Nella tradizione degli
inni sul Natale, attribuiti a Sant’Efrem il Siro
Benedetto il
coltivatore diventato chicco seminato…
La collezione dei ventotto inni di
sant’Efrem il Siro sulla Natività del Signore contiene dei testi di indubbia
autorità efremiana, soprattutto dal quinto al ventesimo, ed altri a lui
attribuiti dalla tradizione manoscritta. Uno di questi poemi teologici della
tradizione siriaca del IV secolo, è il terzo inno della collezione di Efrem, un
testo di 22 strofe di sei versetti ognuna. Si tratta di un inno in ci l’autore,
con delle forme dossologiche e di benedizione, canta il mistero dell’incarnazione
del Verbo e Figlio di Dio: “Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare
Betlemme. Benedetto il bimbo, che oggi ha ringiovanito l’umanità. Benedetto il
frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. Benedetto il buono che
in un istante ha arricchito la nostra povertà…”. Dalle prime strofe l’autore
riassume l’opera redentrice di Cristo portata a termine nel mistero della sua stessa
incarnazione: “Siano rese grazie alla fonte inviata per la nostra
propiziazione. Siano rese grazie a colui che congedò il sabato compiendolo.
Siano rese grazie a colui che sgridò la lebbra… anche la febbre lo vide e
fuggì… Gloria alla tua venuta che ha riportato alla vita gli uomini”. In due
delle prime strofe l’autore loda Dio Padre che per mezzo del Figlio diventa vicino,
manifesto, tangibile all’uomo: “Gloria a Colui che è venuto presso di noi
mediante il suo primogenito. Gloria a quel Silente che ha parlato mediante la
sua voce. Gloria a quello Spirituale compiaciutosi che divenisse corpo il
proprio figlio, affinché, mediante esso la sua potenza diventasse tangibile, e
grazie a quel corpo potessero vivere i corpi della sua stessa stirpe”. La grandezza,
l’invisibilità, il non poter essere toccato di Dio Padre, diventano realtà
umane nell’incarnazione e la nascita del Figlio: “Gloria all’Invisibile, il cui
figlio diventa visibile. Gloria al Vivente, il cui figlio morì. Gloria al
Grande il cui figlio scese e si rimpicciolì…”.
L’imperscrutabilità del mistero di
Dio, nell’incarnazione del Verbo diventa comprensibile e percepibile; l’autore
in qualche modo canta la nascita di Cristo come il suo lasciarsi circoscrivere,
toccare dall’uomo, fino ad arrivare alla crocifissione, momento della massima
umiliazione del Verbo fatto carne: “Gloria all’Invisibile… che non può essere
minimamente toccato… ma fu toccato, per sua grazia, in virtù della sua umanità.
La natura che mai fi toccata, fu legata e avvinta per le mani, trafitta e
crocifissa per i piedi. Volontariamente prese un corpo per coloro che lo
afferrarono”. E il teologo poeta continua la sua meditazione della crocefissione
e morte di Cristo: “Benedetto colui che la nostra libertà ha potuto crocifiggere
poiché egli l’ha concesso. Benedetto colui che anche il legno ha portato perché
egli gliel’ha permesso. Benedetto colui che anche il sepolcro ha potuto
rinchiudere perché egli si è circoscritto”.
L’autore sottolinea ancora come grazie
all’incarnazione di Cristo, l’umanità è redenta e fatta degna di Dio; nel testo
vengono usate delle immagini tipiche della cristologia di tradizione siriaca,
come le nozze, la tenda, la cetra per il canto: “Benedetto, lui che ha segnato
la nostra anima, l’ha adornata e l’ha sposata a sé. Benedetto, lui che ha fatto
del nostro corpo una tenda della sua invisibilità… Siano rese grazie a quella
voce, di cui è cantata la gloria sulla nostra cetra, e la potenza sulla nostra
arpa”. La redenzione di Cristo quindi diventa la conseguenza della sua
incarnazione: “Gloria al figlio del Giusto, crocifissi dagli empi. Gloria a
colui che ci ha slegati ed è stato legato al nostro posto… Gloria al bello che
ci ha modellati a sua somiglianza. Gloria al limpido che non ha guardato alle
nostre macchie.”.
Troviamo lungo il poema diversi
riferimenti all’eucaristia, dove il poeta adopera delle immagini molto belle
come quella del pastore, del tralcio, del grappolo, che gli servono per collegare
i Santi Doni al mistero dell’incarnazione: “Gloria al celeste il cui corpo è
divenuto pane per dar vita alla nostra mortalità… Benedetto il pastore divenuto
agnello per la nostra redenzione. Benedetto il tralcio divenuto coppa della
nostra salvezza. Benedetto il grappolo, fonte del farmaco della vita. Benedetto
il coltivatore, diventato il chicco seminato e il covone mietuto, l’architetto
fattosi per noi torre di rifugio”. Due volte ancora l’autore si serve
dell’immagine dell’innesto per cantare il farsi presente, l’incarnarsi di Dio
nella vita dell’uomo: “Adoriamo colui che ha tracciato nel nostri udito un
sentiero per le sue parole. Rendiamo grazie a colui che ha innestato il suo
frutto nel nostro albero… Il suo frutto si è unito alla nostra umanità, affinché
mediante esso fossimo attratti verso colui che si è piegato verso di noi”.
La grandezza di Dio, quindi, si
manifesta pienamente nella sua piccolezza, nel suo abbassarsi fino alla
condizione umana: “Gloria a colui che mai poté essere misurato da noi… Gloria a
colui che sa tutto e che si è sottomesso a domandare, per ascoltare, e
apprendere ciò che già sapeva, per rivelare, con le sue domande, il tesoro dei
suoi doni”. In una delle ultime strofe l’autore introduce l’immagine di Cristo
come medico e la sua nascita come farmaco di vita per gli uomini: “Benedetto il
medico sceso per un’incisione senza dolore… la sua nascita è il farmaco che ha
clemenza dei peccatori…”. L’inno si conclude con la confessione della
piccolezza dell’uomo nella lode di Dio: “Sia benedetto colui che la nostra
bocca non è all’altezza di rendergli grazie… neppure alla sua bontà. Mare di
gloria, che non manchi di nulla, accogli nella tua bontà una goccia di
rendimento di grazie, di cui, per tuo dono, è umettata la mia lingua per renderti
grazie”.
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