mercoledì 24 dicembre 2014

Quell’ecumenismo del sangue
A proposito della lettera ai cristiani del Medio Oriente, di papa Francesco
«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio…» (Is 40,1). Quasi a riecheggiare le parole del profeta e completarle con quelle dell’apostolo Paolo che chiama in causa il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo… Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione…» (2Cor 1,3), papa Francesco, alle porte del Natale 2014 indirizza una lettera ai cristiani che vivono nelle regioni del Medio Oriente. Cristiani che da anni, ma specialmente negli ultimi mesi vivono in una situazione di sofferenza, di esilio, di persecuzione, fino alla massima testimonianza, quella di versare il sangue per Cristo. Cristiani che versano il proprio sangue, la propria storia, la propria cultura cristiana in quelle terre del Medio Oriente, terre che sono le loro terre da quasi duemila anni. Papa Francesco, in modo lucido, coraggioso e allo stesso tempo paterno, si avvicina alla realtà sofferente di quelle terre e di quegli uomini e donne, che dovranno vivere ancora un Natale nella sofferenza e nella persecuzione, purtroppo tante volte ancora ignorata nell’indifferenza dall’Occidente. Francesco comunque annuncia il mistero della consolazione di Dio verso il suo popolo nella nascita del Figlio: “…ho pensato di scrivere a voi, fratelli cristiani del Medio Oriente. Lo faccio nell’imminenza del Santo Natale, sapendo che per molti di voi alle note dei canti natalizi si mescoleranno le lacrime e i sospiri. E tuttavia la nascita del Figlio di Dio nella nostra carne umana è ineffabile mistero di consolazione…”. E senza mezzi termini né imprecise allusioni, il papa fa riferimento al regime di terrore di portata mai immaginata prima, che si è istallato in quelle terre cristiane popolate lungo i secoli da tanti padri, monaci, cristiani che le avevano coltivate, curate ed amate fino all’estremo: “L’afflizione e la tribolazione non sono mancate purtroppo nel passato anche prossimo del Medio Oriente… …aggravate negli ultimi mesi a causa dei conflitti che tormentano la regione, ma soprattutto per l’operato di una più recente e preoccupante organizzazione terrorista, di dimensioni prima inimmaginabili, che commette ogni sorta di abusi e pratiche indegne dell’uomo, colpendo in modo particolare alcuni di voi che sono stati cacciati via in maniera brutale dalle proprie terre, dove i cristiani sono presenti fin dall’epoca apostolica”. Francesco fa riferimento di seguito alle realtà etniche e religiose non soltanto cristiane che vivono in quelle terre e che sono oggetto di persecuzioni e di atrocità umanamente senza paragone: “Nel rivolgermi a voi, non posso dimenticare anche altri gruppi religiosi ed etnici che pure subiscono la persecuzione e le conseguenze di tali conflitti. Seguo quotidianamente le notizie dell’enorme sofferenza di molte persone nel Medio Oriente”. E la voce del vescovo di Roma si alza per difendere quelli che sono i più deboli di fronte alla sofferenza: “Penso specialmente ai bambini, alle mamme, agli anziani, agli sfollati e ai rifugiati, a quanti patiscono la fame, a chi deve affrontare la durezza dell’inverno… Questa sofferenza grida verso Dio e fa appello all’impegno di tutti noi, nella preghiera e in ogni tipo di iniziativa”. Solidarietà di tutti verso quelle popolazioni con delle iniziative che portino a quei nostri fratelli la consolazione, il supporto, la libertà di agire, di vivere per quello che sono.
         Un paragrafo centrale della lettera diventa il nocciolo di tutto il messaggio, della parola veramente teologica del papa, cioè quasi la professione di fede di quello che è il fondamento della vita e della testimonianza cristiana: la fedeltà totale ed unica a Cristo, e fino al martirio. I cristiani in Oriente e dovunque, lungo la storia dal I al XX secolo, fino ai nostri giorni del XXI secolo, non hanno sofferto e non soffrono una persecuzione sanguinante a causa di eventuali rivoluzioni o di capovolgimenti sociopolitici, bensì a causa del nome e della persona di Gesù Cristo: “…fratelli e sorelle, che con coraggio rendete testimonianza a Gesù nella vostra terra benedetta dal Signore, la nostra consolazione e la nostra speranza è Cristo stesso. Vi incoraggio perciò a rimanere attaccati a Lui, come tralci alla vite, certi che né la tribolazione, né l’angoscia, né la persecuzione possono separarvi da Lui…”. La testimonianza dei martiri, è a Gesù Cristo che viene resa, lui è la loro e la nostra speranza; uniti fedelmente ed unicamente a Lui. Il martirio è anche esigenza per gli stessi cristiani di una vita cristiana più profonda, più fraterna e più autentica: “L’unità voluta dal nostro Signore è più che mai necessaria in questi momenti difficili; è un dono di Dio che interpella la nostra libertà e attende la nostra risposta. La Parola di Dio, i Sacramenti, la preghiera, la fraternità alimentino e rinnovino continuamente le vostre comunità”. E Francesco si ricorda dei fedeli delle diverse Chiese cristiane, vescovi, sacerdoti, uomini e donne, che hanno subito il martirio oppure sequestrati, messi a parte dalla memoria del mondo, quasi a farli cadere nell’oblio da tutto e da tutti: “Ricordo… pastori e i fedeli ai quali negli ultimi tempi è stato chiesto il sacrificio della vita, spesso per il solo fatto di essere cristiani. Penso anche alle persone sequestrate, tra cui alcuni Vescovi ortodossi e sacerdoti…”. Viene introdotto quindi il tema dell’ecumenismo del sangue, quasi che il dialogo fraterno tra le diverse Chiese cristiane venisse in qualche modo coagulato dal sangue dei martiri: “…la comunione vissuta tra di voi in fraternità e semplicità è segno del Regno di Dio”. E il papa si rallegra dalla collaborazione tra i pastori delle diverse Chiese Orientali cattoliche e ortodosse, ed anche tra i fedeli. “Le sofferenze patite dai cristiani portano un contributo inestimabile alla causa dell’unità. E’ l’ecumenismo del sangue, che richiede fiducioso abbandono all’azione dello Spirito Santo”.
         E Francesco introduce un altro aspetto della drammatica vicenda, uno forse tra i più difficili di affrontare: il vincere la tentazione di fuggire, di emigrare, cioè l’esortazione del papa a rimanere in quelle terre martoriate, devastate, ma che sono cristiane da due mila anni; rimanere lì, certo tra le rovine delle case, delle chiese, dei monasteri, ma fermi nella speranza. Una speranza ed un coraggio richiesti malgrado le pietre fumanti ovunque, le icone bruciate, le ceneri delle biblioteche e dei manoscritti che tramandavano il canto di lode e di speranza dei santi Padri.
         Francesco ancora esorta al dialogo con tutti, nell’esigenza di una chiara condanna di una violenza ingiustificabile: “La situazione drammatica che vivono i nostri fratelli cristiani in Iraq, ma anche gli yazidi e gli appartenenti ad altre comunità religiose ed etniche, esige una presa di posizione chiara e coraggiosa da parte di tutti i responsabili religiosi, per condannare in modo unanime e senza alcuna ambiguità tali crimini e denunciare la pratica di invocare la religione per giustificarli”. Nell’ultima parte della sua lettera, Francesco esorta i cristiani di quelle terre ad evitare la tentazione del disinteresse verso un impegno nella vita pubblica, e a vivere come cristiani nello spirito delle Beatitudini evangeliche: “Nella regione siete chiamati ad essere artefici di pace, di riconciliazione e di sviluppo, a promuovere il dialogo, a costruire ponti… a proclamare il vangelo della pace…”.
         Il papa infine si trattiene ad elencare tutti coloro che nella Chiesa si impegnano, senza fuggire, nel servizio della carità. E indirizzandosi ai giovani, gli esorta con le belle parole di Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica sul Medio Oriente: “Desidero esprimere in modo particolare la mia stima e la mia gratitudine a voi, carissimi fratelli Patriarchi, Vescovi, Sacerdoti… che accompagnate con sollecitudine il cammino delle vostre comunità… . Quant’è preziosa la presenza e l’attività di chi si è consacrato totalmente al Signore e lo serve nei fratelli, soprattutto i più bisognosi… Com’è importante la presenza dei Pastori accanto al loro gregge… A voi, giovani… vi ripeto: «Non abbiate paura o vergogna di essere cristiani. La relazione con Gesù vi renderà disponibili a collaborare senza riserve con i vostri concittadini, qualunque sia la loro appartenenza religiosa» (Benedetto XVI, Esort. ap. Ecclesia in Medio Oriente, 63).
         A conclusione della lettera, e come nei suoi interventi precedenti, Francesco si indirizza anche alla comunità internazionale con una parola coraggiosa e di denuncia: “…continuo a esortare la Comunità internazionale a venire incontro ai vostri bisogni e a quelli delle altre minoranze che soffrono; in primo luogo, promuovendo la pace mediante il negoziato e il lavoro diplomatico… Ribadisco la più ferma deprecazione dei traffici di armi. Abbiamo piuttosto bisogno di progetti e iniziative di pace, per promuovere una soluzione globale ai problemi della Regione. Per quanto tempo dovrà soffrire ancora il Medio Oriente per la mancanza di pace?...”.

         Nei giorni del Natale, tanti cristiani nel Medio Oriente, con la lingua dei loro Padri, canteranno con Efrem il Siro, e noi con loro nella solidarietà, nel non oblio e la non indifferenza verso il loro martirio: “Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare Betlemme. Benedetto il bimbo, che oggi ha ringiovanito l’umanità. Benedetto il frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. Benedetto il buono che in un istante ha arricchito la nostra povertà…”.

lunedì 22 dicembre 2014

Nella tradizione degli inni sul Natale, attribuiti a Sant’Efrem il Siro
Benedetto il coltivatore diventato chicco seminato…
          La collezione dei ventotto inni di sant’Efrem il Siro sulla Natività del Signore contiene dei testi di indubbia autorità efremiana, soprattutto dal quinto al ventesimo, ed altri a lui attribuiti dalla tradizione manoscritta. Uno di questi poemi teologici della tradizione siriaca del IV secolo, è il terzo inno della collezione di Efrem, un testo di 22 strofe di sei versetti ognuna. Si tratta di un inno in ci l’autore, con delle forme dossologiche e di benedizione, canta il mistero dell’incarnazione del Verbo e Figlio di Dio: “Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare Betlemme. Benedetto il bimbo, che oggi ha ringiovanito l’umanità. Benedetto il frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. Benedetto il buono che in un istante ha arricchito la nostra povertà…”. Dalle prime strofe l’autore riassume l’opera redentrice di Cristo portata a termine nel mistero della sua stessa incarnazione: “Siano rese grazie alla fonte inviata per la nostra propiziazione. Siano rese grazie a colui che congedò il sabato compiendolo. Siano rese grazie a colui che sgridò la lebbra… anche la febbre lo vide e fuggì… Gloria alla tua venuta che ha riportato alla vita gli uomini”. In due delle prime strofe l’autore loda Dio Padre che per mezzo del Figlio diventa vicino, manifesto, tangibile all’uomo: “Gloria a Colui che è venuto presso di noi mediante il suo primogenito. Gloria a quel Silente che ha parlato mediante la sua voce. Gloria a quello Spirituale compiaciutosi che divenisse corpo il proprio figlio, affinché, mediante esso la sua potenza diventasse tangibile, e grazie a quel corpo potessero vivere i corpi della sua stessa stirpe”. La grandezza, l’invisibilità, il non poter essere toccato di Dio Padre, diventano realtà umane nell’incarnazione e la nascita del Figlio: “Gloria all’Invisibile, il cui figlio diventa visibile. Gloria al Vivente, il cui figlio morì. Gloria al Grande il cui figlio scese e si rimpicciolì…”.
          L’imperscrutabilità del mistero di Dio, nell’incarnazione del Verbo diventa comprensibile e percepibile; l’autore in qualche modo canta la nascita di Cristo come il suo lasciarsi circoscrivere, toccare dall’uomo, fino ad arrivare alla crocifissione, momento della massima umiliazione del Verbo fatto carne: “Gloria all’Invisibile… che non può essere minimamente toccato… ma fu toccato, per sua grazia, in virtù della sua umanità. La natura che mai fi toccata, fu legata e avvinta per le mani, trafitta e crocifissa per i piedi. Volontariamente prese un corpo per coloro che lo afferrarono”. E il teologo poeta continua la sua meditazione della crocefissione e morte di Cristo: “Benedetto colui che la nostra libertà ha potuto crocifiggere poiché egli l’ha concesso. Benedetto colui che anche il legno ha portato perché egli gliel’ha permesso. Benedetto colui che anche il sepolcro ha potuto rinchiudere perché egli si è circoscritto”.
          L’autore sottolinea ancora come grazie all’incarnazione di Cristo, l’umanità è redenta e fatta degna di Dio; nel testo vengono usate delle immagini tipiche della cristologia di tradizione siriaca, come le nozze, la tenda, la cetra per il canto: “Benedetto, lui che ha segnato la nostra anima, l’ha adornata e l’ha sposata a sé. Benedetto, lui che ha fatto del nostro corpo una tenda della sua invisibilità… Siano rese grazie a quella voce, di cui è cantata la gloria sulla nostra cetra, e la potenza sulla nostra arpa”. La redenzione di Cristo quindi diventa la conseguenza della sua incarnazione: “Gloria al figlio del Giusto, crocifissi dagli empi. Gloria a colui che ci ha slegati ed è stato legato al nostro posto… Gloria al bello che ci ha modellati a sua somiglianza. Gloria al limpido che non ha guardato alle nostre macchie.”.
          Troviamo lungo il poema diversi riferimenti all’eucaristia, dove il poeta adopera delle immagini molto belle come quella del pastore, del tralcio, del grappolo, che gli servono per collegare i Santi Doni al mistero dell’incarnazione: “Gloria al celeste il cui corpo è divenuto pane per dar vita alla nostra mortalità… Benedetto il pastore divenuto agnello per la nostra redenzione. Benedetto il tralcio divenuto coppa della nostra salvezza. Benedetto il grappolo, fonte del farmaco della vita. Benedetto il coltivatore, diventato il chicco seminato e il covone mietuto, l’architetto fattosi per noi torre di rifugio”. Due volte ancora l’autore si serve dell’immagine dell’innesto per cantare il farsi presente, l’incarnarsi di Dio nella vita dell’uomo: “Adoriamo colui che ha tracciato nel nostri udito un sentiero per le sue parole. Rendiamo grazie a colui che ha innestato il suo frutto nel nostro albero… Il suo frutto si è unito alla nostra umanità, affinché mediante esso fossimo attratti verso colui che si è piegato verso di noi”.

          La grandezza di Dio, quindi, si manifesta pienamente nella sua piccolezza, nel suo abbassarsi fino alla condizione umana: “Gloria a colui che mai poté essere misurato da noi… Gloria a colui che sa tutto e che si è sottomesso a domandare, per ascoltare, e apprendere ciò che già sapeva, per rivelare, con le sue domande, il tesoro dei suoi doni”. In una delle ultime strofe l’autore introduce l’immagine di Cristo come medico e la sua nascita come farmaco di vita per gli uomini: “Benedetto il medico sceso per un’incisione senza dolore… la sua nascita è il farmaco che ha clemenza dei peccatori…”. L’inno si conclude con la confessione della piccolezza dell’uomo nella lode di Dio: “Sia benedetto colui che la nostra bocca non è all’altezza di rendergli grazie… neppure alla sua bontà. Mare di gloria, che non manchi di nulla, accogli nella tua bontà una goccia di rendimento di grazie, di cui, per tuo dono, è umettata la mia lingua per renderti grazie”.


giovedì 18 dicembre 2014

A proposito di due inni di Sant’Efrem il Siro sul Natale
È entrato eccelso ed è uscito umile
          La collezione di inni di sant’Efrem il Siro sulla Natività del Signore contiene 28 poemi. Due di essi, il X e XI, sono dei testi assai brevi con dodici strofe il primo ed otto il secondo, che snodano in modo particolare e con delle immagini simboliche specialmente ricercate e belle, il tema dell’incarnazione del Verbo di Dio.
          Il primo dei due inni, il decimo della collezione, canta il mistero della redenzione adoperata da Cristo dalla sua incarnazione alla sua risurrezione, e lo fa a partire dal parallelo tra il grembo verginale (custodito) di Maria, e la tomba di Cristo sigillata (custodita) anche essa. Efrem inizia il canto con un argomento a lui caro, e che troviamo presente in diversi degli inni di questa collezione sul Natale: le nenie cantate da Maria a suo Figlio, messe in parallelo a quelle cantate dalle madri dei patriarchi dell’antico testamento: “Lia e Rachele, Zilpa e Bila, quando cantavano nenie ai desiderati, ai dodici che avevano partorito, cosa di uomini erano le loro nenie. Cosa della divina signoria sono le tue nenie, o Signore dei tuoi fratelli”. Dalla seconda strofa in poi Efrem introduce ed sviluppa l’immagine del sepolcro sigillato da coloro che seppellirono Cristo: “…sigillato essi ti posero: sigillarono la pietra e posero la guardia. Fu a tuo vantaggio che sigillarono il tuo sepolcro, o Figlio del Vivente”. Il sepolcro sigillato diventa una testimonianza del fatto che non ci fu nessun furto del corpo di Gesù da parte di nessuno: “Dopo averti seppellito… ci sarebbe stato spazio per affermare falsamente che ti avevano rubato. O onnivivificante, con l’astuzia del sigillo del tuo sepolcro accrebbero la tua gloria!”. Daniele il profeta e Lazzaro l’amico di Cristo vengono messi in parallelo da Efrem, a partire dalla loro permanenza nella fossa dei leoni sigillata il primo e nella tomba suggellata il secondo, e così diventano tipo di Cristo stesso chiuso anche lui nel grembo di Maria e nel sepolcro: “Di te fu tipo sia Daniele che Lazzaro, l’uno nella fossa che i popoli sigillarono, e l’altro nella tomba che il popolo aprì…”. Inoltre Daniele nella fossa dei leoni è tipo di Cristo nel grembo di Maria; il grembo ed il sepolcro di Cristo testimoniano sia la sua vera incarnazione che la sua risurrezione: “Con la tua risurrezione tu li hai convinti della tua nascita, perché sigillata era la fossa e suggellato era il sepolcro… tuoi testimoni furono la fossa e il sepolcro sigillati”. Quindi il ruolo del grembo e del sepolcro è simile in quanto ambedue hanno generato Cristo alla vita. Ambedue hanno come ruolo quello di concepire e partorire: “Il grembo ti ha concepito, lui che era sigillato; lo sheol ti ha partorito, lui che era suggellato. Fuori dall’ordine naturale il grembo concepì e lo sheol ridiede… Sigillato era il sepolcro che custodiva il morto. Vergine era il grembo, che nessun uomo aveva conosciuto…”. Attraverso l’incarnazione e la nascita verginale di Cristo, e la sua risurrezione dai morti, Efrem sottolinea ancora la vera natura divina di Cristo: “Il grembo sigillato e la pietra suggellata… hanno confutato e persuaso che tu sei celeste”. Nascita e risurrezione di Cristo, quindi sono segno di contradizione e allo stesso tempo ne testimoniano la sua vera divinità: “Il popolo stava tra la tua nascita e la tua risurrezione. Calunniava la tua nascita? La tua morte lo biasimava. Scioglieva la tua risurrezione? La tua nascita lo confutava. Due atleti colpivano la bocca calunniatrice”.
          Il secondo degli inni, undecimo della collezione, e più breve dal precedente, soltanto otto strofe, e sviluppa parallelamente il tema dell’incarnazione del Verbo di Dio e quello della divina maternità di Maria, misteri che per Efrem rimarranno sempre incomprensibili alla mente umana: “La madre tua, Signore, nessuno sa come chiamarla. Se la chiama «vergine», il figlio si alza; se «maritata», nessun uomo l’ha conosciuta. E se la madre tua è incomprensibile, comprendere te, chi sarà in grado?”. Efrem dà a Maria in questo inno gli appellativi di madre, sorella, sposa e vergine: “Ella è tua madre e tua sorella, e anche sposa…, sposa secondo natura, prima della tua venuta… concepì fuori dall’ordine naturale… ed era vergine quando ti partorì santamente…”. La maternità di Maria serve ad Efrem per mettere chiaramente in luce la vera incarnazione del Verbo di Dio: “Se lei ti poteva dare cibo, era perché tu avevi fame. Se poteva darti da bere, era perché avevi voluto aver sete. Se lei ti poteva abbracciare, era perché il carbone ardente d’amore custodiva il suo grembo”. Notiamo che la tradizione liturgica siriaca chiamerà il corpo di Cristo sull’altare col titolo di «brace o carbone ardente». Infine nelle ultime tre strofe Efrem riprenderà delle belle immagini cristologiche proposte per via di contrasto: “Egli è entrato in lei Signore ed è divenuto servo. È entrato eloquente… è entrato in lei tuono e la sua voce si è fatta silente. È entrato in lei pastore dell’universo, ed è diventato in lei agnello… è entrato ricco ed è uscito povero… è entrato eccelso ed è uscito umile… Nudo e spoglio è uscito da lì, colui che veste tutti”.



giovedì 4 dicembre 2014


(Annunciazione e Madre di Dio. Dittico etiopico in pietra e legno, XIX secolo)
Una terra vergine aveva partorito Adamo, capo della terra.
Una Vergine oggi ha partorito l’Adamo capo del cielo.
I vigilanti oggi sono nella gioia, poiché è venuto il Vigilante a svegliarci.
Chi dormirà in questa notte nella quale veglia l’intera creazione?
 (Efrem il Siro. Inno I sulla Natività)

Vi auguro a tutti un Santo Natale.

Arch. P. Manuel Nin osb, Rettore
Pontificio Collegio Greco

Roma, Natale 2014

lunedì 1 dicembre 2014

San Saba, l’uomo santificato
Uomo di comunione con Dio e con i fratelli
          Il beato papa Paolo VI tra il 1964 e 1965 compì due gesti profetici nel rapporto con le Chiese ortodosse di tradizione bizantina: la restituzione (potremmo dire la traslatio) delle reliquie di sant’Andrea apostolo a Patrasso e del monaco san Saba al monastero che porta il suo nome nel deserto presso Betlemme. Nel 2004 san Giovanni Paolo II restituiva alla sede patriarcale di Costantinopoli, nelle mani del patriarca ecumenico Bartolomeo I, le reliquie di san Gregorio di Nazianzo e san Giovanni Crisostomo. Gli Apostoli e i Padri venerati nelle loro reliquie che diventano testimoni, martiri del cammino verso la piena comunione tra le Chiese cristiane di Oriente ed Occidente.
          La figura del monaco san Saba (+532) è molto venerata in Oriente ed è una delle personalità più importanti nello sviluppo del monachesimo nella Palestina. Nato in Cappadocia verso il 439, inizia nella Palestina un percorso di vita monastica che va dal cenobitismo all’eremitismo. Verso il 478 fonda la Grande Laura, centro monastico destinato a svolgere un ruolo importante nello sviluppo del monachesimo della regione e nella fedeltà alla confessione cristologica calcedoniana. Saba muore il 5 dicembre del 532, data della sua festa nel calendario bizantino. I testi dell’ufficiatura della festa mettono in risalto alcuni aspetti della vita di san Saba, aspetti che diventano quasi l’icona del monaco e di ogni cristiano. La vita di Saba come monaco e padre di monaci si fa presente nei testi liturgici con due immagini che lo cantano come abitante e come colonizzatore del deserto: “Hai fatto del deserto una città dove si vive se­condo sapienza, o splendore dei padri, Saba, padre no­stro di mente divina, e lo hai reso paradiso spirituale, co­per­to di fiori divini: la molti­tu­dine dei monaci…”. La vita di san Saba come monaco e padre di monaci, ne fa un uomo di comunione col cielo e con le schiere celesti e quindi uomo di intercessione: “Saba di mente divina, simile agli angeli, compagno dei santi, consorte dei profeti, coe­rede dei martiri e degli apostoli, ora che abiti la luce senza tramonto… sup­plica Cristo… perché siano donate alla Chiesa la con­cordia, la pace e la grande misericordia”. La stessa vita di Saba come monaco ne fa anche un uomo di comunione con i monaci, con gli uomini. Per loro diventa modello ed esempio: “Saba beatissimo, lampada inestinguibile della con­ti­nenza, tersissimo luminare dei monaci, ri­splen­dente per i fulgori della carità, torre inconcussa della pa­zien­za… te­so­ro di guarigioni, vero colonizzatore del deserto… torcia che sorge sul mare del mondo, per guidare i popoli al porto divino… gui­da dei monaci… implora Cristo, per­ché siano donate alla Chiesa la concordia, la pace e la grande misericordia”. Questi due aspetti saranno, nella tradizione monastica cristiana due pilastri dell’essere e vivere come monaco: la comunione con Dio e con gli uomini.
          Nei testi liturgici della festa, la vita monastica è presentata quasi come una nuova nascita, e riprendendo Genesi 1,26 come una nuova creazione. Uno dei tropari infatti canta Saba come monaco / uomo nuovo, integro nell’immagine e ricreato nella somiglianza di Dio, pervenuto alla contemplazione della Trinità: “Custodita illesa in te l’immagine di Dio, ma reso l’intelletto signore delle passioni…, mediante l’ascesi hai rag­giunto per quanto possibile la somi­glianza: poiché, fa­cendo coraggiosamente violenza alla natura, ha assoggettato la carne allo spirito. Sei così divenuto eccelso fra i monaci, colonizzatore del deserto, allenatore di quelli che com­pio­no bene la corsa… E ora nei cieli, venuti meno ormai gli specchi, contempli puramente la santa Trinità…”.
          Altri testi presentano Saba, e ogni monaco, con l’immagine del carbone ardente, acceso dallo Spirito Santo e quindi diventato teoforo, ricettacolo del dono di Dio: “Ti sei mostrato al mondo quale carbone divinamente splen­dente, per essere stato a contatto col fuoco, o Saba, teoforo dello Spirito, facendo risplendere le anime di quan­ti con fede a te si accostano… gui­dan­­doli alla luce senza tramonto…”. Saba è quindi portatore di Dio e pienamente configurato con Cristo che raggiunge, con l’immagine della scala di Giacobbe, nella salita della vita ascetica: “La tua vita è stata chiaramente una scala che raggiunge il cielo, o uomo di mente divina: e con essa ti sei sollevato alle altezze, e hai ottenuto di unirti al Cristo sovrano, o bea­tissimo, con l’intelletto risplen­dente per i fulgori che da lui promanano; illuminato dai suoi bagliori, hai ricevuto lo stesso splendore degli angeli…”. Il dono delle lacrime nella compunzione, diventa fonte di fertilità per il deserto; questo è uno degli aspetti che troviamo presenti nei testi di tradizione monastica; ed il tropario della festa di san Saba ne è un bel esempio: “Con lo scorrere delle tue lacrime, hai reso fertile la sterilità del deserto; e con gemiti dal pro­fondo, hai fatto fruttare al centuplo le tue fatiche, e sei divenuto un astro che risplende su tutta la terra…”.

          San Saba abitante e colonizzatore del deserto, configurato col Cristo, intercessore presso Cristo. Icona di san Saba che la tradizione bizantina ci disegna nell’innografia liturgica con delle immagini –servitore, compagno, consorte- che indicano la piena parresia con le realtà del cielo: “Noi, folle di monaci, ti onoriamo come guida, padre nostro Saba, perché grazie a te abbiamo imparato a cam­minare per la via veramente retta. Beato sei tu che hai servito Cristo, diventato com­pagno degli angeli, consorte dei santi e dei giusti…”. 
Icona di San Saba. XX secolo

Monastero della Laura di San Saba, Palestina


mercoledì 19 novembre 2014

Giorgio Warda. I salmi di Maria
Colei che ha partorito il datore della vita
          Giorgio Warda è uno dei principali innografi della tradizione ecclesiale e liturgica siro orientale, vissuto tra a fine del XII e l’inizio del XIII secolo ad Arbela, nell’attuale Iraq. Il nome Warda (che significa rosa in siriaco) è un soprannome legato alla raccolta delle sue composizioni poetiche presenti nei libri liturgici siro orientali. Si tratta di poemi teologici molto spesso in forma di omelie metriche per le feste liturgiche del Signore, della Mare di Dio e dei Santi. Presentiamo un frammento di uno degli inni di Giorgio dedicati a Maria, inno che contiene una serie di versetti in cui il poeta teologo fa una lettura in chiave mariologia e soprattutto cristologica di alcuni salmi o versetti dei salmi, presentandone un’esegesi assai originale. Si tratta quasi soltanto di una lista senza commento di ventidue versetti salmici che l’autore applica a Maria, e costituisce quasi un unicum nell’esegesi siro orientale di testi veterotestamentari.
          Il poeta elenca i salmi o i versetti salmici nell’ordine del salterio stesso, visto come un libro biblico che nel suo insieme va letto, pregato ed interpretato in chiave cristologica e cristiana. Maria come modello di speranza e di fiducia. “Ventidue salmi cantati da Davide, è a lei (Maria) che convengono. Il primo indica tutta sua perfezione e la sua purezza: «Beato l'uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori… ma nella legge del Signore trova la sua gioia…». Il terzo sulla la sua persecuzione: « Signore, quanti sono i miei avversari! Molti contro di me insorgono »; ed il quarto la sua pace: «…perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare. ». Il quinto (tratta) della sua calunnia: «Non c'è sincerità sulla loro bocca, … la loro lingua seduce…», ed il quindici della sua giustizia: «Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sulla tua santa montagna?»”.
          L’autore quindi applica i versetti salmici alla vita stessa di Maria, presentata soprattutto come modello di ogni cristiano che vive nella sua vita, quasi incarnandoli, i versetti stessi dei salmi. Sono dei salmi che si adattano a Maria, al cristiano e alla Chiesa stessa. “Il sedicesimo sulla sua perseveranza: «Ho detto al Signore: Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. », il diciassettesimo la sua limpidezza: «Saggia il mio cuore, scrutalo nella notte, provami al fuoco: non troverai malizia… Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine. », e la lode che segue a questo fu cantata per lei da suo padre giusto”.
          Con un altro gruppo di salmi, Giorgio mette in luce la cura e la provvidenza di Dio verso Maria: è colui che la guida, la custodisce e la protegge: “E ancora il ventitreesimo sulla sua crescita con la provvidenza (di Dio): «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare…», ed un altro, il ventiseiesimo sulla sua bellezza senza peccato: «Signore: nell'integrità ho camminato, confido nel Signore, non potrò vacillare… La tua bontà è davanti ai miei occhi, nella tua verità ho camminato…». E quell’altro che dice: «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, e contro di me si sono alzati falsi testimoni che soffiano violenza» (salmo 27), e assieme al il trentaquattro (ambedue hanno annunciato) che il Signore l’ha benedetta e l’ha custodita sulla terra. E quell’altro, il quarantaseiesimo, (la proclama) trono di Colui che tutto santifica: «Un fiume e i suoi canali rallegrano la città di Dio, la più santa delle dimore dell'Altissimo. Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare… nostro baluardo è il Dio di Giacobbe.», ed ancora il quarantottesimo dichiara che è tempio del Figlio dell’Altissimo.”
Altri salmi portano l’autore ad esaltare la piena fiducia e dedizione di Maria nei confronti di Dio, dedizione che si manifesta con l’immagine dell’abitare nel tempio e, quindi, nel diventare tempio stesso di Dio, nell’incarnazione del Verbo nel suo grembo: “E il sessantunesimo (parla) del suo nascondimento: «Per me sei diventato un rifugio… Vorrei abitare nella tua tenda per sempre, vorrei rifugiarmi all'ombra delle tue ali», e la sua liberazione nei due (salmi) che seguono. E nell’ottantaseiesimo (si dice) che il Figlio dell’Altissimo ha abitato in lei: «Si dirà di Sion: “l'uno e l'altro in essa sono nati e lui, l'Altissimo, la mantiene salda». E il salmo novantunesimo (parla) degli angeli che custodiscono il suo corpo: «Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie», e il salmo centouno (annuncia) che (il Figlio) è apparso nel mondo per mezzo suo.”
Giorgio applica tutto il salmo 118 a Maria; la meditazione della legge di Dio diventa per l’autore contemplazione del mistero di Maria come modello della Chiesa stessa e di ogni cristiano: “E quello (più) grande (salmo 118) (parla) sulla perfezione, salmo che per intero segue le lettere (dell’alfabeto) e che non contiene separazioni ma tutto il mistero della perfezione; le sue sentenze cento diciotto e sette altre si addicono a Maria. E il centotrentasette che loda il Signore con la bocca e con la mente. Il centotrentotto che (vede) la destra del Signore che la adombrata: «Se prendo le ali dell'aurora per abitare all'estremità del mare, anche là mi guida la tua mano…». E benché tutti (i salmi) parlino dei giusti, tutti pero possono essere collegati a lei e (parlano) su di lei.”
          Infine l’autore aggiunge ai testi salmici anche Ezechiele, Cantico e Matteo, quasi a completare e mettere in risalto l’insieme della Bibbia nell’esegesi cristologica, mariologica ed ecclesiologica, coronandola con il riferimento all’incarnazione del Verbo di Dio nel grembo verginale di Maria: “È colei che non ha conosciuto uomo, ed è la terra che soltanto il Signore ha seminato. Lei è la porta di cui parla il Signore per mezzo del profeta Bar Buzi (Ezechiele): «Sarà chiusa e nessuno vi entrerà, perché (soltanto) il Signore entrerà e ne uscirà». Lei è la fonte sigillata da cui tutto il mondo è dissetato. Lei è il tesoro intatto, da cui si arricchiscono tutti gli uomini. È colei in cui abitò Dio, e da lei risplendette il Figlio di Dio. Lei è la discendenza di Eva, per mezzo di cui fu cancellata la maledizione di Eva. Lei ha portato Colui che porta l’altezza e la profondità, e in lui si radunano. Lei ha partorito il datore di vita, Dio e uomo al di sopra della natura”.

          Il poema di Giorgio Warda, seguendo la tradizione dei testi liturgici delle diverse tradizioni orientali per le feste della Madre di Dio, ci offre una lettura dei testi salmici che si inserisce nella grande ed unica tradizione di lettura cristologica della raccolta del Salterio.


venerdì 12 settembre 2014

Romano il Melodo per l’Esaltazione della Santa Croce
L’albero dell’Eden è trapiantato nel Golgota
          Romano il Melodo (+555) ha due inni liturgici dedicati alla Croce. Il secondo, per la festa dell’Esaltazione della Croce, è formato da 24 strofe, divise tematicamente in due parti: dalla 1 alla 13 in cui Romano dà voce al buon ladrone, crocefisso con Cristo sul Golgota; quindi dalla 14 alla 24 dove l’innografo mette in bocca del diavolo l’amarezza di fronte alla redenzione che Cristo porta nel mondo.
          Romano già dalla strofa 1 introduce quello che sarà il filo conduttore di tutto il poema: la centralità della croce come unico albero, presente nell’Eden e presente sul Golgota, ignorato da Adamo, riconosciuto e confessato dal ladrone: “Il legno tre volte beato, dono di vita, fu piantato dall’Altissimo nel mezzo del paradiso… affinché Adamo potesse ottenere la vita eterna e immortale. Ma lui non riconobbe la vita, la smarrì e scoprì la morte. Il ladrone invece che vide come questo albero dell’Eden era trapiantato sul Golgota, riconobbe in esso la vita…”. Romano sottolinea come la croce diventa l’altalena da dove il ladrone vede già l’Eden: “Quando (il ladrone) fu innalzato sul legno… gli occhi del suo cuore si aprirono ed egli contemplò le gioie dell’Eden… appeso alla croce scorgeva la vita sul legno… ma provava afflizione per Adamo sofferente”. L’innografo, in altre due strofe mette in bocca di Cristo stesso il tema paolino del primo e del secondo Adamo: “Cristo gli disse (al ladrone): «Non compiangere Adamo tuo progenitore, perché io sono il secondo e vero Adamo e per mia volontà sono venuto a salvare l’Adamo che mi appartiene»”. E prosegue col tema della redenzione del genere umano adoperata da Cristo stesso, per mezzo della sua incarnazione e la sua croce: “Nel mio amore per il genere umano sono sceso per lui dall’alto dei cieli… e sono diventato maledizione perché da essa voglio liberare Adamo. Per un legno la trasgressione penetrò nel tuo progenitore… ma entrerà di nuovo nel paradiso per il legno della vita”. La croce quindi diventa la chiave che apre di nuovo il paradiso ad Adamo e alla sua discendenza, tema comune alla letteratura cristiana orientale sia siriaca che bizantina: “Quando i primo creato fu scacciato dal paradiso, i cherubini ne sbarrarono la strada, ma tu prendi la mia croce sulle spalle e va in fretta all’Eden”.
          Dalla strofa 6 alla 10 Romano mette in bocca del ladrone camminante verso il paradiso, il cantico nuovo dei redenti, un vero e proprio salmo inneggiante la croce di Cristo: “…il ladrone prese sulle spalle l’emblema della grazia, come aveva detto colui che è in tutto misericordioso, e si mise in cammino benedicendo il dono della croce, cantando un cantico nuovo: «Tu sei l’innesto per le anime sterili, tu sei l’aratro… tu sei la buona radice della vita risuscitata, sei la verga del castigo…». Il ladrone inoltre si serve di bellissime immagini per parlare della croce: “Tu sei il bastone che accompagna verso la vita i peccatori che sperano in te… tu sei il vaglio che sull’aia separa la paglia dal raccolto. Tu sei il timone divino della barca della Chiesa di Cristo per dirigere i giusti ed i credenti verso il paradiso”. All’arrivo in paradiso il cantico del ladrone introduce il tema paolino della partecipazione del cristiano alla croce e alle sofferenze di Cristo: “Vedo la terra santa dei padri, che apparteneva al mio progenitore… e se l’esterno è pieno di luce, grandi davvero saranno i tesori all’interno. Occhio non vide, né orecchio udì, né cuore conobbe quello che il Signore ha preparato per i suoi amici, crocifissi con lui…”. Quindi il paradiso, grazie alla croce, viene ridato al ladrone; i cherubini ne furono custodi per un tempo, ma dopo il Golgota Adamo ne ridiventa padrone: “E i cherubini dissero: «Vieni ladrone ritorna in possesso dei diritti di tuo padre… a noi il paradiso non fu dato come se fossimo padroni: esso venne assegnato da Dio al primo uomo… Tu, o ladrone, ci hai rivelato che Adamo è stato richiamato dall’esilio…».
          Nella seconda parte del poema, Romano mette in bocca del diavolo tutta l’amarezza della sua sconfitta. Con delle belle immagini fortemente contrastanti, l’innografo mette in parallelo i “due furti” che amareggiano il diavolo: “E il diavolo, vedendo il ladrone nell’Eden, esclamò piangendo: «Terribile è questo che mi è accaduto! Un ladrone giustificato che ha aperto il paradiso. E mentre io cerco di rubare Pietro, proprio a me, che sono ladro, è stato rubato il ladrone! Mentre mi prendo gioco del discepolo impazzito, del traditore di Cristo, sono stato preso in gioco dal ladro che per la sua fede è corso in paradiso». Il diavolo, cercando di rubare discepoli a Cristo, è derubato dal ladrone, suo strumento. E conclude ancora il rimpianto del diavolo con un riferimento sempre ai discepoli di Cristo: “Se avessi visto Giuda guadagnare il paradiso, non avrei sofferto troppo a causa sua, perché non era mio discepolo ma di Cristo. Il ladrone invece era mio fedele discepolo, eppure mi ha abbandonato per correre da Gesù, mi ha odiato e, quel che è peggio, a causa del legno è diventato anche custode del paradiso”.
          Romano conclude nella strofa 24 con una preghiera a Cristo: “Sei diventato figlio di Maia, o Figlio di Dio e Salvatore nostro; alla croce sei stato inchiodato, tu che sei Dio incarnato, per salvare ed avere pietà dei peccatori… Insieme al ladrone gridiamo a te, come fossimo sulla croce: «Ricordati di noi nel tuo Regno»… noi che abbiamo ricevuto il sigillo della tua croce che ci fa una sola cosa in paradiso”.



lunedì 8 settembre 2014

Inni di Giorgio Warda per la celebrazione della beata Vergine Maria.
Oggi nasce l’albero dal frutto meraviglioso…
          Giorgio Warda è uno dei principali innografi della tradizione ecclesiale e liturgica siro orientale, vissuto tra a fine del XII e l’inizio del XIII secolo ad Arbela, nell’attuale Iraq. Il nome Warda (che significa rosa in siriaco) è un soprannome legato alla raccolta delle sue composizioni poetiche presenti nei libri liturgici siro orientali. Si tratta di poemi teologici molto spesso in forma di omelie metriche per le feste liturgiche del Signore, della Mare di Dio e dei Santi. Presentiamo per la festa della Natività della Madre di Dio due dei suoi inni dedicati a Maria. Queste righe vogliono essere anche una forma di preghiera e di vicinanza umana e cristiana a tanti cristiani della tradizione siro orientale e delle altre tradizioni cristiane sofferenti e martirizzati nel Prossimo oriente cristiano.
          I due inni a Maria che presentiamo si trovano, per intero oppure frammentari, nei libri liturgici siro orientali nelle feste di Maria. Giorgio Warda inizia questi due inni riconoscendo la propria indegnità per lodare sia Cristo sia sua Mare; Giorgio è consapevole che lodando Maria loda Colui che da Lei è nato: “Eccomi sommerso dai flutti in fondo ad un mare di iniquità…ma come Pietro, o Gesù, io ti supplico… spalma sugli occhi della mia mente la salva pura della tua bocca vivificante… Chi racconterà i prodigi del Signore? Chi può narrare di questa castissima e pura, di questa santa e santificata, abitacolo, tempio e tabernacolo, torre, palazzo e trono del Dio sempre vivo?”.
          In primo luogo Giorgio passa in rassegna i nomi dati a Maria nei testi veterotestamentari; e propone una lettura della Scrittura in chiave cristologica o soteriologica. È notevole tutto l’accostamento che Giorgio fa tra i primi capitoli della Genesi con Adamo ed Eva nel paradiso e l’inizio della redenzione in Maria: “Adamo è nato dalla terra e alla terra è ritornato; da Maria nacque il Signore di Adamo e divenne per amore figlio di Adamo… La potrei paragonare al giardino dei quattro fiumi? Ma da Maria è zampillata una fonte che quattro bocche hanno sparso, la quale inebriò tutta la terra… Lei è l’albero stupendo che produsse il frutto meraviglioso… Lei è l’arca fatta di carne in cui riposò il vero Noè… Lei è la roccia senza fessura… Lei è il roveto che era arso dal fuoco, dove abitò per nove mesi il fuoco incandescente…”.
          I testi dei profeti, specialmente Isaia e Ezechiele offrono all'autore delle immagini che lui, seguendo tutta la tradizione esegetica dei Padri, applica a Maria: “Lei è la vergine che Isaia predisse come Madre del Signore, il Figlio dell’Altissimo…Lei è la radice di Iesse… Lei è quella porta del Signore, attraverso la quale nessun mortale entrò e per la quale entra ed esce solo il Signore…”. Giorgio procede poi facendo un ritratto quasi fisico di Maria, lodandone i diversi sensi e collegandoli al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio: “O seno che nessun uomo conobbe… diventato tempio per il Figlio… I suoi occhi quanto semplici perché guardavano il Sole degli angeli… Orecchie beate che udirono le parole dell’arcangelo… O labbra dolcissime che baciarono la carne del Verbo… O sacro petto dove il Figlio dell’Altissimo attingeva il cibo… O mani e ginocchia fatte di carne invidiate dai serafini e dai carri dei cherubini…”. E riprendendo l’immagine di Mt 13,45 del mercante di perle preziose, conclude Giorgio il suo primo inno: “O commerciante poverissima, e povera ricchissima, che hai comperato la Perla che ha arricchito tutta la creazione”.
          Nel secondo degli inni Giorgio riprende il parallelo tra i primi capitoli della Genesi e Maria, incentrandolo questa volta con la figura di Eva di cui Maria diventa la vera e propria plenitudine: “Il frutto che Eva non ha trovato, Maria l’ha portato e nutrito; per mezzo del frutto desiderato Maria trovò il frutto e lo donò a tutti. Eva non potò trovare il frutto che Maria trovò in se stessa… Eva non seppe fuggire il male ed attirò la maledizione… Maria fu esenta dalla colpa e meritò la liberazione per il mondo intero…”. E l’autore prosegue, proponendo un’esegesi assai originale, con la lista che quasi enumera senza commento di ventidue versetti salmici che lui applica a Maria. Ne diamo qua soltanto un campione, ma si tratta sicuramente quasi di un unicum nell'esegesi siro orientale di testi veterotestamentari: “A lei convengono i ventidue salmi cantati da Davide. Il primo canta la sua perfezione e la sua purezza; il terzo la sua persecuzione; il quarto la sua pace… il quarantaseiesimo la proclama abitacolo di colui che tutto santifica, ed il quarantottesimo tempio del Figlio dell’Altissimo… il novantunesimo parla della veglia degli angeli sul suo corpo… poi il lungo salmo centodiciottesimo che, descrivendo le vie di perfezione con la divisione alfabetica è tipo della scala della perfezione… tutti versetti che si applicano a Maria… Tutti questi salmi, benché trattino dei giusti, possono essere applicati a lei e cantando di lei e su di lei”.
          Ai nostri fratelli cristiani, siriaci orientali ed occidentali, copti, armeni, melchiti, maroniti, latini, martiri perseguitati per la loro fede, ma che fedeli a questa fede canteranno la Natività della Vergine Maria. A loro la nostra preghiera e la nostra vicinanza sempre.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco
Roma



lunedì 1 settembre 2014

Il canto liturgico nella tradizione bizantina greca
La voce che canta la Parola
Le celebrazioni liturgiche delle Chiese cristiane, siano esse di tradizione orientale che occidentale, hanno una componente musicale, strumentale o vocale, che le caratterizza in modo particolare. La musica liturgica in Oriente si è sviluppata soprattutto dal punto di vista vocale, cioè sono le voci dei cantori, e tante volte di tutto il popolo, che segnano lo svolgersi della liturgia stessa; sia nel canto dei testi biblici e liturgici, sia nelle risposte del popolo alle invocazioni e preghiere del sacerdote o del diacono.
Non vogliamo in questo momento presentare uno studio storico della musica e del canto liturgico nelle tradizioni cristiane orientali e in quella bizantina in modo particolare, bensì fare un accenno al canto, alla musica oggi nelle Chiese soprattutto di tradizione bizantina greca. Testimonianze del canto liturgico o se si vuol della liturgia cantata ne abbiamo già nei testi dei Padri dal IV secolo in poi; basti citare le composizioni innografiche di sant’Efrem il Siro (+373) con delle indicazioni –non notazioni bensì di una semplice frase- di carattere musicale per noi di carattere oggi indecifrabile; testi innografici assai lunghi che venivano cantati o dall’assemblea oppure da un cantore con un ritornello fatto dal popolo. Questo ruolo centrale della voce nel canto liturgico proviene da un punto di partenza o meglio di espansione costantinopolitana che non ne ha però l’originalità, che invece conviene cercare nella tradizione antiochena e in collegamento stretto con le tradizioni siriache orientali ed occidentali anche odierne. Fino al IX secolo non troviamo delle notazioni musicali, soprattutto dopo la crisi iconoclasta.
La liturgia bizantina greca, celebrata oggi in tanti paesi dal Mediterraneo, dal prossimo Oriente alla Calabria e la Sicilia italiane, ha delle tradizioni mellurgiche proprie, ma ha anche delle caratteristiche che le accomunano. Sono delle composizioni musicali di carattere monodico, cioè cantate a voce e senza strumenti musicali da una persona, o da diverse secondo i casi, ma senza la polifonia che si è sviluppata soprattutto nelle liturgie di tradizione bizantina slava. Non esistono appunto strumenti musicali; è la voce umana l’unico strumento nella lode di Dio e nella proclamazione della Parola. In qualche modo si può dire che la tradizione bizantina greca sfrutta la voce ed il canto come modo di esprimere la preghiera liturgica.
Quale è il ruolo del cantore e soprattutto della voce nella liturgia bizantina greca? In primo luogo, il canto dei testi liturgici lo troviamo strutturato a partire dall’oktoechos, cioè l’insieme di otto toni musicali diversi, collegati all’insieme di testi poetici previsti per un ciclo anch’esso di otto settimane, testi risalenti tra il V ed il IX secolo, opere di teologia poetica di autori anonimi o di grandi innografi come Romano il Melodo e Giovanni Damasceno per fare qualche nome. Questi otto toni musicali vengono applicati ai diversi testi liturgici bizantini lungo l’anno liturgico. Questi testi vengono cantati solitamente dal coro del monastero, della chiesa o del seminario che si tratti. In secondo luogo, il ruolo della voce singola per la recita dei salmi o dei versetti salmici; per la recita e la preghiera dei salmi interi –ed il Salterio ha un ruolo importante nella tradizione bizantina soprattutto nella prassi monastica-, questi vengono recitati da un lettore, lettura che spesso non è una semplice recita quasi “privata”, ma con un’intonazione vocale che permette non soltanto di seguire il testo, ma anche e soprattutto di pregare con il salmista. Per quanto riguarda i singoli versetti salmici, di solito intercalati alle composizioni poetiche sopra accennate, vengono eseguiti da un cantore al tono indicato dal periodo dell’anno liturgico in cui si celebra. In terzo luogo il canto del lettore, cioè la proclamazione cantata delle letture della Sacra Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, e soprattutto il Vangelo. In questo caso il canto sottolinea la dimensione di annuncio e di proclamazione che nella Divina Liturgia ha il Vangelo, come momento centrale nella liturgia dei catecumeni o della Parola. In tutte le liturgie cristiane, da Oriente ad Occidente il Vangelo viene cantato dal diacono, per annunciare attraverso la bellezza e la forza del canto e della melodia, che mai sacrifica anzi valuta così il senso del testo, la bellezza e la forza della Parola di Colui che la liturgia proclama come “il più bello tra i figli degli uomini” (salmo 44,7). In quarto luogo le voci o i toni melodiosi e del vescovo o del sacerdote celebrante nelle preghiere lungo la liturgia e soprattutto nell’anafora, cantata anch’essa a partire dagli otto toni accennati già prima, e del diacono nel canto delle diverse litanie lungo la liturgia. Infine, per ultimo, le melodie per i testi speciali o propri lungo l’anno liturgico, melodie che spesso sono entrate nell’anima del popolo fedele che le canta, diventando così veramente concelebrante della liturgia che si celebra, specialmente durante la liturgia della Settimana Santa. Uno di questi casi particolari è il canto degli Enkomia nel mattutino del Sabato Santo, la cui melodia è diventata patrimonio scolpito nel cuore dei credenti bizantini. Si tratta dell'elogio funebre di Gesù formato da 176 strofe divise in tre stanze o gruppi; composto tra il XII e il XIV sec. Il canto degli Enkomia viene fatto di fronte alla tomba di Cristo, messa nel bel mezzo della chiesa, e le strofe vengono cantane alternate a due cori e delle volte intrecciate coi versetti del salmo 118. La musica, il canto forte e veramente vissuto di queste strofe fanno del popolo fedele il vero celebrante, incarnando veramente i diversi personaggi del poema, assumendo il dolore, il pianto, la gioia.
Il ruolo del canto, della voce melodiosa nella tradizione bizantina, voce sia maschile che femminile, nei monasteri, nelle cattedrali, nelle chiesette di campagna, diventa fondamentale sì per la sua bellezza anche in se stessa, ma soprattutto per la forza dell’annunzio della Parola e per la celebrazione della lode al Dio che è Padre, che si è rivelato pienamente nel Figlio e ci santifica nello Spirito Santo.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco
Roma.




sabato 16 agosto 2014

Assieme alle Chiese siriache, per la Dormizione della Madre di Dio
Benvenuta la mensa benedetta che offre il pane della vita.
         La festa della Pasqua della Madre di Dio, il giorno 15 agosto, la sua morte e la sua piena glorificazione, è celebrata nelle Chiese orientali con grande solennità; festa preceduta anche di un periodo quaresimale di preparazione come avviene per la Pasqua di Cristo. Vogliamo in queste righe soffermarci, a modo di testimonianza, di comunione e di preghiera con e per i nostri fratelli cristiani in Iraq e nel prossimo oriente, sui testi liturgici delle due tradizioni siriache, quella occidentale e quella orientale, testi che verranno cantati e pregati in questa festa, ma allo stesso tempo testi che in tante chiese in Iraq e nel prossimo oriente, non verranno più cantati né pregati. Si tratta di testi liturgici in cui viene sottolineata ripetutamente la gioia di tutta la creazione nell’accorrere alla celebrazione del transito di Maria; testi che mettono in evidenza la presenza, in questa celebrazione gloriosa e festiva, degli angeli, degli apostoli, di tutta la Chiesa; testi infine che ripetutamente invocano Maria come colei che intercede per il popolo. Diamo semplicemente la traduzione di alcuni brani appartenenti alla tradizione siro occidentale per prima, e a quella siro orientale in secondo luogo. Testi, la cui attribuzione ai grandi padri di queste Chiese: Efrem, Giacomo, Isacco, ci porta alla comunione con tutti i cristiani che per duemila anni hanno invocato il Signore nella lingua con cui ci insegnò ad invocare Dio come Padre.
         Della tradizione siro occidentale, diamo la traduzione di alcuni testi del vespro della festa. La liturgia di questo giorno sottolinea in modo speciale la dimensione ecclesiale della festa nella presenza attorno a Maria di tutte le schiere degli angeli e degli uomini: “Facci degni, o Cristo Dio, di celebrare con animo puro e corpo senza peccato, assieme alle schiere degli angeli e ai cori degli uomini giusti e degli apostoli, questo giorno festivo di tua Madre benedetta. Conservaci per le sue preghiere e per le sue suppliche liberaci da ogni male nel corpo e nell’anima… Nel giorno del transito della vergine, gli apostoli ne celebrano la liturgia sacra; le schiere degli esseri di fuoco e di spirito, con le anime dei giusti, dispongono la processione verso la sua sepoltura, …e onorano il giorno del transito della vergine Maria, figlia di Davide, la Madre che ha generato Dio… La pace sia con te, figlia di Davide, vergine piena di grazia, santa e piena di bellezza… Angeli e uomini sono stupiti e meravigliati per il tuo transito da questo mondo verso il tuo Figlio…”. E ancora nel vespro della festa uno dei testi di una bellezza e profondità teologica unica nel suo genere: “Lode a Te, Cristo Dio nostro, grande e allo stesso tempo velato, che sei disceso per abitare nel grembo della vergine Madre tua ignara di nozze. Tu ti sei fatto simile a noi eccetto il peccato; e noi, tuoi servitori sulla terra, nella memoria di tua Mare ci accingiamo a lodarla: «Tu sei la sposa perfetta e la Madre pura e ignara di nozze, sorgente di benefici… Tu sei il lievito della vita mescolato alle tre misure di frumento, il Cristo… Tu sei il vanto dei cristiani. Nel giorno del tuo transito tu hai riempito il mondo di meraviglia; le schiere degli angeli sono accorsi per onorarti e unirsi agli apostoli, radunati per onorare la tua morte… e seppellire il tuo bellissimo corpo. Essi ti videro distesa sul letto e avvolta di gloria ineffabile, aperti i cieli e gli eserciti degli esseri luminosi volavano e scendevano per onorarti». O giorno grande e felice in cui la Madre è andata a raggiungere il suo Unigenito. Pietro, il capo degli apostoli, porta il letto funebre, e Gabriele, il capo degli angeli, canta: «Benvenuta sei, o Madre benedetta e sposa pura! Lode a te, dimora dello Spirito Santo e camera nuziale del Re celeste, vigna fertile che diede il grappolo della gioia, il cui vino ubriaca tutta la creazione. Benvenuta sei, vergine piena di grazia, rosa desiderabile e giglio pieno di profumo, figlia benedetta che hai liberato Adamo tuo padre dalla schiavitù del peccato… Benvenuta sei, mensa benedetta, che hai offerto il pane della vita alle anime che erano morte per il peccato, pane che diventa cibo spirituale per la vita nuova».
         Della tradizione siro orientale diamo alcuni brani della liturgia: “Beata te, o vergine, fidanzata ma non conosciuta da uomo. Beata te, che hai un Figlio, ma la tua verginità non è stata conosciuta da uomo. Beata te, mare senza pare, il tuo fidanzato è il tuo Figlio prediletto. Beata te, o terra nella quale fu formato il Signore di Adamo e nella carne vi abitò. Beata te, albero prodigioso che porti il frutto pieno di meraviglia. Beata te, roveto straordinario, non consumato dalla fiamma. Beata te, scettro del figlio di Aronne, che germogliò le mandorle senza essere stata piantata; nel tuo grembo lui si è fatto uomo… Per il corpo puro che aveva portato il Figlio di Dio era giunto il momento di bere il calice che Adamo aveva riempito per i suoi figli. Il Signore ordinò agli angeli del cielo di rendere onore al corpo di sua Madre. Essi la scortarono con solennità e onore, come era stato loro comandato. Gloria a Colui che ha esaltato il giorno della sua assunzione”.
Ambedue le tradizioni invocano Maria come colei che intercede presso Cristo, il suo Figlio. Invocazioni che facciamo nostre in questo giorno di festa, in comunione coi nostri fratelli iracheni e nel prossimo oriente, che canteranno nella loro liturgia questi testi benedetti, o che forse potranno soltanto viverli nella liturgia di testimonianza martoriale delle loro vite: “Cristo, Dio nostro, che accetti le domande dei peccatori e ascolti i pianti di coloro che sono afflitti, che rendi onore alla memoria dell’assunzione di tua Mare, la Vergine pura, accogli ora il profumo della nostra preghiera, perdona le nostre colpe e rimetti i nostri peccati per la sua intercessione. Nella tua immensa misericordia, accetta in nome della tua Chiesa le offerte e i doni che ti offrono i suoi figli fedeli in onore di tua Madre, regina degli aneli e dei santi…”. “O Cristo, nostro Salvatore… rendici oggi degni della tua clemenza, per gioire e godere con Maria nella vita che non tramonta…”.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco

Roma


Miniatura siriaca, Mor Gabriel, Tur Abdin. XIII secolo