martedì 9 marzo 2021

 


Addai e Mari, anafora “padrone di casa”.

Ancora sul viaggio del Papa in Iraq, 2.

In un mio precedente articolo scritto la vigilia del viaggio del Papa in Iraq, e pubblicato privatamente nel mio blog personale (http://manuelninguell.blogspot.com/) avevo cercato di sottolineare le attese e le speranze del pellegrinaggio di papa Francesco in quella terra “tra i due fiumi”. Una terra segnata dalla grande fertilità delle Chiese cristiane di quel luogo lungo i secoli, terra segnata dal sangue dei martiri dall’inizio della fede cristiana fino ai nostri giorni, terra segnata dalle preghiere ferventi dei monaci e dei fedeli cristiani.

Inoltre però nel mio testo avevo anche scritto il mio rammarico, sereno e costruttivo certamente, ma sempre rammarico sul fatto che la liturgia caldea che il Papa doveva celebrare uno di quei giorni, liturgia concelebrata dal patriarca caldeo Raffaele I Sakko e da altri cardinali e vescovi partecipanti al pellegrinaggio papale, non sarebbe stata la liturgia caldea siro orientale con la tradizionale anafora di Addai e Mari, bensì una liturgia senza un legame con quella tradizione che affonda le sue radici in quelle terre e tra quegli uomini e donne che pregano nella lingua cantata e pregata dai primi tempi cristiani, in quelle terre di martiri e di monaci, di poeti e di teologi. Dicevo nel mio testo precedente che “…sarebbe stata una occasione unica per usare un testo eucologico, Addai e Mari, adoperato fino ai nostri giorni da tante Chiese di tradizione siro-orientale dal Medio Oriente fino all’India. …e che sarebbe stato un segno forte, un messaggio chiaro dato a tutta la Chiesa Caldea e alle altre Chiese Orientali cattoliche e ortodosse, di amore, di rispetto e di comunione con la propria tradizione ecclesiale. Una liturgia che in questo modo avrebbe usato e celebrato un testo appunto venerabile ed antico, un testo che nell’invocazione dello Spirito Santo sui doni del pane e del vino e sui fedeli…, li mostra ed offre al mondo come vero Corpo e Sangue del Signore”.

Oggi, finito il pellegrinaggio del Papa nella Mesopotamia, tra quei due fiumi che hanno resa fertile quella terra, fertile e soprattutto feconda di testimoni, di martiri, di monaci e di laici, e che tuttora oggi sono la corona e la forza della fede dei cristiani di quelle terre. Oggi, finito il pellegrinaggio, da una parte ringrazio il Signore per quei quasi quattro giorni di speranza e di fede anche tra le rovine, tra i testimoni e la memoria dei martiri, giorni di incontri e di promesse, nel solco del Vangelo e della comunione annunciata dalla testimonianza del vescovo di Roma nel suo presiedere nella carità e nella multiformità le Chiese cristiane.

Ma dall’altra parte, riporto ancora il mio rammarico che vuole essere, insisto non critica amara ma critica costruttiva, che vuole aiutare, ed essere fonte di comunione e di crescita per le Chiese cristiane che peregrinano tra i due fiumi il Tigri e l’Eufrate, e nel mondo intero. Questo mio rammarico -se tale è o tale appare-, lo scrivo con serenità ma allo stesso tempo con schiettezza. Penso alla liturgia “caldea” celebrata dal Papa il giorno 6 marzo a Bagdad. Una liturgia “caldea” ma con una struttura e dei testi totalmente svincolati da qualsiasi tradizione legata alla Chiesa siro orientale. Una liturgia dove un “uniformismo” liturgico a livello non soltanto esterno ma direi anche ecclesiologico, ha fatto perdere quella diversità nell’unità, auspicata da tanti testi anche magisteriali.

Quella liturgia, se fosse stata celebrata secondo l’unica tradizione caldea e assira, sarebbe stata un segno, forte e importante di stima, di rispetto e di comunione con la propria tradizione di quella Chiesa cristiana orientale che è la Chiesa Caldea. Stima per quei testi eucologici che risalgono i primi secoli cristiani, per quella tradizione che ha fatto e fa di quei cristiani caldei ed assiri Chiesa di Cristo nella celebrazione dei Santi Misteri. Rispetto per quella millenaria tradizione che unisce i fratelli assiri ortodossi e i caldei cattolici nell’amore per quella che è la linfa e la vita della loro fede cristiana. E quindi comunione con quella radice vitale che affonda nella storia e attinge la forza e la vita in quei testi antichi e venerabili e soprattutto colmi di fede e di Parola di vita per i cristiani e le stesse Chiese del Signore.

Sono convinto che il pellegrinaggio del Papa in quelle terre cristiane sia stato un momento di benedizione e di grazia sia per i pellegrini sia per le terre e la gente che li ha accolti. La grazia è sempre elargita al pellegrino e alle persone che sono visitate. Direi che l’insieme del viaggio, nei diversi racconti, giustamente è pieno di: “è stato…”, sempre nel narrare e nell’edificare una buona memoria dei fatti. Ma per me è anche necessario ed onesto metterci un “sarebbe stato…”, che rammarico è ma non amarezza.

Sarebbe stato un momento unico per mostrare al mondo la bellezza di una liturgia orientale tra le più semplici, arcaiche e venerabili nella sua forma originale, celebrata in una lingua che il Signore stesso avrebbe sentito e sente oso dire, come propria, il siriaco. Sarebbe stato un momento di grazia per mostrare alle Chiese sorelle ortodosse l’amore ed il rispetto da avere e da custodire verso una Tradizione che unisce, che fa di coloro che la celebrano un solo Corpo e Sangue del Signore, una Tradizione che fa superare difficoltà ed incomprensioni secolari. Sarebbe stato un momento di rinascita e di comunione e mostrare così alla propria Chiesa Caldea e alle Chiese Orientali Cattoliche l’amore, il rispetto ed il legame con la tradizione, la storia, la vita che si tramanda attraverso i Padri, i Sacramenti, attraverso la carità e la comunione ecclesiale. Sarebbe stato un momento unico per mostrare un fatto unico e vero, cioè che Colui che presiede nella carità e nella comunione tutte le Chiese, le presiede anche nel preservare e soprattutto nel promuovere quella che è la vera Tradizione di ognuna delle Chiese cristiane orientali.

Infine, sarebbe stato un momento per ricordare e osservare, nel suo venticinquesimo anniversario, quella “Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali”, che voleva e vuole tuttora essere garante delle proprie tradizioni ecclesiali cristiane orientali cattoliche. Di quell’Istruzione ne sottolineo qualche punto che ritengo importante.

Nel paragrafo 11 si parla del progresso della Tradizione, ed il testo afferma, anche citando il decreto Orientalium Ecclesiarum del Concilio Vaticano II: “…si auspica che le Chiese Orientali Cattoliche assolvano la loro missione con vigore rinnovato. Ciò non esclude la novità… Ma mette in guardia da ogni indebita e inopportuna precipitazione, richiedendo che qualsiasi eventuale modifica sia non solo ben maturata, ma anche ispirata e conforme alle genuine tradizioni”. Nel paragrafo 18 leggiamo poi: “Il primo dovere di ogni rinnovamento liturgico orientale… è quello di riscoprire la piena fedeltà alle proprie tradizioni liturgiche, fruendo della loro ricchezza ed eliminando ciò che ne abbia alterato l’autenticità. Questa cura non è subordinata ma precede il cosiddetto aggiornamento…”. Infine, nel paragrafo 57 troviamo, in riferimento anche al cànone 701 del CCEO sulla concelebrazione tra ministri di diverse Chiese sui iuris: “Viene ribadita a riguardo la raccomandazione di evitare qualsiasi sincretismo liturgico, e di conservare le vesti liturgiche e le insegne della propria Chiesa sui iuris. Si tratta in modo molto eloquente di evidenziare la varietà delle tradizioni ecclesiali e il loro confluire nell’unità della Chiesa. È questo un simbolo significativo della futura unità nella pluriformità…”.

Sarebbe stato auspicabile che questi tre paragrafi dell’Istruzione della Congregazione per le Chiese Orientali del 1995 fossero stati osservati. E, quindi, osservandoli, si avrebbe dovuto celebrare la liturgia caldea usando i testi della propria tradizione siro orientale, approvati ed alcuni addirittura stampati dalla stessa Sede Apostolica, e magari alternando testi liturgici in siriaco con testi anche in arabo ed italiano. Celebrando poi la liturgia rivolti ad Oriente, secondo la prassi delle liturgie dell’Oriente cristiano, e soprattutto senza sostituire oppure introdurre varianti nei testi fondamentali, e con questo intendo specialmente l’anafora, che in quel contesto ecclesiale e geografico avrebbe dovuto essere quella di Addai e Mari che aveva di diritto il ruolo, mi si permetta l’espressione, di “padrone di casa”. E infine, osservando l’Istruzione sopra citata, specialmente nel riferimento alla concelebrazione liturgica, tutti i vescovi ed i sacerdoti concelebranti avrebbero dovuto indossare i paramenti della propria tradizione ecclesiale, della propria Chiesa di appartenenza, fatto che avrebbe messo in rilievo la ricchezza e la varietà della piena comunione cattolica oggi, e come profezia la ricchezza e la varietà della piena comunione un giorno di tutti i fedeli cristiani all’unico Corpo e Sangue del Signore. 

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