Addai e Mari, anafora “padrone di casa”.
Ancora sul viaggio del Papa in
Iraq, 2.
In un mio precedente articolo scritto la vigilia del
viaggio del Papa in Iraq, e pubblicato privatamente nel mio blog personale (http://manuelninguell.blogspot.com/)
avevo cercato di sottolineare le attese e le speranze del pellegrinaggio di
papa Francesco in quella terra “tra i due fiumi”. Una terra segnata dalla
grande fertilità delle Chiese cristiane di quel luogo lungo i secoli, terra segnata
dal sangue dei martiri dall’inizio della fede cristiana fino ai nostri giorni, terra
segnata dalle preghiere ferventi dei monaci e dei fedeli cristiani.
Inoltre però nel mio testo avevo anche scritto il
mio rammarico, sereno e costruttivo certamente, ma sempre rammarico sul fatto
che la liturgia caldea che il Papa doveva celebrare uno di quei giorni,
liturgia concelebrata dal patriarca caldeo Raffaele I Sakko e da altri
cardinali e vescovi partecipanti al pellegrinaggio papale, non sarebbe stata la
liturgia caldea siro orientale con la tradizionale anafora di Addai e Mari,
bensì una liturgia senza un legame con quella tradizione che affonda le sue
radici in quelle terre e tra quegli uomini e donne che pregano nella lingua
cantata e pregata dai primi tempi cristiani, in quelle terre di martiri e di
monaci, di poeti e di teologi. Dicevo nel mio testo precedente che “…sarebbe
stata una occasione unica per usare un testo eucologico, Addai e Mari,
adoperato fino ai nostri giorni da tante Chiese di tradizione siro-orientale
dal Medio Oriente fino all’India. …e che sarebbe stato un segno forte, un
messaggio chiaro dato a tutta la Chiesa Caldea e alle altre Chiese Orientali
cattoliche e ortodosse, di amore, di rispetto e di comunione con la propria
tradizione ecclesiale. Una liturgia che in questo modo avrebbe usato e
celebrato un testo appunto venerabile ed antico, un testo che nell’invocazione
dello Spirito Santo sui doni del pane e del vino e sui fedeli…, li mostra ed
offre al mondo come vero Corpo e Sangue del Signore”.
Oggi, finito il pellegrinaggio del Papa nella
Mesopotamia, tra quei due fiumi che hanno resa fertile quella terra, fertile e
soprattutto feconda di testimoni, di martiri, di monaci e di laici, e che
tuttora oggi sono la corona e la forza della fede dei cristiani di quelle
terre. Oggi, finito il pellegrinaggio, da una parte ringrazio il Signore per
quei quasi quattro giorni di speranza e di fede anche tra le rovine, tra i
testimoni e la memoria dei martiri, giorni di incontri e di promesse, nel solco
del Vangelo e della comunione annunciata dalla testimonianza del vescovo di
Roma nel suo presiedere nella carità e nella multiformità le Chiese cristiane.
Ma dall’altra parte, riporto ancora il mio rammarico
che vuole essere, insisto non critica amara ma critica costruttiva, che vuole aiutare,
ed essere fonte di comunione e di crescita per le Chiese cristiane che
peregrinano tra i due fiumi il Tigri e l’Eufrate, e nel mondo intero. Questo mio
rammarico -se tale è o tale appare-, lo scrivo con serenità ma allo stesso
tempo con schiettezza. Penso alla liturgia “caldea” celebrata dal Papa il
giorno 6 marzo a Bagdad. Una liturgia “caldea” ma con una struttura e dei testi
totalmente svincolati da qualsiasi tradizione legata alla Chiesa siro
orientale. Una liturgia dove un “uniformismo” liturgico a livello non soltanto
esterno ma direi anche ecclesiologico, ha fatto perdere quella diversità
nell’unità, auspicata da tanti testi anche magisteriali.
Quella liturgia, se fosse stata celebrata secondo
l’unica tradizione caldea e assira, sarebbe stata un segno, forte e importante
di stima, di rispetto e di comunione con la propria tradizione di quella Chiesa
cristiana orientale che è la Chiesa Caldea. Stima per quei testi
eucologici che risalgono i primi secoli cristiani, per quella tradizione che ha
fatto e fa di quei cristiani caldei ed assiri Chiesa di Cristo nella
celebrazione dei Santi Misteri. Rispetto per quella millenaria
tradizione che unisce i fratelli assiri ortodossi e i caldei cattolici
nell’amore per quella che è la linfa e la vita della loro fede cristiana. E
quindi comunione con quella radice vitale che affonda nella storia e
attinge la forza e la vita in quei testi antichi e venerabili e soprattutto
colmi di fede e di Parola di vita per i cristiani e le stesse Chiese del
Signore.
Sono convinto che il pellegrinaggio del Papa in
quelle terre cristiane sia stato un momento di benedizione e di grazia sia per
i pellegrini sia per le terre e la gente che li ha accolti. La grazia è sempre
elargita al pellegrino e alle persone che sono visitate. Direi che l’insieme
del viaggio, nei diversi racconti, giustamente è pieno di: “è stato…”, sempre
nel narrare e nell’edificare una buona memoria dei fatti. Ma per me è anche
necessario ed onesto metterci un “sarebbe stato…”, che rammarico è ma non
amarezza.
Sarebbe stato un momento unico per mostrare al
mondo la bellezza di una liturgia orientale tra le più semplici, arcaiche e
venerabili nella sua forma originale, celebrata in una lingua che il Signore
stesso avrebbe sentito e sente oso dire, come propria, il siriaco. Sarebbe
stato un momento di grazia per mostrare alle Chiese sorelle ortodosse l’amore
ed il rispetto da avere e da custodire verso una Tradizione che unisce, che fa
di coloro che la celebrano un solo Corpo e Sangue del Signore, una Tradizione
che fa superare difficoltà ed incomprensioni secolari. Sarebbe stato un momento
di rinascita e di comunione e mostrare così alla propria Chiesa Caldea e
alle Chiese Orientali Cattoliche l’amore, il rispetto ed il legame con la
tradizione, la storia, la vita che si tramanda attraverso i Padri, i
Sacramenti, attraverso la carità e la comunione ecclesiale. Sarebbe stato un
momento unico per mostrare un fatto unico e vero, cioè che Colui che
presiede nella carità e nella comunione tutte le Chiese, le presiede anche
nel preservare e soprattutto nel promuovere quella che è la vera Tradizione di
ognuna delle Chiese cristiane orientali.
Infine, sarebbe stato un momento per ricordare e
osservare, nel suo venticinquesimo anniversario, quella “Istruzione per
l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese
Orientali”, che voleva e vuole tuttora essere garante delle proprie
tradizioni ecclesiali cristiane orientali cattoliche. Di quell’Istruzione ne
sottolineo qualche punto che ritengo importante.
Nel paragrafo 11 si parla del progresso della
Tradizione, ed il testo afferma, anche citando il decreto Orientalium
Ecclesiarum del Concilio Vaticano II: “…si auspica che le Chiese
Orientali Cattoliche assolvano la loro missione con vigore rinnovato. Ciò non
esclude la novità… Ma mette in guardia da ogni indebita e inopportuna
precipitazione, richiedendo che qualsiasi eventuale modifica sia non solo ben
maturata, ma anche ispirata e conforme alle genuine tradizioni”. Nel
paragrafo 18 leggiamo poi: “Il primo dovere di ogni rinnovamento liturgico
orientale… è quello di riscoprire la piena fedeltà alle proprie tradizioni
liturgiche, fruendo della loro ricchezza ed eliminando ciò che ne abbia
alterato l’autenticità. Questa cura non è subordinata ma precede il cosiddetto
aggiornamento…”. Infine, nel paragrafo 57 troviamo, in riferimento anche al
cànone 701 del CCEO sulla concelebrazione tra ministri di diverse Chiese sui
iuris: “Viene ribadita a riguardo la raccomandazione di evitare
qualsiasi sincretismo liturgico, e di conservare le vesti liturgiche e le
insegne della propria Chiesa sui iuris. Si tratta in modo molto eloquente di
evidenziare la varietà delle tradizioni ecclesiali e il loro confluire nell’unità
della Chiesa. È questo un simbolo significativo della futura unità nella
pluriformità…”.
Sarebbe stato auspicabile che questi tre paragrafi
dell’Istruzione della Congregazione per le Chiese Orientali del 1995 fossero
stati osservati. E, quindi, osservandoli, si avrebbe dovuto celebrare la
liturgia caldea usando i testi della propria tradizione siro orientale, approvati
ed alcuni addirittura stampati dalla stessa Sede Apostolica, e magari alternando
testi liturgici in siriaco con testi anche in arabo ed italiano. Celebrando poi
la liturgia rivolti ad Oriente, secondo la prassi delle liturgie dell’Oriente
cristiano, e soprattutto senza sostituire oppure introdurre varianti nei testi
fondamentali, e con questo intendo specialmente l’anafora, che in quel contesto
ecclesiale e geografico avrebbe dovuto essere quella di Addai e Mari che aveva di
diritto il ruolo, mi si permetta l’espressione, di “padrone di casa”. E infine,
osservando l’Istruzione sopra citata, specialmente nel riferimento alla concelebrazione
liturgica, tutti i vescovi ed i sacerdoti concelebranti avrebbero dovuto indossare
i paramenti della propria tradizione ecclesiale, della propria Chiesa di
appartenenza, fatto che avrebbe messo in rilievo la ricchezza e la varietà
della piena comunione cattolica oggi, e come profezia la ricchezza e la varietà
della piena comunione un giorno di tutti i fedeli cristiani all’unico Corpo e
Sangue del Signore.
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