paraclito, gloria a te”.

Sono dei testi che ci portano a diversi aspetti importanti, direi fondamentali del nostro vivere ed essere cristiani. Il primo dei tropari canta: Hai iniziato i tuoi discepoli a lingue di genti straniere, perché con esse annunciassero te, Dio Verbo immortale…”. Il Signore ci inizia, ci rinnova, ci fa uomini nuovi nella conoscenza delle “lingue straniere” dice il testo liturgico, e ciò significa che ci fa aperti, ci fa uomini nuovi nell’accogliere la diversità nella nostra vita cristiana. Con l’immagine delle “lingue straniere”, ci fa pronti, apre il nostro cuore all’accoglienza senza limiti. Quando parliamo/comprendiamo/accogliamo la lingua dell’altro, costui non è più altro, diverso, ma diventa fratello.

Il secondo dei tropari sottolinea quello che il Signore opera in noi col dono dello Spirito Santo, quel dono che: “…fa scaturire le profezie, ordina i sacerdoti, ha insegnato la sapienza agli illetterati, ha reso teologi i pescatori, tiene saldo tutto l’armonico ordinamento della Chiesa”. Quindi il dono che ci fa uomini nuovi salvati e redenti, che ci rinnova e ci fa capaci di annunciare il Dio che si fa uomo, si fa uno di noi. Un dono dello Spirito Santo che ci fa profeti, sacerdoti, saggi nella saggezza del Vangelo, ci fa teologi, capaci di parlare a Dio, e di Dio e in Dio agli uomini. Un dono dello Spirito Santo che ci fa custodi -e questo è un impegno importante di tutti noi- di “…tutto l’armonico ordinamento della Chiesa”. Uomini di comunione e di pace, come vi insistevo anche nelle mie ultime due lettere pastorali. La comunione ecclesiale -e ne sono profondamente convinto- è un dono dello Spirito Santo, ma che ci chiede, ci esige direi, di esserne custodi sempre.

Dai due tropari ne vengono fuori quindi due punti importanti, due aspetti che voglio sottolinearvi: accoglienza e dono.

Accoglienza. In primo luogo, l’accoglienza del Signore nelle nostre vite e quindi anche l’accoglienza del suo Vangelo. Accogliere il Signore che ci guida, che cammina accanto a noi e con noi, come vi insistevo nella lettera pasquale. Accogliere e vivere il suo Vangelo, Parola di vita e Parola vivente, Vangelo, Buona Novella di amore, di perdono, di riconciliazione e di pace. E questo diventa per noi non soltanto fondamentale ma direi anche vitale nel momento travagliato della storia che stiamo vivendo.

Dono. Il dono della profezia, del sacerdozio, della saggezza, della comunione. Profezia nell’annuncio del Vangelo, in qualsiasi situazione che ci tocchi di vivere. Sacerdozio nel servizio al Signore ed ai fratelli nella Chiesa. Saggezza nell’insegnamento a cui, come vescovo, come sacerdoti, siamo chiamati. Comunione nel creare e nel vivere come Chiesa e nella Chiesa unità e fraternità nate e scaturite dal Vangelo.

 Centenario dell’Esarcato Apostolico.

Quest’anno 2022 per l’Esarcato è un anno importante, benché sia stato ancora per parecchi mesi segnato dai limiti e dalle sofferenze scaturite dalla pandemia. Infatti, correva l’anno 1922 quando l’esarca apostolico mons. Giorgio Calavassy, nominato esarca da papa Benedetto XV nel 1920, si stabilì ad Atene. E quindi in questo anno 2022 si compiono i cento anni della presenza dell’Esarcato, con il vescovo, i sacerdoti ed i fedeli in Grecia. Gli oltre due anni di pandemia con i limiti che ci hanno imposto, mi ha fatto prospettare un’eventuale celebrazione in modo diciamo “ufficiale” del nostro centenario più avanti, magari dalla fine del 2022 e durante il 2023. Ma la mia lettera pastorale di questa Pentecoste vuole, prendendo spunto dei due tropari sopra citati, riflettere già sulla nostra Chiesa, sull’Esarcato Apostolico di tradizione bizantina in Grecia, e nella celebrazione della festa della Pentecoste domenica e lunedì 12 e 13 giugno, con le Divine Liturgie di questi due giorni dare inizio alle celebrazioni che, come accennavo, avranno dei momenti importanti e significativi lungo il 2023. Ad ogni modo, un inizio che allo stesso tempo sarà simbolico e reale di questo nostro centenario sarà la benedizione della nuova sede della libreria Kalòs Typos, che è l’unica libreria e casa editrice cattolica in Grecia, nuova sede che si trova da alcune settimane proprio nell’edificio dello stesso Esarcato Apostolico ad Acharnon 246. La benedizione la faremo il lunedì della Pentecoste a conclusione della celebrazione della Divina Liturgia.

Dal mio arrivo in Grecia come vescovo esarca nel 2016, mi sono accorto di una realtà che può sembrare paradossale: da una parte siamo una Chiesa in tanti aspetti piccola e povera, che ha soltanto due parrocchie, con un numero ridotto di sacerdoti e di religiose, con molte difficoltà a livello direi quasi di sussistenza quotidiana. Ma dall’altra parte siamo una Chiesa viva, che cammina con fede, che celebra i Santi Misteri, che annuncia il Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo. Una Chiesa, la nostra, con dei sacerdoti provenienti dalla Grecia, dall’Italia, dalla Slovacchia, dall’Ucraina, dall’Ungheria, dall’Iraq, ed il vescovo proveniente dalla Spagna. E questo costituisce sempre una grande ricchezza, mai un limite, è veramente un dono: Hai iniziato i tuoi discepoli a lingue di genti straniere.

Una Chiesa con la comunità di suore della Pammakaristos a Kifissià, che continua il servizio di preghiera, di generosità, di aiuto e di amore verso il nostro Esarcato. Nel ricordo delle grandi opere fatte dalle suore in questi cento anni di esistenza. Una comunità presente e viva nel nostro Esarcato e che speriamo che il Signore continuerà benedicendo con nuove forze al suo interno.

Una Chiesa con dei fedeli greci, ucraini e iracheni che amano questa nostra Chiesa, e questo amore assieme alla forza e alla grazia del dono dello Spirito Santo, costituisce la linfa vitale del nostro Esarcato. Con delle realtà molto importanti e belle che ne sono la corona di questa nostra Chiesa: la Fondazione Pammakaristos per i giovani, la Caritas Divina Providenza, ed anche la grande ricchezza che è la presenza molteplice a livello ecclesiale, etnico e linguistico; siamo una Chiesa con dei fedeli greci ed ucraini, ambedue questi gruppi nella comune tradizione bizantina, e dei fedeli iracheni e siriani di tradizione caldea; realtà queste che sono un vero gioiello nel cuore della nostra Chiesa. Ritroviamo le due parole che ho sottolineato all’inizio: accoglienza e dono.

Siamo una Chiesa che cento anni fa ha vissuto nella propria carne l’emigrazione, la persecuzione, la guerra, e che oggi è sensibile anzi aperta ad accogliere chi soffre appunto l’emigrazione, la persecuzione, la guerra, accogliendo con le braccia aperte fratelli cristiani dall’Ucraina, dall’Iraq, terre pure esse cristiane e provate dalla persecuzione, dall’odio e dalla guerra.

In questo momento in cui guardiamo alla celebrazione del centenario del nostro Esarcato, della nostra Chiesa, voglio non tanto guardare a quello che siamo stati -e siamo stati una parte importante nella storia della Grecia in questi duecento anni dalla sua indipendenza, ed anche siamo stati un piccolo granello di sabbia nella storia della Chiesa Cattolica-, ma voglio, vogliamo guardare al futuro, al nuovo centenario che si apre davanti a noi.

Ricordo che il giorno della mia ordinazione episcopale alla basilica di San Paolo fuori le mura a Roma, il vescovo Dimitrio Salachas nella sua omelia disse con forza: “L’Esarcato esiste! Non è morto!” E ne sono ogni giorno più convinto che la nostra Chiesa, il nostro Esarcato è vivo, per grazia e dono e misericordia del Signore che la ama e vuole che pure noi la amiamo.

Siamo una chiesa che per tutto un secolo ha dato testimonianza del Vangelo di Cristo, ha dato testimonianza della fedele comunione con la Chiesa di Roma, comunione che ci fa cattolici, ci fa aperti al Signore ed ai fratelli cristiani di tutte le tradizioni, aperti a tutti gli uomini di buona volontà.

L’Esarcato come Chiesa che per cento anni e verso il futuro che si apre davanti a noi è stata ed è custode fedele ed amoroso della grande tradizione ecclesiale, teologica, liturgica bizantina. E questo è stato ed è un fatto importante: il rispetto e la cura della tradizione liturgica della nostra Chiesa, una tradizione liturgica che abbiamo con i fratelli ortodossi, che amiamo e curiamo con i fratelli ortodossi e che celebriamo con i fratelli ortodossi della Grecia ed ovunque la Divina Liturgia bizantina venga celebrata e vissuta.

L’Esarcato come Chiesa che per ben cento anni è stata ed è luogo di incontro e di comunione, e mai di scontro o di divisione, qualsiasi essa sia. Una Chiesa che ha rispettato e rispetta direi scrupolosamente il cammino di fede cristiana che ognuno vive e nella tradizione in cui ognuno la vive.

L’Esarcato ancora come Chiesa, come realtà multietnica e plurilinguistica. Certamente una realtà veramente cattolica, e questo è un fatto a cui mai potremo rinunciare: l’essere veramente cattolici, aperti ed accoglienti, mai escludenti di nessuno per ragioni di origine etnica, culturale, linguistica, ecclesiale. Mai escludere nell’accogliere e mai escludere nell’essere accolti. L’essere cattolico è la ragione fondamentale dell’esistenza dell’Esarcato.

L’Esarcato verso un nuovo centenario? Certamente, perché “L’Esarcato esiste! Non è morto!”, lo affermo, lo proclamo anche io con convinzione. E siamo vivi come Chiesa di Cristo, come Chiesa Cattolica orientale di tradizione bizantina, se viviamo quei accoglienza-dono di cui parlavo all’inizio.

“…fa scaturire le profezie, ordina i sacerdoti, ha insegnato la sapienza agli illetterati, ha reso teologi i pescatori, tiene saldo tutto l’armonico ordinamento della Chiesa”. Chiediamo al Signore con fede, con forza direi, che oggi ed ogni giorno della nostra vita cristiana, come Chiesa di Cristo, ci faccia il dono di rimanere pescatori ed allo stesso tempo uomini e donne capaci di parlare a Lui, di Lui e con Lui tutti i giorni della nostra vita.

+P. Emmanuel Nin

Esarca Apostolico

 


 

ΠΟΙΜΑΝΤΟΡΙΚΗ ΕΠΙΣΤΟΛΗ ΓΙΑ ΤΗΝ ΠΕΝΤΗΚΟΣΤΗ

12 ΚΑΙ 13 ΙΟΥΝΙΟΥ 2022

 

Πολυαγαπημένα μου αδέλφια,

Ο Εσπερινός της Πεντηκοστής μας δίνει δύο τροπάρια, τα οποία θα ήθελα να αποτελέσουν την κατευθυντήρια γραμμή για την ποιμαντορική μου επιστολή αυτού του έτους. Είναι δύο λατρευτικά κείμενα, τα οποία κατά κάποιο τρόπο αγιογραφούν σαν μία εικόνα την χριστιανική μας ζωή και την οντότητά μας ως Καθολική Εκκλησία βυζαντινής παράδοσης στην Ελλάδα.

     «Γλώσσες λλογενν, εκαινούργησας Χριστ τος σος Μαθητς, να δι’ ατν σε κηρύξωσι, τν θάνατον Λόγον κα Θεν, τν παρέχοντα τας ψυχας μν τ μέγα λεος.»

     «Πάντα χορηγε τ Πνεμα τ γιον· βρύει προφητείας, ερέας τελειο, γραμμάτους σοφίαν δίδαξεν, λιες θεολόγους νδειξεν, λον τν θεσμν τς Εκκλησίας. μοούσιε, κα μθρονε τ Πατρ κα τ Υἱῷ, Παράκλητε, δόξα σοι.»

     Τα τροπάρια αυτά μας οδηγούν σε διάφορες σπουδαίες και θεμελιώδεις όψεις της ζωής μας και της χριστιανικής μας ταυτότητας. Το πρώτο από αυτά ψάλλει: «Γλώσσες λλογενν, εκαινούργησας Χριστ τος σος Μαθητς, να δι’ ατν σε κηρύξωσι, τν θάνατον Λόγον κα Θεν,…» Το πρώτο τροπάριο μας λέει ότι ο Κύριος μας εγκαινιάζει, μας ανανεώνει, μας κάνει νέους ανθρώπους με τη γνώση «ξένων γλωσσών», αυτό σημαίνει ότι μας ανοίγει, μας κάνει νέους, ώστε να δεχθούμε τη διαφορά στη χριστιανική μας ζωή. Με την εικόνα των «ξένων γλωσσών», μας προετοιμάζει, ανοίγει την καρδιά μας στην απεριόριστη φιλοξενία. Όταν μιλούμε –καταλαβαίνουμε- υποδεχόμαστε τη γλώσσα ενός άλλου, αυτός γίνεται αδελφός μας.

Το δεύτερο τροπάριο υπογραμμίζει αυτό που ο Κύριος ενεργεί σ’ εμάς με το δώρο του Αγίου Πνεύματος, το δώρο εκείνο το οποίο: «…βρύει προφητείας, ερέας τελειο, γραμμάτους σοφίαν δίδαξεν, λιες θεολόγους νδειξεν, λον τν θεσμν τς Εκκλησίας.», επομένως είναι το δώρο που μας κάνει νέους ανθρώπους, σωσμένους και λυτρωμένους, το δώρο που μας ανανεώνει και μας κάνει ικανούς να κηρύξουμε τον Θεό, ο οποίος έγινε άνθρωπος. Είναι ένα δώρο του Αγίου Πνεύματος, το οποίο μας κάνει προφήτες, ιερείς, σοφούς με τη σοφία του Ευαγγελίου, μας κάνει θεολόγους, ικανούς να μιλούμε στον Θεό, και να μιλούμε για τον Θεό στους ανθρώπους. Ένα δώρο του Αγίου Πνεύματος το οποίο μας κάνει φύλακες (και αυτό είναι πολύ σπουδαίο για όλους μας) “…φύλακες για όλον τον αρμονικό θεσμό της Εκκλησίας”. Μας κάνει ανθρώπους εκκλησιαστικής κοινωνίας και ειρήνης, όπως σας υπογράμμισα και στην πασχαλινή μου επιστολή. Η εκκλησιαστική κοινωνία (είμαι γι’ αυτό βαθιά πεπεισμένος), είναι ένα δώρο του Αγίου Πνεύματος, το οποίο όμως ζητά από μας, θα έλεγα ότι απαιτεί από εμάς, να είμαστε πάντοτε φύλακες Του.

Από τα δύο τροπάρια ξεχωρίζουν δύο λέξεις, δύο όψεις τις οποίες θέλω να σας υπογραμμίσω: υποδοχή και δώρο.

Υποδοχή. Πρώτα πρώτα υποδοχή του Κυρίου στην ζωή μας και επίσης στο Ευαγγέλιό του. Να υποδεχθούμε τον Κύριο, ο οποίος μας οδηγεί και ο οποίος βαδίζει δίπλα μας και μαζί μας, όπως σας έλεγα επίσης στην Πασχαλινή μου επιστολή. Να υποδεχόμαστε και να ζούμε το Ευαγγέλιό Του, Λόγο ζωής και Λόγο ζωντανό, Ευαγγέλιο, Χαρμόσυνο Άγγελμα αγάπης, συγνώμης, συμφιλίωσης και ειρήνης. Και αυτό για μας γίνεται όχι μόνο θεμελιακό, αλλά θα έλεγα και ζωτικό, κατά την ταραγμένη στιγμή της ιστορίας την οποία ζούμε.

Δώρο. Το δώρο της προφητείας, της ιεροσύνης, της σοφίας, της εκκλησιαστικής κοινωνίας. Προφητείας στο άγγελμα του Ευαγγελίου, μέσα σε κάθε κατάσταση στην οποία ζούμε. Ιεροσύνη στην υπηρεσία του Κυρίου και των αδελφών μας μέσα στην Εκκλησία. Σοφίας στην διδασκαλία στην οποία καλούμαστε ως Επίσκοπος, ως Ιερείς. Εκκλησιαστική κοινωνία όταν δημιουργούμε και όταν ζούμε ως Εκκλησία και μέσα στην Εκκλησία, ενότητα και αδελφοσύνη που γεννιούνται και αναβλύζουν από το Ευαγγέλιο.

 

Εκατονταετηρίδα της Αποστολικής Εξαρχίας 1922-2022.

Αυτό το έτος 2022 για την Εξαρχία μας είναι πολύ σπουδαίο, έστω και αν είναι δυστυχώς ακόμα σημαδεμένο από τα όρια και τους πόνους της πανδημίας. Πραγματικά, μέσα στο 1922, ο Αποστολικός Έξαρχος Γεώργιος Χαλαβαζής, ονομασμένος Έξαρχος από τον Πάπα Βενέδικτο 15ο κατά το 1920, εγκαταστάθηκε στην Αθήνα. Και τώρα, μέσα στο έτος 2022 συμπληρώνονται εκατό χρόνια παρουσίας της Εξαρχίας στην Ελλάδα με τον επίσκοπο, με ιερείς, με τους πιστούς. Τα περισσότερο από δύο χρόνια της πανδημίας, με τα όρια που μας επέβαλαν, με έκαναν να αναβάλω ένα ενδεχόμενο, θα έλεγα «επίσημο» εορτασμό της επετείου, ίσως προς τα τέλη του 2022, ή κατά το 2023. Αλλά ή ποιμαντορική μου επιστολή αυτής της Πεντηκοστής, ξεκινώντας από τα δύο τροπάρια τα οποία προαναφέραμε, θέλει να στοχαστεί πάνω στην Εκκλησία μας, πάνω στην Αποστολική Εξαρχία βυζαντινής παράδοσης στην Ελλάδα. Ο στοχασμός αυτός μπορεί να ξεκινήσει κατά τον εορτασμό της εορτής της Πεντηκοστής, την Κυριακή και την Δευτέρα, 12 και 13 Ιουνίου, και με τις Θείες Λειτουργίες των ημερών αυτών να ξεκινήσουν οι εορτασμοί της πρώτης εκατονταετηρίδας, οι οποίοι θα ολοκληρωθούν κατά το 2023. Σε κάθε περίπτωση, ένα ξεκίνημα, ταυτόχρονα συμβολικό και πραγματικό, αυτής της εκατονταετηρίδας θα είναι ο αγιασμός της νέας έδρας του βιβλιοπωλείου ΚΑΛΟΣ ΤΥΠΟΣ, το οποίο είναι μοναδικό βιβλιοπωλείο και εκδοτικός οίκος της Καθολικής Εκκλησίας στην Ελλάδα, του οποίου η έδρα από μερικούς μήνες βρίσκεται ήδη στην ίδια έδρα της Εξαρχίας, στην οδό Αχαρνών 246. Αυτόν τον αγιασμό θα τον τελέσουμε την Δευτέρα της Πεντηκοστής, εορτή του Αγίου Πνεύματος, μετά την τέλεση της Θείας Λειτουργίας.

Από την άφιξή μου στην Ελλάδα ως Επίσκοπος Έξαρχος, κατά το 2016 αντιλήφθηκα μία πραγματικότητα που μπορεί να φανεί παράδοξη: από μία πλευρά είμαστε μία Εκκλησία μικρή και φτωχή, με δύο μόνο ενορίες, με περιορισμένο αριθμό ιερέων και μοναζουσών, με πολλές δυσκολίες, σε καθημερινό επίπεδο της καθημερινής ζωής… Aλλά από την άλλη πλευρά είμαστε μία Εκκλησία ζωντανή, η οποία πορεύεται με πίστη, τελεί τα Ιερά Μυστήρια, κηρύττει το Ευαγγέλιο του Κυρίου μας Ιησού Χριστού. Η Εκκλησία μας έχει ιερείς προερχόμενους από την Ελλάδα, από την Ιταλία, από τη Σλοβακία, από την Ουκρανία, από την Ουγγαρία, από το Ιράκ και ο Επίσκοπός σας προέρχεται από την Ισπανία. Το γεγονός αυτό αποτελεί πάντοτε ένα μεγάλο πλούτο, ποτέ έναν περιορισμό αλλά αληθινά ένα δώρο: «Γλώσσες λλογενν, εκαινούργησας Χριστ τος σος Μαθητς,..»

Μια Εκκλησιά με την κοινότητα μοναζουσών της ''Παμμακαρίστου Θεοτόκου'' στην Κηφισιά, που συνεχίζει τη λειτουργία της προσευχής, της γενναιοδωρίας, της βοήθειας και της αγάπης προς την Εξαρχία μας. Στη μνήμη των σπουδαίων έργων που έγιναν σε αυτά τα εκατό χρόνια ύπαρξης. Μια κοινότητα μοναζουσών που είναι παρούσα και ζωντανή στην Εξαρχία μας και που ελπίζουμε ότι ο Κύριος θα συνεχίσει να ευλογεί με νέες δυνάμεις μέσα της.

Μία Εκκλησία με πιστούς Έλληνες, Ουκρανούς, Ιρακινούς, Ρουμάνους που αγαπούν την Εκκλησία μας και αυτή η αγάπη τους, μαζί με την δύναμη και τη χάρη του δώρου του Αγίου Πνεύματος, αποτελούν τον ζωτικό πυρήνα της Εξαρχίας μας. Με πραγματικότητες πολύ σπουδαίες και ωραίες, που αποτελούν το στεφάνι αυτής της Εκκλησίας μας: το Ίδρυμα για το Παιδί «Η Παμμακάριστος», η Κάριτας «Θεία Πρόνοια», και επίσης ο μεγάλος πλούτος του εθνικού και γλωσσικού λαϊκού στοιχείου: είμαστε μία εκκλησία με λαϊκούς πιστούς Έλληνες, και Ουκρανούς και Ρουμάνους βυζαντινής παράδοσης, και πιστούς Ιρακινούς και Συρίους χαλδαϊκής παράδοσης: αυτές οι πραγματικότητες αποτελούν ένα αληθινό διαμάντι στην καρδιά της Εκκλησίας μας. Εδώ ξαναβρίσκουμε τις δύο λέξεις, τις οποίες υπογράμμισα στην αρχή: υποδοχή και δώρο.

Είμαστε μία Εκκλησία η οποία, πριν από εκατό χρόνια έζησε στην σάρκα της την μετανάστευση, τον πόλεμο, και η οποία σήμερα είναι ιδιαίτερα ευαίσθητη, και μάλιστα ανοιχτή για να υποδεχθεί όποιον υποφέρει και πάλι από την μετανάστευση, από τον διωγμό, από τον πόλεμο υποδεχόμενη με ανοιχτή αγκαλιά αδελφούς χριστιανούς από την Ουκρανία, από το Ιράκ, χώρες επίσης χριστιανικές και δοκιμαζόμενες από τον διωγμό, το μίσος και τον πόλεμο.

Τη στιγμή αυτή, κατά την οποία ατενίζουμε στον εορτασμό της εκατονταετηρίδας της Εξαρχίας μας, της Εκκλησίας μας, θέλω να ατενίζουμε όχι τόσο σ’αυτό που υπήρξαμε, ως ένα σημαντικό μέρος της ιστορίας της Ελλάδος, κατά τα διακόσια αυτά χρόνια της ανεξαρτησίας της, και ως ένας κόκκος άμμου στην ιστορία της Καθολικής Εκκλησίας. Θέλω και θέλουμε να ατενίζουμε προς το μέλλον, προς τη νέα εκατονταετία που ανοίγεται μπροστά μας.

Θυμούμαι ότι την ημέρα της επισκοπικής μου χειροτονίας, στην βασιλική του Αγίου Παύλου, έξω από τα τείχη της Ρώμης, ο Επίσκοπος Δημήτριος Σαλάχας στην ομιλία του είπε δυναμικά: «Η Εξαρχία ζει! Δεν πέθανε!» Και καθημερινά γίνομαι περισσότερο πεπεισμένος ότι η Εκκλησία μας, η Εξαρχία μας είναι ζωντανή, από χάρη και δωρεά και ευσπλαχνία του Κυρίου μας, ο οποίος την αγαπά, και θέλει να την αγαπούμε και εμείς.

Είμαστε μία Εκκλησία η οποία για ένα ολόκληρο αιώνα έδωσε μαρτυρία της πιστής κοινωνίας η οποία μας κάνει Καθολικούς, μας κάνει ανοιχτούς προς τον Κύριο και προς τους χριστιανούς αδελφούς μας όλων των παραδόσεων, ανοιχτούς προς όλους τους ανθρώπους καλής θέλησης.

Η Εξαρχία ως Εκκλησία, η οποία επί εκατό χρόνια στο παρελθόν, και προς το μέλλον που ανοίγεται μπροστά μας, υπήρξε και παραμένει πιστός και ολόθερμος φύλακας της μεγάλης θεολογικής και λατρευτικής βυζαντινής παράδοσης. Και αυτό ήταν και παραμένει ένα σπουδαίο γεγονός: ο σεβασμός προς την λατρευτική παράδοση της Εκκλησίας μας, μία λατρευτική παράδοση την οποία έχουμε με τους αδελφούς Ορθοδόξους, τους οποίους αγαπούμε και με τους οποίους τελούμε την βυζαντινή Θεία Λατρεία σε όλα τα πλάτη της γης.

Η Εξαρχία ως Εκκλησία η οποία επί εκατό χρόνια υπήρξε και παραμένει τόπος συνάντησης και εκκλησιαστικής κοινωνίας, και ποτέ τόπος σύγκρουσης και διαίρεσης οποιασδήποτε μορφής. Μία Εκκλησία η οποία σεβάστηκε και σέβεται θα έλεγα ευλαβικά την πορεία της χριστιανικής πίστης, όπως ο καθένας την ζει και σύμφωνα με την παράδοση που ο καθένας την ζει.

Η Εξαρχία είναι λοιπόν μία Εκκλησία, μία πολυεθνική πραγματικότητα; Ή ίσως μία πολυγλωσσική πραγματικότητα; Ασφαλώς είναι μία πραγματικότητα πραγματικά καθολική, και το γεγονός αυτό δεν μπορούσαμε ποτέ να το αρνηθούμε: να είμαστε αληθινά Καθολικοί, ανοιχτοί και καταδεκτικοί, ποτέ αποκλειστικοί προς κανένα, για λόγους εθνικούς, πολιτισμικούς, γλωσσικούς, εκκλησιολογικούς. Ποτέ δεν αποκλείουμε να υποδεχθούμε και ποτέ δεν αποκλείουμε να γίνουμε δεκτοί. Η καθολική μας ταυτότητα είναι ο θεμελιακός λόγος για την ύπαρξή μας μέσα στην Εξαρχία.

Η Εξαρχία πορεύεται προς μία νέα εκατονταετία; Ασφαλώς και πορεύεται, διότι «Η Εξαρχία ζει! Δεν πέθανε!» το δηλώνω και εγώ, και το διακηρύττω με πεποίθηση. Και είμαστε ζωντανοί ως Εκκλησία του Χριστού, ως Εκκλησία Καθολική, ανατολική βυζαντινής παράδοσης, εάν ζούμε την υποδοχή και το δώρο για τα οποία σας μίλησα στην αρχή.

«…βρύει προφητείας, ερέας τελειο, γραμμάτους σοφίαν δίδαξεν, λιες θεολόγους νδειξεν, λον τν θεσμν τς Εκκλησίας.»

Ας ζητήσουμε από τον Κύριο με πίστη, θα έλεγα και με δύναμη, ώστε σήμερα και κάθε μέρα της χριστιανικής μας ζωής, ως Εκκλησία του Χριστού, να λάβουμε το δώρο να παραμείνουμε «αλιείες», και ταυτόχρονα να παραμείνουμε άντρες και γυναίκες ικανοί να μιλούμε προς Αυτόν, να μιλούμε για Αυτόν, να μιλούμε με Αυτόν όλες τις ημέρες της ζωής μας.

 + π. Εμμανουήλ Νιν

Αποστολικός Έξαρχος