venerdì 12 settembre 2014

Romano il Melodo per l’Esaltazione della Santa Croce
L’albero dell’Eden è trapiantato nel Golgota
          Romano il Melodo (+555) ha due inni liturgici dedicati alla Croce. Il secondo, per la festa dell’Esaltazione della Croce, è formato da 24 strofe, divise tematicamente in due parti: dalla 1 alla 13 in cui Romano dà voce al buon ladrone, crocefisso con Cristo sul Golgota; quindi dalla 14 alla 24 dove l’innografo mette in bocca del diavolo l’amarezza di fronte alla redenzione che Cristo porta nel mondo.
          Romano già dalla strofa 1 introduce quello che sarà il filo conduttore di tutto il poema: la centralità della croce come unico albero, presente nell’Eden e presente sul Golgota, ignorato da Adamo, riconosciuto e confessato dal ladrone: “Il legno tre volte beato, dono di vita, fu piantato dall’Altissimo nel mezzo del paradiso… affinché Adamo potesse ottenere la vita eterna e immortale. Ma lui non riconobbe la vita, la smarrì e scoprì la morte. Il ladrone invece che vide come questo albero dell’Eden era trapiantato sul Golgota, riconobbe in esso la vita…”. Romano sottolinea come la croce diventa l’altalena da dove il ladrone vede già l’Eden: “Quando (il ladrone) fu innalzato sul legno… gli occhi del suo cuore si aprirono ed egli contemplò le gioie dell’Eden… appeso alla croce scorgeva la vita sul legno… ma provava afflizione per Adamo sofferente”. L’innografo, in altre due strofe mette in bocca di Cristo stesso il tema paolino del primo e del secondo Adamo: “Cristo gli disse (al ladrone): «Non compiangere Adamo tuo progenitore, perché io sono il secondo e vero Adamo e per mia volontà sono venuto a salvare l’Adamo che mi appartiene»”. E prosegue col tema della redenzione del genere umano adoperata da Cristo stesso, per mezzo della sua incarnazione e la sua croce: “Nel mio amore per il genere umano sono sceso per lui dall’alto dei cieli… e sono diventato maledizione perché da essa voglio liberare Adamo. Per un legno la trasgressione penetrò nel tuo progenitore… ma entrerà di nuovo nel paradiso per il legno della vita”. La croce quindi diventa la chiave che apre di nuovo il paradiso ad Adamo e alla sua discendenza, tema comune alla letteratura cristiana orientale sia siriaca che bizantina: “Quando i primo creato fu scacciato dal paradiso, i cherubini ne sbarrarono la strada, ma tu prendi la mia croce sulle spalle e va in fretta all’Eden”.
          Dalla strofa 6 alla 10 Romano mette in bocca del ladrone camminante verso il paradiso, il cantico nuovo dei redenti, un vero e proprio salmo inneggiante la croce di Cristo: “…il ladrone prese sulle spalle l’emblema della grazia, come aveva detto colui che è in tutto misericordioso, e si mise in cammino benedicendo il dono della croce, cantando un cantico nuovo: «Tu sei l’innesto per le anime sterili, tu sei l’aratro… tu sei la buona radice della vita risuscitata, sei la verga del castigo…». Il ladrone inoltre si serve di bellissime immagini per parlare della croce: “Tu sei il bastone che accompagna verso la vita i peccatori che sperano in te… tu sei il vaglio che sull’aia separa la paglia dal raccolto. Tu sei il timone divino della barca della Chiesa di Cristo per dirigere i giusti ed i credenti verso il paradiso”. All’arrivo in paradiso il cantico del ladrone introduce il tema paolino della partecipazione del cristiano alla croce e alle sofferenze di Cristo: “Vedo la terra santa dei padri, che apparteneva al mio progenitore… e se l’esterno è pieno di luce, grandi davvero saranno i tesori all’interno. Occhio non vide, né orecchio udì, né cuore conobbe quello che il Signore ha preparato per i suoi amici, crocifissi con lui…”. Quindi il paradiso, grazie alla croce, viene ridato al ladrone; i cherubini ne furono custodi per un tempo, ma dopo il Golgota Adamo ne ridiventa padrone: “E i cherubini dissero: «Vieni ladrone ritorna in possesso dei diritti di tuo padre… a noi il paradiso non fu dato come se fossimo padroni: esso venne assegnato da Dio al primo uomo… Tu, o ladrone, ci hai rivelato che Adamo è stato richiamato dall’esilio…».
          Nella seconda parte del poema, Romano mette in bocca del diavolo tutta l’amarezza della sua sconfitta. Con delle belle immagini fortemente contrastanti, l’innografo mette in parallelo i “due furti” che amareggiano il diavolo: “E il diavolo, vedendo il ladrone nell’Eden, esclamò piangendo: «Terribile è questo che mi è accaduto! Un ladrone giustificato che ha aperto il paradiso. E mentre io cerco di rubare Pietro, proprio a me, che sono ladro, è stato rubato il ladrone! Mentre mi prendo gioco del discepolo impazzito, del traditore di Cristo, sono stato preso in gioco dal ladro che per la sua fede è corso in paradiso». Il diavolo, cercando di rubare discepoli a Cristo, è derubato dal ladrone, suo strumento. E conclude ancora il rimpianto del diavolo con un riferimento sempre ai discepoli di Cristo: “Se avessi visto Giuda guadagnare il paradiso, non avrei sofferto troppo a causa sua, perché non era mio discepolo ma di Cristo. Il ladrone invece era mio fedele discepolo, eppure mi ha abbandonato per correre da Gesù, mi ha odiato e, quel che è peggio, a causa del legno è diventato anche custode del paradiso”.
          Romano conclude nella strofa 24 con una preghiera a Cristo: “Sei diventato figlio di Maia, o Figlio di Dio e Salvatore nostro; alla croce sei stato inchiodato, tu che sei Dio incarnato, per salvare ed avere pietà dei peccatori… Insieme al ladrone gridiamo a te, come fossimo sulla croce: «Ricordati di noi nel tuo Regno»… noi che abbiamo ricevuto il sigillo della tua croce che ci fa una sola cosa in paradiso”.



lunedì 8 settembre 2014

Inni di Giorgio Warda per la celebrazione della beata Vergine Maria.
Oggi nasce l’albero dal frutto meraviglioso…
          Giorgio Warda è uno dei principali innografi della tradizione ecclesiale e liturgica siro orientale, vissuto tra a fine del XII e l’inizio del XIII secolo ad Arbela, nell’attuale Iraq. Il nome Warda (che significa rosa in siriaco) è un soprannome legato alla raccolta delle sue composizioni poetiche presenti nei libri liturgici siro orientali. Si tratta di poemi teologici molto spesso in forma di omelie metriche per le feste liturgiche del Signore, della Mare di Dio e dei Santi. Presentiamo per la festa della Natività della Madre di Dio due dei suoi inni dedicati a Maria. Queste righe vogliono essere anche una forma di preghiera e di vicinanza umana e cristiana a tanti cristiani della tradizione siro orientale e delle altre tradizioni cristiane sofferenti e martirizzati nel Prossimo oriente cristiano.
          I due inni a Maria che presentiamo si trovano, per intero oppure frammentari, nei libri liturgici siro orientali nelle feste di Maria. Giorgio Warda inizia questi due inni riconoscendo la propria indegnità per lodare sia Cristo sia sua Mare; Giorgio è consapevole che lodando Maria loda Colui che da Lei è nato: “Eccomi sommerso dai flutti in fondo ad un mare di iniquità…ma come Pietro, o Gesù, io ti supplico… spalma sugli occhi della mia mente la salva pura della tua bocca vivificante… Chi racconterà i prodigi del Signore? Chi può narrare di questa castissima e pura, di questa santa e santificata, abitacolo, tempio e tabernacolo, torre, palazzo e trono del Dio sempre vivo?”.
          In primo luogo Giorgio passa in rassegna i nomi dati a Maria nei testi veterotestamentari; e propone una lettura della Scrittura in chiave cristologica o soteriologica. È notevole tutto l’accostamento che Giorgio fa tra i primi capitoli della Genesi con Adamo ed Eva nel paradiso e l’inizio della redenzione in Maria: “Adamo è nato dalla terra e alla terra è ritornato; da Maria nacque il Signore di Adamo e divenne per amore figlio di Adamo… La potrei paragonare al giardino dei quattro fiumi? Ma da Maria è zampillata una fonte che quattro bocche hanno sparso, la quale inebriò tutta la terra… Lei è l’albero stupendo che produsse il frutto meraviglioso… Lei è l’arca fatta di carne in cui riposò il vero Noè… Lei è la roccia senza fessura… Lei è il roveto che era arso dal fuoco, dove abitò per nove mesi il fuoco incandescente…”.
          I testi dei profeti, specialmente Isaia e Ezechiele offrono all'autore delle immagini che lui, seguendo tutta la tradizione esegetica dei Padri, applica a Maria: “Lei è la vergine che Isaia predisse come Madre del Signore, il Figlio dell’Altissimo…Lei è la radice di Iesse… Lei è quella porta del Signore, attraverso la quale nessun mortale entrò e per la quale entra ed esce solo il Signore…”. Giorgio procede poi facendo un ritratto quasi fisico di Maria, lodandone i diversi sensi e collegandoli al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio: “O seno che nessun uomo conobbe… diventato tempio per il Figlio… I suoi occhi quanto semplici perché guardavano il Sole degli angeli… Orecchie beate che udirono le parole dell’arcangelo… O labbra dolcissime che baciarono la carne del Verbo… O sacro petto dove il Figlio dell’Altissimo attingeva il cibo… O mani e ginocchia fatte di carne invidiate dai serafini e dai carri dei cherubini…”. E riprendendo l’immagine di Mt 13,45 del mercante di perle preziose, conclude Giorgio il suo primo inno: “O commerciante poverissima, e povera ricchissima, che hai comperato la Perla che ha arricchito tutta la creazione”.
          Nel secondo degli inni Giorgio riprende il parallelo tra i primi capitoli della Genesi e Maria, incentrandolo questa volta con la figura di Eva di cui Maria diventa la vera e propria plenitudine: “Il frutto che Eva non ha trovato, Maria l’ha portato e nutrito; per mezzo del frutto desiderato Maria trovò il frutto e lo donò a tutti. Eva non potò trovare il frutto che Maria trovò in se stessa… Eva non seppe fuggire il male ed attirò la maledizione… Maria fu esenta dalla colpa e meritò la liberazione per il mondo intero…”. E l’autore prosegue, proponendo un’esegesi assai originale, con la lista che quasi enumera senza commento di ventidue versetti salmici che lui applica a Maria. Ne diamo qua soltanto un campione, ma si tratta sicuramente quasi di un unicum nell'esegesi siro orientale di testi veterotestamentari: “A lei convengono i ventidue salmi cantati da Davide. Il primo canta la sua perfezione e la sua purezza; il terzo la sua persecuzione; il quarto la sua pace… il quarantaseiesimo la proclama abitacolo di colui che tutto santifica, ed il quarantottesimo tempio del Figlio dell’Altissimo… il novantunesimo parla della veglia degli angeli sul suo corpo… poi il lungo salmo centodiciottesimo che, descrivendo le vie di perfezione con la divisione alfabetica è tipo della scala della perfezione… tutti versetti che si applicano a Maria… Tutti questi salmi, benché trattino dei giusti, possono essere applicati a lei e cantando di lei e su di lei”.
          Ai nostri fratelli cristiani, siriaci orientali ed occidentali, copti, armeni, melchiti, maroniti, latini, martiri perseguitati per la loro fede, ma che fedeli a questa fede canteranno la Natività della Vergine Maria. A loro la nostra preghiera e la nostra vicinanza sempre.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco
Roma



lunedì 1 settembre 2014

Il canto liturgico nella tradizione bizantina greca
La voce che canta la Parola
Le celebrazioni liturgiche delle Chiese cristiane, siano esse di tradizione orientale che occidentale, hanno una componente musicale, strumentale o vocale, che le caratterizza in modo particolare. La musica liturgica in Oriente si è sviluppata soprattutto dal punto di vista vocale, cioè sono le voci dei cantori, e tante volte di tutto il popolo, che segnano lo svolgersi della liturgia stessa; sia nel canto dei testi biblici e liturgici, sia nelle risposte del popolo alle invocazioni e preghiere del sacerdote o del diacono.
Non vogliamo in questo momento presentare uno studio storico della musica e del canto liturgico nelle tradizioni cristiane orientali e in quella bizantina in modo particolare, bensì fare un accenno al canto, alla musica oggi nelle Chiese soprattutto di tradizione bizantina greca. Testimonianze del canto liturgico o se si vuol della liturgia cantata ne abbiamo già nei testi dei Padri dal IV secolo in poi; basti citare le composizioni innografiche di sant’Efrem il Siro (+373) con delle indicazioni –non notazioni bensì di una semplice frase- di carattere musicale per noi di carattere oggi indecifrabile; testi innografici assai lunghi che venivano cantati o dall’assemblea oppure da un cantore con un ritornello fatto dal popolo. Questo ruolo centrale della voce nel canto liturgico proviene da un punto di partenza o meglio di espansione costantinopolitana che non ne ha però l’originalità, che invece conviene cercare nella tradizione antiochena e in collegamento stretto con le tradizioni siriache orientali ed occidentali anche odierne. Fino al IX secolo non troviamo delle notazioni musicali, soprattutto dopo la crisi iconoclasta.
La liturgia bizantina greca, celebrata oggi in tanti paesi dal Mediterraneo, dal prossimo Oriente alla Calabria e la Sicilia italiane, ha delle tradizioni mellurgiche proprie, ma ha anche delle caratteristiche che le accomunano. Sono delle composizioni musicali di carattere monodico, cioè cantate a voce e senza strumenti musicali da una persona, o da diverse secondo i casi, ma senza la polifonia che si è sviluppata soprattutto nelle liturgie di tradizione bizantina slava. Non esistono appunto strumenti musicali; è la voce umana l’unico strumento nella lode di Dio e nella proclamazione della Parola. In qualche modo si può dire che la tradizione bizantina greca sfrutta la voce ed il canto come modo di esprimere la preghiera liturgica.
Quale è il ruolo del cantore e soprattutto della voce nella liturgia bizantina greca? In primo luogo, il canto dei testi liturgici lo troviamo strutturato a partire dall’oktoechos, cioè l’insieme di otto toni musicali diversi, collegati all’insieme di testi poetici previsti per un ciclo anch’esso di otto settimane, testi risalenti tra il V ed il IX secolo, opere di teologia poetica di autori anonimi o di grandi innografi come Romano il Melodo e Giovanni Damasceno per fare qualche nome. Questi otto toni musicali vengono applicati ai diversi testi liturgici bizantini lungo l’anno liturgico. Questi testi vengono cantati solitamente dal coro del monastero, della chiesa o del seminario che si tratti. In secondo luogo, il ruolo della voce singola per la recita dei salmi o dei versetti salmici; per la recita e la preghiera dei salmi interi –ed il Salterio ha un ruolo importante nella tradizione bizantina soprattutto nella prassi monastica-, questi vengono recitati da un lettore, lettura che spesso non è una semplice recita quasi “privata”, ma con un’intonazione vocale che permette non soltanto di seguire il testo, ma anche e soprattutto di pregare con il salmista. Per quanto riguarda i singoli versetti salmici, di solito intercalati alle composizioni poetiche sopra accennate, vengono eseguiti da un cantore al tono indicato dal periodo dell’anno liturgico in cui si celebra. In terzo luogo il canto del lettore, cioè la proclamazione cantata delle letture della Sacra Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, e soprattutto il Vangelo. In questo caso il canto sottolinea la dimensione di annuncio e di proclamazione che nella Divina Liturgia ha il Vangelo, come momento centrale nella liturgia dei catecumeni o della Parola. In tutte le liturgie cristiane, da Oriente ad Occidente il Vangelo viene cantato dal diacono, per annunciare attraverso la bellezza e la forza del canto e della melodia, che mai sacrifica anzi valuta così il senso del testo, la bellezza e la forza della Parola di Colui che la liturgia proclama come “il più bello tra i figli degli uomini” (salmo 44,7). In quarto luogo le voci o i toni melodiosi e del vescovo o del sacerdote celebrante nelle preghiere lungo la liturgia e soprattutto nell’anafora, cantata anch’essa a partire dagli otto toni accennati già prima, e del diacono nel canto delle diverse litanie lungo la liturgia. Infine, per ultimo, le melodie per i testi speciali o propri lungo l’anno liturgico, melodie che spesso sono entrate nell’anima del popolo fedele che le canta, diventando così veramente concelebrante della liturgia che si celebra, specialmente durante la liturgia della Settimana Santa. Uno di questi casi particolari è il canto degli Enkomia nel mattutino del Sabato Santo, la cui melodia è diventata patrimonio scolpito nel cuore dei credenti bizantini. Si tratta dell'elogio funebre di Gesù formato da 176 strofe divise in tre stanze o gruppi; composto tra il XII e il XIV sec. Il canto degli Enkomia viene fatto di fronte alla tomba di Cristo, messa nel bel mezzo della chiesa, e le strofe vengono cantane alternate a due cori e delle volte intrecciate coi versetti del salmo 118. La musica, il canto forte e veramente vissuto di queste strofe fanno del popolo fedele il vero celebrante, incarnando veramente i diversi personaggi del poema, assumendo il dolore, il pianto, la gioia.
Il ruolo del canto, della voce melodiosa nella tradizione bizantina, voce sia maschile che femminile, nei monasteri, nelle cattedrali, nelle chiesette di campagna, diventa fondamentale sì per la sua bellezza anche in se stessa, ma soprattutto per la forza dell’annunzio della Parola e per la celebrazione della lode al Dio che è Padre, che si è rivelato pienamente nel Figlio e ci santifica nello Spirito Santo.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco
Roma.