domenica 28 marzo 2021

“Benedetto vescovo, emerito di Roma”. A proposito della rinuncia di Benedetto XVI.

          Otto anni dopo le dimissioni di papa Benedetto XVI l’11 febbraio 2013, escono ancora oggi articoli e commenti su quel fatto che scombussolò e scosse se non altro la vita della Chiesa Cattolica, articoli e commenti con delle valutazioni ecclesiologiche e soprattutto canoniche molto diverse, valutazioni e opinioni che nella sua maggioranza ne sottolineano direi la validità, mentre altre puntano ancora sull’eventuale invalidità canonica di tale decisione. Tutte le opinioni concordano, comunque, sulla necessità di dare e stabilire alcuni parametri canonici in vista del futuro, per questa situazione nuova nella Chiesa. Qualcuno dirà forse che queste mie brevi pagine sono semplicemente un “bel esercizio mentale”. Forse… Vogliono essere comunque, senza pretese, una riflessione ecclesiale ed ecclesiologica.

          Premetto per prima cosa che non sono canonista; e poi per quello che mi risulta, non esiste una legislazione precisa sulla rinuncia di un papa, sul come debba o possa avvenire, e soprattutto sullo status e situazione di colui che, rinunciando al ministero episcopale a Roma, diventa “emerito”. Soltanto il canone 332.2 del CIC accenna alla rinuncia del papa, che deve essere fatta nella libertà e manifestata pubblicamente. In più siamo di fronte alla scelta del titolo da dare a questo “emerito”, titolo che ancora bisogna precisare bene: se “papa oppure vescovo di Roma emerito”, o altri titoli più imprecisi ancora nel momento attuale: “papa emerito ridiventato cardinale…”, proponeva qualcuno. La dicitura può essere varia e dovranno essere non soltanto i canonisti ma anche i teologi che -e questo credo che sia necessario farlo nell’immediato futuro per evitare altri equivoci-, dovranno appunto redigere delle norme canoniche su questa situazione diciamo “nuova”, ed anche sui titoli da dare ad essa, titoli che ne chiariscano il fatto e non creino ulteriore confusione.

          Sembra che papa Pio XII avesse contemplato una sua eventuale rinuncia in diversi momenti del suo pontificato, sia verso la fine della sua vita, quando anziano e malato non si sentiva con le forze necessarie a svolgere il suo ministero, sia specialmente durante la Seconda guerra mondiale e nel periodo in cui Roma era stata occupata dai soldati tedeschi e quindi incombeva il pericolo reale di un sequestro del papa da parte dell’esercito occupante. Non ho consultato gli archivi e non so se esista o no un vero e proprio “testamento” o delle disposizioni al riguardo da parte di papa Pacelli, ma dalla lettura di biografie e memorie di ecclesiastici che furono presenti a Roma in quel periodo storico, sembra che il papa avesse detto ai suoi più immediati collaboratori che, nel caso in cui le truppe tedesche sequestrassero il papa, queste si troverebbero di fronte, cioè avrebbero in mano, “non Pio XII ma il cardinale Pacelli”. Il papa contemplava forse il divenire quasi “automatico” della sua rinuncia e dello scadere del suo ministero apostolico come vescovo di Roma e papa, ed un “ritorno / ritrovarsi” ad essere soltanto cardinale di Santa Romana Chiesa, nel caso di un suo sequestro e quindi della perdita della sua libertà nell’esercitare il suo ministero come vescovo di Roma? Dalla sua frase sopra citata, sembrerebbe che lui contemplasse appunto questo suo ritorno nel collegio dei cardinali.

          Altre situazioni di possibili rinunce papali per malattia o incapacità fisica o mentale, pare siano state contemplate sia da Paolo VI che da Giovanni Paolo II. Sembra infatti che ambedue i papi, oggi santi, prospettassero la possibilità di una loro rinuncia, soprattutto nel caso di gravi malattie fisiche o mentali che ne impedissero la libertà e la lucidità mentale nell’esercizio nel loro ministero episcopale a Roma.

La domanda che ci poniamo è: con quale titolo e soprattutto con quale ruolo e situazione ecclesiale si dovrebbe trovare o presentare colui che diventa “vescovo emerito” nella sede romana? Pio XII sembra che prevedesse, come abbiamo visto e per quel poco che si sa, un “ritorno” automatico al cardinalato nel caso di una sua eventuale rinuncia o impedimento grave per poter svolgere il suo ministero. Non mi risulta poi quale “soluzione” avessero contemplato per questa eventualità sia Paolo VI sia Giovanni Paolo II.

Avvenuta poi la rinuncia di papa Benedetto XVI, è stato deciso in linea di massima di adoperare il titolo o la forma di “papa emerito / sommo pontefice emerito”, benché personalmente suggerirei la forma forse più precisa di “Benedetto vescovo emerito di Roma”. Nel “già pronto per la stampa” -mi si permetta questa espressione- “De funere Summi Pontificis emeriti”, cioè il rituale per le esequie del sommo pontefice emerito, vediamo che nel titolo si è preferita la forma “sommo pontefice emerito”, e nei testi liturgici all’interno di questa celebrazione si adopera -e qua per rigore scientifico dico che cito soltanto il ricordo che ho a partire dalle bozze alla cui redazione ho collaborato tempo fa, e non il testo definitivo che non ho visto-, si adoperano i titoli di “papa emerito” oppure “vescovo emerito”.

Quindi a livello di titolo, credo sia da preferire quello di “N. vescovo emerito di Roma”, oppure qualcuno suggeriva “N. vescovo emerito di Roma e papa” per sottolineare il ruolo di “papa” che per la stragrande maggioranza del popolo fedele ha il vescovo di Roma. Infatti, la dimensione di giurisdizione universale che ha ed esercita il papa, ce l’ha e l’esercita appunto in quanto è vescovo di Roma. I titoli che fino ai nostri giorni ha il vescovo di Roma -Vicario di Cristo, Sommo Pontefice, Papa-, sono titoli strettamente legati appunto al suo essere in primo luogo vescovo, e quindi vescovo di Roma in modo speciale. È evidente che il “papato”, il “sommo pontificato” fanno parte di questo suo essere vescovo, e vescovo di Roma. Comunque, non dimentichiamo che ogni vescovo è vicario di Cristo per la sua Chiesa -come lo è anche ogni abate nel suo monastero, come afferma San Benedetto nella sua Regola. Ogni vescovo poi è “pontifex” nella sua Chiesa, specialmente quando annuncia e predica il Vangelo, quando celebra i Santi Misteri (nella tradizione bizantina ogni vescovo viene chiamato Δεσπότης -signore, capo di casa- e Aρχιερέας -sommo sacerdote). Ogni vescovo infine è “papa / padre” nella sua Chiesa, nella paternità della guida sicura, dell’ascolto, dell’accoglienza, della misericordia e del perdono. La tradizione dava il titolo di “papa” anche al vescovo di Cartago, e lo dà ancora al patriarca di Alessandria in Egitto. Questi diversi “titoli”, dimensioni se si vuole dell’episcopato in tutte le Chiese cristiane, assumono una appropriazione ed un ruolo speciale nel vescovo di Roma in quanto la Chiesa Cattolica gli riconosce una missione ed una giurisdizione universale ed immediata appunto su tutta la Chiesa Cattolica, da Oriente ad Occidente.

          Tornando al tema iniziale di queste pagine: la rinuncia di Benedetto XVI è valida? Oppure è stata e rimane canonicamente invalida? Direi che nella mancanza odierna di una legislazione canonica precisa e definitiva su questo punto -oltre al canone del CIC sopra citato-, ci sono tre aspetti nella Declaratio del 13 febbraio 2013 fatta da papa Benedetto XVI che, secondo me, rendono valida a tutti gli effetti la sua rinuncia.

          In primo luogo, la rinuncia è avvenuta nella totale libertà, di coscienza e di fede. Cito il testo della Declaratio:Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio (conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata), sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino… Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma(plena libertate declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, renuntiare…)”. Decisione quindi presa nella libertà, presa davanti a Dio, presa per il bene della Chiesa.

          In secondo luogo, la rinuncia è avvenuta “in conspectu Ecclesiae Romanae”, cioè non in una udienza generale bensì di fronte al collegio cardinalizio che, per il vescovo di Roma ha o dovrebbe avere, non lo dimentichiamo mai, una dimensione quasi sinodale. Il testo della Declaratio è chiaro dall’inizio: “Carissimi Fratelli (Fratres carissimi), vi ho convocati (vos convocavi) a questo Concistoro… per comunicarvi (communicem) una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa…”. Notiamo l’importanza ecclesiale che il papa dà alla sua decisione: “Fratelli…, convocati…, comunicarvi…, per la vita della Chiesa…”.

          In terzo luogo, l’annuncio della rinuncia si conclude con una frase del papa, che dà alla sua decisione un valore direi chiaramente canonico, legale e definitivo -quasi fosse tacitamente quel “decernimus / stabiliamo… decretiamo” che si trova negli atti di canonizzazioni e in altri decreti papali: “Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, successore di San Pietro, (declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, renuntiare…), a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20.00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante (ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20, sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet) e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice”.

Ho evidenziato in grassetto quelle parole che, secondo me, danno e assicurano la validità canonica ed ecclesiale della decisione di papa Benedetto XVI, cioè che alle ore 20.00 del 28 febbraio 2013 “…la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante…”, fino all’elezione di colui che dovrà occuparla. La sede di Roma è stata quindi vacante dal 28 febbraio fino che è stato eletto il nuovo vescovo di Roma nella persona del cardinale Jorge Mario Bergoglio, che eletto ha assunto il nome di Francesco. Colui che occupava la sede romana fino alle ore 20.00 del 28 febbraio, è diventato emerito non nel suo essere vescovo, ma si nel suo esserlo nella sede di Roma. Quindi ci poniamo la domanda: gli altri titoli episcopali legati tradizionalmente e strettamente alla sede romana: Papa, Sommo Pontefice, Vicario di Cristo… rimangono associati alla sede vacante fino all’elezione del nuovo vescovo di Roma? Direi di sì, senza ombra di dubbio. Per tanto la frase: “…dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma…”, suppone la rinuncia anche al papato e al sommo pontificato nella sede di Roma e per tutta la Chiesa Cattolica.

          Dicevo all’inizio che queste mie brevi pagine possono sembrare semplicemente un “bel esercizio mentale”. Ed è anche vero. Le ritengo comunque se non altro, e senza pretese, una riflessione ecclesiale ed ecclesiologica. Per concludere torno sul titolo da dare a colui che diventa emerito nella sede romana. Proponevo come miglior titolo il: “Benedetto vescovo emerito di Roma”. Aggiungerei comunque una virgola dopo la parola vescovo, per salvaguardare anche nella forma il sacramento dell’episcopato in ogni persona che ne ha ricevuto l’ordinazione. Quindi concludo con la proposta del titolo: “Benedetto vescovo, emerito di Roma”.


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