domenica 29 marzo 2015

Ecco lo Sposo arriva nel mezzo della notte
         La liturgia della Settimana Santa nella tradizione bizantina scandisce tutto il mistero della passione, morte e risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo; celebrazione che inizia già il sabato della risurrezione di Lazzaro e la domenica delle Palme con l’ingresso regale di Cristo a Gerusalemme. Da lunedì a mercoledì santi si celebra l’ufficiatura mattutina e quindi nelle ore serali la liturgia dei Doni Presantificati; tre giorni che contemplano la figura di Cristo sposo della Chiesa che le viene incontro nella sua croce, il vero talamo nuziale. Il Giovedì santo celebra la Divina Liturgia di San Basilio, dove si contemplano i misteri di Cristo che lava i piedi ai discepoli, che si dà come pane di vita, che è tradito e portato alla passione. Il Venerdì santo raduna la Chiesa attorno alla croce di Cristo, luogo di sofferenza, di sconfitta, ma anche di vittoria di Colui che in essa è appeso. Il Sabato santo invece raccoglie la comunità dei fedeli attorno alla tomba di Cristo, una tomba bella, adorna, vero luogo della celebrazione di questo sabato benedetto; nel mattutino, celebrato la sera di venerdì, si cantano gli Enkomia, il canto sì di lamento, ma soprattutto di speranza attorno al sepolcro di Colui che è la vita. Sempre nel giorno di sabato al mattino viene celebrata di novo la Divina Liturgia di San Basilio, con le letture veterotestamentarie che introducono i fedeli alla celebrazione di Colui che risorge per giudicare la terra. Sabato, a notte fonda, inizia l’ufficiatura del mattutino di Pasqua, con la proclamazione del vangelo della risurrezione, il canto delle bellissime odi di san Giovanni Damasceno e la Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo. Al vespro della domenica di Pasqua si proclama la pericope evangelica in diverse lingue, quelle dei fedeli presenti nella celebrazione.
         A Roma le celebrazioni nella tradizione bizantina avvengono in alcune chiese che seguono questa liturgia. Diamo le indicazioni di orario delle celebrazioni nel Pontificio Collegio Greco, il più antico tra i Collegi orientali di Roma, fondato da papa Gregorio XIII 13 gennaio 1576, e dal 1591 affidato ai padri della Compagnia di Gesù. Dal 1586 papa Sisto V riservò agli alunni del Collegio il privilegio di cantare l’epistola ed il vangelo in greco nelle messe papali solenni. Dal 1897 papa Leone XIII affidò ai monaci benedettini nella persona dell’Abate Primate di Sant’Anselmo, la responsabilità del Collegio Greco, in piena collaborazione con la Congregazione per le Chiese Orientali.
P. Manuel Nin




PONTIFICIO COLLEGIO GRECO – CHIESA DI SANT’ATANASIO
Settimana Santa e Pasqua 2015
Orario delle celebrazioni, chiesa di Sant’Atanasio a via del Babuino

Domenica delle Palme (29/04/2015)
19.00       (Sabato) vespro.
10.30       Benedizione delle Palme e Liturgia di San Giovanni Crisostomo.
18.30       Mattutino del Nymphios
Lunedì Santo (30/04/2015)
18.45       Liturgia dei Presantificati.
Martedì Santo (31/04/2015)
18.45               Liturgia dei Presantificati
Mercoledì Santo (1/05/2015)
18.45               Liturgia dei Presantificati
Giovedì Santo (2/05/2015)
10.30       Vespro e Liturgia di San Basilio.
18.00       Ufficio della Passione (Lettura dei 12 Vangeli)
Venerdì Santo (3/05/2015)
10.00               Ora Nona, Vespro e Deposizione dalla Croce.
18.00               Epitaphios thrinos, Enkomia e Processione.
Sabato Santo (4/05/2015)
10.00               Vespro e Liturgia di San Basilio.
23.00              Mesonyktikòn, Anastasis, Mattutino e Liturgia di San Giovanni Crisostomo.
Domenica di Pasqua (5/05/2015)
10.30               Liturgia di San Giovanni Crisostomo.

19.00               Vespro. Proclamazione del Vangelo in diverse lingue.

venerdì 27 marzo 2015

La domenica delle Palme nelle omelie cattedrali di Severo di Antiochia
Siede sull’asinello, riposa sui santi
Il corpus delle 125 Omelie Cattedrali di Severo di Antiochia, patriarca della sede sul fiume Oronte dal 513 al 518, ne contiene soltanto una per la domenica delle Palme, predicata il 31 marzo 513. Si tratta di un testo tipicamente severiano, dove il vescovo predica spiegando la celebrazione domenicale delle Palme, messa quasi senza soluzione di continuità col giorno precedente della risurrezione di Lazzaro e con i giorni santi della passione, morte e risurrezione di Cristo, il Verbo di Dio incarnato: “Quando il nostro Signore e Dio Gesù Cristo stava per essere consegnato volontariamente alla croce salvatrice… e farsi umile fino alla morte… Dopo essere sceso fino a Betania, risuscitò Lazzaro, che era stato messo nella tomba da quattro giorni, spaccando la forza della morte che lui stesso doveva uccidere completamente quando discese lui stesso nello sceol e liberare le anime ivi rinchiuse. Per questo disse: «Lazzaro, il nostro amico, dorme e vado a svegliarlo»”. Quasi che dall’inizio dell’omelia, Severo volesse riassumere tutto il cammino delle celebrazioni liturgiche, dal sabato di Lazzaro, passando per l’ingresso a Gerusalemme, fino alla croce e alla discesa di Cristo negli inferi. L’ingresso di Gesù nella città santa è per l’autore una manifestazione della sua divinità ed una prefigurazione della sua seconda venuta: “E Gesù, che sapeva quello che doveva capitare, cioè che i bambini e la folla gli andavano all’incontro, fece in modo che fosse un ingresso degno di Dio e allo stesso tempo simbolico, poiché diventava per noi prefigurazione della sua seconda venuta nella gloria… e così rivelava la sua divinità…”. E l’esegesi di Severo, in questo caso ed in altri passi del vangelo, mette fortemente in evidenza la manifestazione della vera divino umanità di Cristo.
Seguendo i diversi momenti della pericope evangelica dell’ingresso trionfale di Gesù, Severo fa una lettura cristologica ed ecclesiologica del puledro d’asina su cui Cristo siede entrando a Gerusalemme. L’asino, tipo delle nazioni pagane chiamate alla fede, riceve su di se i mantelli (le dottrine) degli apostoli e su di essi Cristo siede; quasi Severo volesse mettere in evidenza la predicazione di Cristo fondata sempre sulla parola degli apostoli: “I discepoli di Cristo slegarono facilmente l’asinello e lo portarono al loro Signore, dopo aver messo su di lui i loro mantelli… E vedendo Gesù che questo era stato fatto, lui che è veramente il Dio dei grandi misteri, si assise sopra… Infatti quando i credenti si sono rivestiti delle virtù apostoliche come se fossero dei vestiti, come l’asinello stesso, e così tra di loro sono sorti dei dottori e dei martiri…, allora la grazia di Gesù o piuttosto Gesù stesso si è assiso su di loro, ha abitato in essi ed ha riposato su di essi, come anche siede sui cherubini, lui che è Santo e riposa sui santi”.
Quindi il vescovo si trattiene a commentare il significato dei rami di ulivo tagliati dalla folla esultante, ed oltre ad indicare il fatto evidente della presenza di questi alberi nel monte che porta il loro nome, degli ulivi, Severo vi vede dei significati simbolici che commenta al suo uditorio: “Seduto (Cristo) sull’asinello, tipo dei popoli dei gentili che doveva credere in lui, una folla lo accompagnava… gettando al suo passaggio rami di ulivo e i loro vestiti, fatti che indicavano dei grandi misteri”. E, dopo un non breve excursus sul significato della parola «osanna» in ebraico e greco e sulla sua spiegazione cristologica cioè come acclamazione a Cristo vero Dio, Severo prosegue ancora: “La pianta dell’ulivo indica la riconciliazione che viene da Dio, e la sua carità verso di noi che elargisce non a causa della nostra giustizia bensì a causa della sua misericordia. Allo stesso modo una colomba con un ramo di ulivo nel becco indicò la fine del diluvio nei giorni di Noè”.
Severo commenta ancora l’aggiunta del vangelo di Giovanni: «Quando udirono che Gesù arrivava a Gerusalemme, presero rami di palma e uscirono al suo incontro», e la vede come una particolarità giovannea piena di significati. Ed in un lungo paragrafo l’autore fa un commento simbolico dello stesso albero della palma, rigoglioso nella parte alta, slanciato verso l’alto, rude però nel tronco: “La palma ci fa vedere che veniva dal cielo Colui che era osannato. È un albero infatti la cui parte superiore ha dei rami abbondanti e bianchi, mentre nella sua parte media ed inferiore è rude ed spinoso… slanciandosi sempre in alto. Così anche colui che si avvia alla conoscenza di Cristo troverà un cammino rude e difficile, ma quando arriverà all’altezza, in quanto è possibile agli uomini, troverà la luce della teologia e la rivelazione di cose ineffabili, come i rami di palma che sono bianchi. Per questo ancora la sposa del Cantico dei Cantici, che è la Chiesa di coloro che hanno creduto in Cristo, dice: «Io ho detto: Salirò sulla palma, afferrerò i rami più alti »”. L’albero della palma quindi presentato come tipo del cammino del cristiano nella conoscenza di Cristo. Quindi l’autore si avvia alla conclusione dell’omelia commentando il brano del vangelo di Matteo dell’espulsione dei trafficanti del tempio; il luogo santo come casa di preghiera sottolineato dai testi veterotestamentari, assieme al gesto profetico di Cristo, mettono in evidenza l’unità dei due testamenti. E aggiunge ancora un commento alla citazione che le pericopi evangeliche fanno del salmo 8: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra! Con la bocca di bambini e di lattanti: hai posto una difesa contro i tuoi avversari»; la lode dei bambini all’ingresso di Cristo a Gerusalemme è una professione di fede in Colui che essendo grande ed eccelso si è umiliato e fatto piccolo.

Il paragrafo conclusivo dell’omelia, breve ed incisivo, ha un sapore chiaramente crisostomiano quasi di applicazione pratica di tutto il testo commentato: “E’ arrivato il momento di finire l’omelia, per non annoiarvi… Ma voi onorate il balbettio del parlare teologico dei bambini, non trascinandoli ai teatri o alle corse di cavalli, ma portandogli in chiesa e dicendo a Cristo, che è Dio e creatore di tutto: Anche dalla bocca dei nostri bambini ti offriamo la nostra lode”.


lunedì 23 marzo 2015

L’Annunciazione nell’innografia di Efrem il Siro
Oggi esultano la preghiera ed il Vangelo
La festa dell’Annunciazione della Santissima Madre di Dio e sempre vergine Maria, è una delle poche feste che troviamo lungo la Quaresima nelle tradizioni liturgiche orientali. Si tratta di una delle antiche feste cristiane, e ne abbiamo testimonianze nei testi patristici e liturgici orientali. Allo sviluppo di questa festa contribuirono le omelie patristiche di tendenza antiariana che cercavano di sottolineare, accanto all’umanità di Cristo, anche la sua divinità eternamente sussistente in Dio; ed anche l’omiletica di origine siriaca.
Efrem il Siro commenta la pericope dell’annunciazione dell’incarnazione del Verbo di Dio del vangelo di Luca sia nel Commento al Diatessaron, sia anche nella raccolta di inni sulla Natività del Signore. Di questa raccolta appunto vorrei soffermarmi nel secondo degli inni, un testo di ventitré strofe, dove il poeta siriaco canta il mistero dell’incarnazione del Signore e dell’annuncio fatto da Gabriele a Maria. Già nella prima strofa del poema, la parola di Efrem è una lode, unita a quella delle schiere celesti, per il mistero del Verbo che nell’incarnazione redime il genere umano: “Della schiera celeste inviata per la lode, del tempo illustre segnato per la redenzione… me ne rendo anch’io partecipe nell’amore e mi allieto. Voglio lodarlo con canti puri… rendere gloria a quel bimbo che ci ha redenti”. Le profezie veterotestamentarie Efrem le vede applicate a Cristo stesso che nella sua incarnazione si manifesta come re, sacerdote ed agnello; inoltre troviamo anche dei riferimenti molto evidenti di carattere sacramentale al battesimo, al perdono dei peccati e all’eucaristia.: “La cetra dei profeti che l’annunciarono… l’issopo dei sacerdoti che lo amarono… il diadema dei re… sono di quel Signore dei vergini, la cui madre è anch’essa vergine. Poiché è re, ha dato a tutti la regalità; poiché è sacerdote, ha dato a tutti il perdono; poiché è l’agnello, distribuisce a tutti il cibo”. E in questa strofa Efrem collega la forma maschile e femminile del termine siriaco “vergine” in riferimento e a Maria, e a quei uomini e donne che nella verginità erano consacrati al Signore.
Diverse volte lungo l’inno Efrem farà riferimento alla vera divinità e vera umanità di Cristo con l’immagine della paternità divina e la maternità umana: “Degna di memoria la madre che l’ha generato, degno di benedizioni il seno che l’ha portato, come pure Giuseppe, per grazia chiamato padre del Figlio vero –il cui Padre è glorificato…”. In due strofe Efrem mette la parola nelle labbra di Maria stessa per cantare nella prima il mistero dell’incarnazione del Verbo: “Mi ha fatto gioire perché io l’ho concepito; mi ha magnificato poiché io l’ho generato. Nel suo paradiso vivente io sto per entrare e dargli lode nel luogo dove Eva fallì… Di me si è compiaciuto, al punto da essergli madre, poiché l’ha voluto, e da essermi figlio, poiché gli è piaciuto”. E quindi, in un’altra strofa, Efrem pone sempre in bocca di Maria, la lode della madre che è anche la lode della Chiesa: “Con la bocca dei miei martiri io rendo grazie per aver accolto il bimbo, figlio dell’Invisibile uscito alla visibilità. Su una cima eccelsa mi sollevi con i miei santi, per rendere gloria… a colui che si chinò e si fece piccolo nella mangiatoia”.
Efrem presenta ancora il tema della buona novella, l’annuncio fatto dagli angeli agli uomini, e lo fa con l’immagine dell’unica sorgente che è Cristo stesso e delle dodici sorgenti che ad essa attingono e che sono gli apostoli annunciatori del vangelo: “Voci celesti ti hanno annunciato ai terrestri; orecchie celesti ti hanno bevuto nel buon annuncio. Sorgente nuova che i celesti hanno aperto per i terrestri assetati di vita… Oh fonte non gustata da Adamo! Dodici sorgenti parlanti essa ha aperto, che hanno riempito di vita il mondo”. Efrem accosta le immagini di Cristo nuovo Adamo nato dalla vergine ad il primo Adamo fatto dalla terra vergine; e ritorna al tema della doppia consustanzialità del Verbo di Dio incarnato: “Tu, mio Signore, spiegami come e perché ti sia piaciuto levarti per noi da un grembo vergine. È stato forse come il tipo del puro Adamo, che da una terra vergine, non ancora lavorata, fu formato?... Egli (Cristo) fu così figlio per Giuseppe senza seme, come fu figlio per sua madre, senza uomo”.

Nella seconda parte dell’inno Efrem introduce già il tema dell’annunciazione, e si sofferma nell’atteggiamento di preghiera con cui Maria accoglie l’annuncio di Gabriele, e mette in risalto il legame tra la preghiera e la gioia dell’accoglienza della buona novella: “Cosa faceva, colei che era casta, nel momento in cui Gabriele, il messaggero, volando discese presso di lei? Lo vide nel momento della preghiera, perché anche Daniele aveva visto Gabriele durante la preghiera. Preghiera e buona novella, sua parente, è giusto che esultino vicendevolmente, come Maria ed Elisabetta sua parente”. Ed Efrem presenta una serie di esempi biblici di questo rapporto tra preghiera ed annuncio di salvezza: la fine del diluvio, la preghiera di Abramo, la preghiera del centurione. Quindi anche quella che è la più grande delle notizie –ed Efrem la chiamerà “la notizia delle notizie”-, trova Maria orante: “Tutte le buone notizie giungono al porto della preghiera. La notizia delle notizie, causa di tutte le gioie, trovò Maria in preghiera”. E quasi per pudore dell’incontro di Gabriele con Maria, presenta l’arcangelo come un vegliardo il cui aspetto non doveva turbare Maria: “Gabriele, come un vecchio nobile e grave entrò e la salutò, affinché lei non tremasse, affinché la giovane modesta, alla vista di un volto giovane, non si rabbuiasse”. Infine Efrem, con delle immagini molto belle, presenta i tre personaggi a cui Gabriele viene mandato: Daniele, Elisabetta e Maria: “A due casti vegliardi e alla vergine, solo ad essi fu mandato Gabriele con le buone notizie… Uno generò la rivelazione della parola di Dio, l’altra la voce del deserto e la vergine il Verbo dell’Altissimo”. L’inno si conclude con la ripresa del tema della kenosi del Verbo di Dio nella sua incarnazione: Colui che riempie l’universo si fa piccolo fino a essere contenuto nel grembo di Maria: “…restrinse se stesso fino a riempire il piccolo grembo di Maria. Poi come un seme nel nostro giardino e un piccolo raggio per la nostra pupilla, sorse, si diffuse e riempì il mondo”.


martedì 3 marzo 2015

Senza il racconto dell'istituzione, diventati corpo e sangue del Signore.
Le notizie che ci arrivano in questi giorni dei fatti accaduti a nord della Siria, con le violenze ed il sequestro di tanti cristiani di tradizione siriaca, soprattutto assiri e caldei, e la distruzione totale delle loro chiese, le loro case, le loro vite, ci porta senz'altro a pregare per questi nostri fratelli cristiani, a piangere con loro perché di sofferenza fino alle lacrime si tratta, a confessare la fede con loro perché di martirio si tratta ancora. E dinunciando senza sosta questi fatti inqualificabili che capitano nel medio Oriente e in tante regioni della terra, e deplorando ancora una volta quell'indifferenza se non altro apparente ad Occidente; leggendo queste notizie appunto non possiamo non pensare ed evocare oggi una delle venerabilissime tradizioni cristiane di lingua siriaca, quella siro orientale, quei cristiani che nella loro preghiera dicono "Abba" al Padre celeste, e che nella loro speranza gridano "Maran atha" al Signore che aspettano che torni nella gloria. La Chiesa siro orientale, rimasta nella seconda metà del IV secolo, oserei dire suo malgrado, tagliata fuori dalla frontiera dell’impero e dalla comunione fraterna con le altre Chiese cristiane, e dalla prima metà del V secolo, dopo il concilio di Efeso nel 431, rimasta fedele alla sua arcaica professione di fede radicata in quella sede patriarcale di Antiochia, dove i cristiani ebbero il più grande degli onori, cioè essere chiamati col nome di Colui che fu appeso alla croce.
         Queste Chiese con una spinta missionaria esemplare arrivarono fino in India, Cina e Mongolia. In questi due ultimi paesi quei cristiani vi rimasero fiorenti fino al medioevo, arrivando nel XIII secolo ad eleggere patriarca e precisamente a Bagdad uno dei loro vescovi proveniente dalla Mongolia; una Chiesa che nei nostri giorni lì, in Cina ed in Mongolia non esiste più, e ci ha lasciate pochissime tracce, qualche raro reperto archeologico, quasi soltanto il ricordo di quei cristiani, conosciuti col nome del grande patriarca costantinopolitano malaugurato a Efeso, di cui loro presero per tanti secoli la denominazione appunto di “cristiani nestoriani”. In India, queste furono Chiese che arrivarono lì portate dalla fede e la predicazione di Tommaso apostolo, Chiese oggi viventi e forti nella loro confessione di fede, nel loro annuncio del Vangelo.
Queste Chiese, conosciute oggi coi nomi di Chiesa Assira e Chiesa Caldea, hanno usato ed usano fino ai nostri giorni il siriaco come lingua liturgica, e nella celebrazione dei Santi Misteri adoperano una delle anafore più arcaiche nella tradizione delle preghiere eucaristiche cristiane, quella conosciuta col nome di Addai e Mari, una anafora che fino ai nostri giorni non ha tramandato la narrazione dell’istituzione dell’eucaristia. Queste Chiese cristiane però, hanno celebrato e celebrano i Santi Misteri invocando il dono dello Spirito Santo per la santificazione di quel pane e quel vino che è stato ed è il Corpo ed il Sangue del Signore, fedeli alla loro tradizione teologica e liturgica, e a quel fermento santo che nella celebrazione liturgica viene mescolato alla farina, mescolato alle loro vite e che li riporta alla fede degli apostoli e a quel momento in cui il Signore diede ai discepoli il suo Corpo ed il suo Sangue affinché loro lo tramandassero alle sue Chiese sparse da Oriente a Occidente.
Cristiani assiri e caldei nel nord della Siria e in Iraq, oggi non hanno non già le parole del Signore all'ultima cena, ma neanche hanno più le loro chiese dove celebrare la fede, dove ascoltare la sua Parola, non hanno più le loro case dove abitare in quella terra che è la loro terra da quasi duemila anni. Chiese e monasteri che erano testimonianze di una architettura antichissima, arcaica, con una iconografia precedente la crisi iconoclasta che lacerò il mondo bizantino lungo l'ottavo e il nono secolo. Erano e sono testimonianze di un cristianesimo non dico differente ma sì fiero della sua diversità. Cristiani assiri a caldei che subirono delle persecuzioni già all'inizio del XX secolo assieme a cristiani armeni e siro antiocheni; assiri e caldei che cercarono rifugio in occidente e oltre l'oceano, oggi di nuovo sono assediati, rapiti, perseguitati, martiri che vivono come se portassero scritte nella propria pelle quelle parole del Salvatore ai suoi discepoli: “questo è il mio corpo… ed il mio sangue…”.
E ancora una volta, la voce del vescovo di Roma si è levata per far memoria di questi fratelli cristiani, voce spinta dalle notizie “drammatiche che giungono dalla Siria e dall’Iraq, relative a violenze, sequestri di persona e soprusi a danno di cristiani e di altri gruppi”. E papa Francesco vuol ancora una volta “assicurare a quanti sono coinvolti in queste situazioni che non li dimentichiamo, ma siamo loro vicini e preghiamo insistentemente perché al più presto si ponga fine all’intollerabile brutalità di cui sono vittime... e allo stesso tempo chiedo a tutti, secondo le loro possibilità, di adoperarsi per alleviare le sofferenze di quanti sono nella prova, spesso solo a causa della fede che professano. Preghiamo per questi fratelli e queste sorelle che soffrono per la fede in Siria e in Iraq”.
Oggi quel "prendete e mangiate... prendete e bevete... questo è il mio corpo... questo è il mio sangue..." del loro e nostro Signore, ce l'hanno, i cristiani assiri e caldei, non scritto nei libri ma nella loro vita, nella loro testimonianza martiriale.