giovedì 29 gennaio 2015

La festa dell’Ingresso del Signore nel tempio negli inni di Efrem il Siro
Oggi Simeone raccoglie il frutto dell’albero della vita
Efrem il Siro canta la pericope evangelica della presentazione di Gesù nel tempio di Lc 2,22ss in alcuni dei suoi inni della raccolta sulla Natività di Cristo. Ci soffermiamo in due inni di questa collezione, il XXV ed il VI. Nel primo il poeta teologo canta la Chiesa come luogo dell’adunanza dei fedeli per la celebrazione del mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio. Lungo tutto il poema Efrem mette in parallelo Maria e la Chiesa; quanto è prefigurato e profetizzato dell’una avviene anche nella vita dell’altra. Tutte le strofe del poema iniziano con la frase: “Beata sei tu, o Chiesa…”, e nelle due prime troviamo quasi una presentazione della situazione liturgico architettonico della celebrazione: “Beata sei tu, o Chiesa, poiché risuona in te la grande festa, la solennità del Re… Beate le tue porte, aperte ma non piene; i tuoi atri, spaziosi ma non sufficienti alla folla… Beata sei tu, o Chiesa, poiché nelle tue solennità i vigilanti gioiscono in mezzo alle tue feste… per tutta la notte i vigilanti danno gloria… Beati i tuoi canti, seminati, mietuti e raccolti nei granai del cielo. La tua bocca è un incensiere e i tuoi canti aromi esalanti nelle solennità”. L’accenno ai vigilanti nel contesto del vangelo di Luca è riferito ai pastori senz’altro, ma anche ai cristiani veglianti nella preghiera.
         La profezia di Is 7,14, Efrem la applica a Maria nella concezione del Verbo di Dio nel suo grembo, e anche alla Chiesa in cui avviene pienamente anche il significato salvifico del nome “Emmanuel” –Dio è con noi. Cristo concepito nel grembo di Maria, e concepito anche nel cuore della Chiesa; i fedeli in essa vengono mescolati, fatti partecipi della natura divina di Cristo: “Beata sei tu, o Chiesa: di te gioisce Isaia con la sua profezia: «Ecco, la vergine concepirà e partorirà» un bimbo, il cui nome è un grande simbolo. Oh il significato svelato nella Chiesa! Due nomi mescolati che divengono uno: «Emmanuel». «El» è sempre con te, poiché ti ha mescolata alle sue membra”. Poi in diverse delle strofe Efrem continua la lettura ecclesiologica di alcune profezie veterotestamentarie. Fa inoltre un parallelo tra Betlemme e la Chiesa; la prima significa “casa del pane”, la seconda custodisce la parola, ed i sacramenti: “Beata sei tu, o Chiesa… Beati i tuoi montoni marchiati col tuo marchio, le tue pecore custodite dalla sua parola. Tu, o Chiesa, sei la perenne Betlemme, poiché in te c’è il pane della vita”. Infine le profezie di Daniele ed i salmi di Davide trovano nella Chiesa il loro compimento: “Beata sei tu, o Chiesa: ecco gioisce di te Daniele che aveva indicato che il Cristo glorioso sarebbe stato ucciso… Beata sei tu, o Chiesa: sulla propria cetra canta di te il re Davide”.
         La Chiesa ancora viene presentata come luogo e ricettacolo delle Sacre Scritture ed anche il luogo dove esse vengono interpretate: “Beata sei tu, o Chiesa… In te i profeti stanchi hanno trovato riposo… Beati i suoi libri, dispiegati nei tuoi templi, e le solennità sfavillanti nei tuoi santuari…”. Dopo le profezie dell’Antico Testamento, la Chiesa viene presentata come luogo della pienezza delle beatitudini evangeliche; Efrem ne enumera dieci, facendo un’aggregazione tra Mt 5 e Lc 6: “Beata sei tu, o Chiesa, per le dieci beatitudini, donate dal nostro Signore. Simbolo pieno: al dieci sono infatti appesi tutti i numeri, perciò le dieci beatitudini ti hanno resa perfetta… O beata, da ogni beatitudine coronata, anche su di me lancia una beatitudine!”. Betlemme e Maria, piccole ed umili, diventano abitazione e dimora del Signore per la sua incarnazione e la sua nascita: “Beata sei tu, Betlemme: fortezze e potenti città ti hanno invidiato. Maria come te l’hanno invidiata donne e vergini figlie di nobili. Beata la fanciulla degna di essere la sua abitazione, e il borgo degno di essere sua dimora. Una fanciulla indigente ed un piccolo borgo lui si è scelto per farsi umile”. E quasi senza soluzione di continuità troviamo nella strofa 13 il fulcro di tutta la cristologia di Efrem: il Figlio eterno del Padre che nasce nel tempo: “Beata sei tu, Betlemme: in te ebbe inizio il figlio che è nel Padre dall’eternità… Colui che in te si è sottomesso al tempo, è prima del tempo… In te cominciò a belare l’agnello di Dio, che in te ha saltellato e nella tua mangiatoia è stato piccolo, pur distendendosi su tutte le creature ed adorato in ogni direzione”. Nella penultima delle strofe troviamo il riferimento a Lc 2, 22ss nell’anziano Simeone, che è chiamato beato per il suo portare, offrire Cristo al Padre: “Beato il sacerdote che, nel santuario, ha offerto al Padre il figlio del Padre; frutto raccolto dal nostro albero, pur provenendo direttamente dalla divina maestà”. Efrem vede il portare da parte di Simeone del bambino Gesù come un raccogliere il frutto dall’albero, visto costui come luogo dell’umanità di Cristo. Il tempio dove Cristo entra è il tempio dal velo strappato nella crocifissione da Cristo stesso: “Nel tempio lo Spirito attendeva con ardore il suo ingresso e quando fu crocifisso uscì, strappando il velo”.
         Nell’inno VI della stessa collezione, Efrem dedica tre strofe ai due anziani, Simeone ed Anna, che ricevono Cristo nel tempio e gli cantano delle nenie che diventano, ambedue, vere e proprie confessioni di fede: “Nel tempio santo Simeone lo portava cantandogli una nenia: «Sei venuto, o clemente, tu che hai clemenza della mia vecchiaia e fai entrare le mie ossa in pace nello sheol. Grazie a te risusciterò dal sepolcro al paradiso»”. Efrem quindi presenta Anna che bacia in bocca il bambino, come Isaia fu toccato sulle labbra dal carbone ardente: “Lo abbracciò Anna e lo baciò sulle sue labbra. E lo Spirito si posò sulle sue labbra come fu con Isaia… E Anna cantò una nenia: «O figlio di condizione regale, figlio di condizione vile, in silenzio ascolti, invisibile vedi, nascosto intendi. Dio figlio d’uomo sia gloria al tuo nome»”.



sabato 3 gennaio 2015

L’Epifania del Signore in un’omelia siriaca anonima del VI secolo
Oggi il Giordano avvolge il Signore Onnipotente
         Una raccolta di omelie siriache anonime risalenti al VI secolo, contiene tre discorsi, due più lunghi ed uno più breve, sulla festa dell’Epifania Il secondo di questi testi, partendo della vicinanza tra il Natale e l’Epifania, “Da una festa all’altra, il Signore conduce il suo gregge spirituale…”., racchiude quasi una raccolta di bellissime immagini parallele delle due feste accennate. In primo luogo l’autore propone ambedue feste viste come nascite e come manifestazioni del Verbo di Dio incarnato: “Nella prima festa, la creazione ha ricevuto il Creatore dal seno della Vergine, e nella festa odierna la sposa riceve lo sposo dal seno del battesimo… Nella prima nascita, è stato generato dalla Vergine, e nella festa odierna è stato generato dal battesimo”. Il battesimo di Cristo quindi viene messo in parallelo alla sua nascita da Maria. E il testo prosegue con delle immagini che costituiscono una vera e propria captatio benevolentiae dell’uditorio: “Al posto delle braccia della Vergine, ecco i flutti del Giordano lo abbracciano; al posto delle ginocchia, oggi lo portano le onde del fiume; al posto dei panni, le acque lo avvolgono… Oggi lui apre il battistero per santificare i nuovi nati”. Per l’autore dell’omelia nel Natale Cristo si presenta piccolo, debole neonato, mentre nella festa odierna si presenta come uomo maturo: “Dalla grotta dove è nato, oggi il Giordano riceve il Signore onnipotente; dalla mangiatoia che lo ha ricevuto neonato, oggi il Giordano lo riceve nella forza dell’età adulta”. E troviamo anche un bel parallelo tra i personaggi presenti sia a Natale –Giuseppe e gli angeli che lo vedono neonato-, che al Battesimo –Giovanni e la voce del Padre che lo manifestano Signore e Figlio di Dio: “Quando è nato (il Signore), c’era Giuseppe che aveva cura della sua piccolezza, qua Giovanni figlio di Zaccaria sta alla sua presenza con timore. Lì, gli angeli glorificavano la sua nascita; qua il Padre che dal cielo dice: «Costui è mio Figlio»”. E ancora vediamo altri personaggi che nel parallelo presentato dall’autore mettono in risalto la vera umanità di Cristo nella sua nascita, e la vera divinità manifestata nel suo battesimo: “Lì, Anna la profetessa annunciava la salvezza ai figli di Gerusalemme; qua lo Spirito Santo che lo dichiara al mondo come «Figlio dell’Altissimo». Lì i pastori cercavano il luogo della sua nascita; qua la moltitudine che si domanda: chi è costui davanti al quale Giovanni si fa piccolo?”.
         L’autore introduce poi il tema della santificazione delle acque adoperata da Cristo nel suo battesimo, in vista al battesimo dei cristiani stessi; e il testo dell’omelia riecheggia quasi il testo liturgico della consacrazione dell’acqua che il giorno dell’Epifania si celebra nelle liturgie orientali: “Oggi nel Giordano appare l’Unigenito di Dio; oggi il Santo è venuto a santificare per noi le acque del perdono; oggi è venuto a preparare il grembo in vista a una rinascita della creazione che ne ha bisogno… Le acque, grazie al battesimo del nostro Salvatore, hanno ricevuto il dono di purificare corpo e anima”.
         L’omelia prosegue con il rapporto tra il battesimo e il mistero stesso della redenzione: Cristo viene al battesimo per essere tra gli uomini, in mezzo a loro: “Il Santo è venuto al battesimo senza averne bisogno; è venuto al Giordano, per essere in mezzo alla folla dei peccatori. Dio in mezzo agli uomini e non lontano da loro; il Giusto tra i peccatori; l’Altissimo in mezzo agli orgogliosi e non separato da loro”. E il testo prosegue elencando tutta una serie di fatti voluti dal Signore, presentati quasi in forma liturgica, parallela al testo della benedizione delle acque: “Tutto quello che (il Signore) vuole, lo ha fatto in cielo ed in terra: ha abitato in mezzo alle assemblee celesti… è disceso per abitare nel seno della Vergine e nato uomo… neonato, bambino, adolescente, sottomesso ai genitori… sceso nelle acque per santificare i peccatori… camminato sulle acque che lo sorreggono… Il raggio dell’essenza del Padre oggi è sceso nel grembo delle acque…”. E l’autore enumera, quasi contrapponendoli, una lunga serie di fatti che portano alla lode ed alla meraviglia di fronte a loro: “Di che cosa meravigliarsi? Del fatto che il Dio onnipotente nasca piccolo bambino, o del fatto che il Figlio dell’Altissimo sia annoverato tra i peccatori? Del fatto che abbia rivestito le membra (umane) nel seno della Vergine, o che oggi le onde del Giordano l’abbiano avvolto? Del fatto che i panni l’abbiano avvolto, oppure che oggi sia sceso nudo nelle acque?”. L’Epifania quindi come manifestazione della piena divinità di Cristo, corroborata dalla voce del Padre: “Fino ad oggi lui appariva schiavo della legge; oggi si manifesta come colui che scrisse la legge; oggi la voce del Padre lo proclama non schiavo ma libero… oggi si manifesta Figlio del Re”. L’autore infine paragona la discesa di Cristo nelle acque del Giordano al lavoro di una fonderia del ferro: “Lui è venuto a istallare una fonderia nelle acque, per mescolare lì e fondere lo Spirito col fuoco, ed impegnarsi a togliere la ruggine dei vecchi utensili, e rifondere in essi l’immagine che si era insudiciata… E per rinnovare quest’immagine Gesù mette la fornace nelle acque, e mescola lo Spirito ed il fuoco nel seno delle acque; il fuoco per purificare, lo Spirito per rafforzare”.



mercoledì 24 dicembre 2014

Quell’ecumenismo del sangue
A proposito della lettera ai cristiani del Medio Oriente, di papa Francesco
«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio…» (Is 40,1). Quasi a riecheggiare le parole del profeta e completarle con quelle dell’apostolo Paolo che chiama in causa il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo… Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione…» (2Cor 1,3), papa Francesco, alle porte del Natale 2014 indirizza una lettera ai cristiani che vivono nelle regioni del Medio Oriente. Cristiani che da anni, ma specialmente negli ultimi mesi vivono in una situazione di sofferenza, di esilio, di persecuzione, fino alla massima testimonianza, quella di versare il sangue per Cristo. Cristiani che versano il proprio sangue, la propria storia, la propria cultura cristiana in quelle terre del Medio Oriente, terre che sono le loro terre da quasi duemila anni. Papa Francesco, in modo lucido, coraggioso e allo stesso tempo paterno, si avvicina alla realtà sofferente di quelle terre e di quegli uomini e donne, che dovranno vivere ancora un Natale nella sofferenza e nella persecuzione, purtroppo tante volte ancora ignorata nell’indifferenza dall’Occidente. Francesco comunque annuncia il mistero della consolazione di Dio verso il suo popolo nella nascita del Figlio: “…ho pensato di scrivere a voi, fratelli cristiani del Medio Oriente. Lo faccio nell’imminenza del Santo Natale, sapendo che per molti di voi alle note dei canti natalizi si mescoleranno le lacrime e i sospiri. E tuttavia la nascita del Figlio di Dio nella nostra carne umana è ineffabile mistero di consolazione…”. E senza mezzi termini né imprecise allusioni, il papa fa riferimento al regime di terrore di portata mai immaginata prima, che si è istallato in quelle terre cristiane popolate lungo i secoli da tanti padri, monaci, cristiani che le avevano coltivate, curate ed amate fino all’estremo: “L’afflizione e la tribolazione non sono mancate purtroppo nel passato anche prossimo del Medio Oriente… …aggravate negli ultimi mesi a causa dei conflitti che tormentano la regione, ma soprattutto per l’operato di una più recente e preoccupante organizzazione terrorista, di dimensioni prima inimmaginabili, che commette ogni sorta di abusi e pratiche indegne dell’uomo, colpendo in modo particolare alcuni di voi che sono stati cacciati via in maniera brutale dalle proprie terre, dove i cristiani sono presenti fin dall’epoca apostolica”. Francesco fa riferimento di seguito alle realtà etniche e religiose non soltanto cristiane che vivono in quelle terre e che sono oggetto di persecuzioni e di atrocità umanamente senza paragone: “Nel rivolgermi a voi, non posso dimenticare anche altri gruppi religiosi ed etnici che pure subiscono la persecuzione e le conseguenze di tali conflitti. Seguo quotidianamente le notizie dell’enorme sofferenza di molte persone nel Medio Oriente”. E la voce del vescovo di Roma si alza per difendere quelli che sono i più deboli di fronte alla sofferenza: “Penso specialmente ai bambini, alle mamme, agli anziani, agli sfollati e ai rifugiati, a quanti patiscono la fame, a chi deve affrontare la durezza dell’inverno… Questa sofferenza grida verso Dio e fa appello all’impegno di tutti noi, nella preghiera e in ogni tipo di iniziativa”. Solidarietà di tutti verso quelle popolazioni con delle iniziative che portino a quei nostri fratelli la consolazione, il supporto, la libertà di agire, di vivere per quello che sono.
         Un paragrafo centrale della lettera diventa il nocciolo di tutto il messaggio, della parola veramente teologica del papa, cioè quasi la professione di fede di quello che è il fondamento della vita e della testimonianza cristiana: la fedeltà totale ed unica a Cristo, e fino al martirio. I cristiani in Oriente e dovunque, lungo la storia dal I al XX secolo, fino ai nostri giorni del XXI secolo, non hanno sofferto e non soffrono una persecuzione sanguinante a causa di eventuali rivoluzioni o di capovolgimenti sociopolitici, bensì a causa del nome e della persona di Gesù Cristo: “…fratelli e sorelle, che con coraggio rendete testimonianza a Gesù nella vostra terra benedetta dal Signore, la nostra consolazione e la nostra speranza è Cristo stesso. Vi incoraggio perciò a rimanere attaccati a Lui, come tralci alla vite, certi che né la tribolazione, né l’angoscia, né la persecuzione possono separarvi da Lui…”. La testimonianza dei martiri, è a Gesù Cristo che viene resa, lui è la loro e la nostra speranza; uniti fedelmente ed unicamente a Lui. Il martirio è anche esigenza per gli stessi cristiani di una vita cristiana più profonda, più fraterna e più autentica: “L’unità voluta dal nostro Signore è più che mai necessaria in questi momenti difficili; è un dono di Dio che interpella la nostra libertà e attende la nostra risposta. La Parola di Dio, i Sacramenti, la preghiera, la fraternità alimentino e rinnovino continuamente le vostre comunità”. E Francesco si ricorda dei fedeli delle diverse Chiese cristiane, vescovi, sacerdoti, uomini e donne, che hanno subito il martirio oppure sequestrati, messi a parte dalla memoria del mondo, quasi a farli cadere nell’oblio da tutto e da tutti: “Ricordo… pastori e i fedeli ai quali negli ultimi tempi è stato chiesto il sacrificio della vita, spesso per il solo fatto di essere cristiani. Penso anche alle persone sequestrate, tra cui alcuni Vescovi ortodossi e sacerdoti…”. Viene introdotto quindi il tema dell’ecumenismo del sangue, quasi che il dialogo fraterno tra le diverse Chiese cristiane venisse in qualche modo coagulato dal sangue dei martiri: “…la comunione vissuta tra di voi in fraternità e semplicità è segno del Regno di Dio”. E il papa si rallegra dalla collaborazione tra i pastori delle diverse Chiese Orientali cattoliche e ortodosse, ed anche tra i fedeli. “Le sofferenze patite dai cristiani portano un contributo inestimabile alla causa dell’unità. E’ l’ecumenismo del sangue, che richiede fiducioso abbandono all’azione dello Spirito Santo”.
         E Francesco introduce un altro aspetto della drammatica vicenda, uno forse tra i più difficili di affrontare: il vincere la tentazione di fuggire, di emigrare, cioè l’esortazione del papa a rimanere in quelle terre martoriate, devastate, ma che sono cristiane da due mila anni; rimanere lì, certo tra le rovine delle case, delle chiese, dei monasteri, ma fermi nella speranza. Una speranza ed un coraggio richiesti malgrado le pietre fumanti ovunque, le icone bruciate, le ceneri delle biblioteche e dei manoscritti che tramandavano il canto di lode e di speranza dei santi Padri.
         Francesco ancora esorta al dialogo con tutti, nell’esigenza di una chiara condanna di una violenza ingiustificabile: “La situazione drammatica che vivono i nostri fratelli cristiani in Iraq, ma anche gli yazidi e gli appartenenti ad altre comunità religiose ed etniche, esige una presa di posizione chiara e coraggiosa da parte di tutti i responsabili religiosi, per condannare in modo unanime e senza alcuna ambiguità tali crimini e denunciare la pratica di invocare la religione per giustificarli”. Nell’ultima parte della sua lettera, Francesco esorta i cristiani di quelle terre ad evitare la tentazione del disinteresse verso un impegno nella vita pubblica, e a vivere come cristiani nello spirito delle Beatitudini evangeliche: “Nella regione siete chiamati ad essere artefici di pace, di riconciliazione e di sviluppo, a promuovere il dialogo, a costruire ponti… a proclamare il vangelo della pace…”.
         Il papa infine si trattiene ad elencare tutti coloro che nella Chiesa si impegnano, senza fuggire, nel servizio della carità. E indirizzandosi ai giovani, gli esorta con le belle parole di Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica sul Medio Oriente: “Desidero esprimere in modo particolare la mia stima e la mia gratitudine a voi, carissimi fratelli Patriarchi, Vescovi, Sacerdoti… che accompagnate con sollecitudine il cammino delle vostre comunità… . Quant’è preziosa la presenza e l’attività di chi si è consacrato totalmente al Signore e lo serve nei fratelli, soprattutto i più bisognosi… Com’è importante la presenza dei Pastori accanto al loro gregge… A voi, giovani… vi ripeto: «Non abbiate paura o vergogna di essere cristiani. La relazione con Gesù vi renderà disponibili a collaborare senza riserve con i vostri concittadini, qualunque sia la loro appartenenza religiosa» (Benedetto XVI, Esort. ap. Ecclesia in Medio Oriente, 63).
         A conclusione della lettera, e come nei suoi interventi precedenti, Francesco si indirizza anche alla comunità internazionale con una parola coraggiosa e di denuncia: “…continuo a esortare la Comunità internazionale a venire incontro ai vostri bisogni e a quelli delle altre minoranze che soffrono; in primo luogo, promuovendo la pace mediante il negoziato e il lavoro diplomatico… Ribadisco la più ferma deprecazione dei traffici di armi. Abbiamo piuttosto bisogno di progetti e iniziative di pace, per promuovere una soluzione globale ai problemi della Regione. Per quanto tempo dovrà soffrire ancora il Medio Oriente per la mancanza di pace?...”.

         Nei giorni del Natale, tanti cristiani nel Medio Oriente, con la lingua dei loro Padri, canteranno con Efrem il Siro, e noi con loro nella solidarietà, nel non oblio e la non indifferenza verso il loro martirio: “Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare Betlemme. Benedetto il bimbo, che oggi ha ringiovanito l’umanità. Benedetto il frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. Benedetto il buono che in un istante ha arricchito la nostra povertà…”.

lunedì 22 dicembre 2014

Nella tradizione degli inni sul Natale, attribuiti a Sant’Efrem il Siro
Benedetto il coltivatore diventato chicco seminato…
          La collezione dei ventotto inni di sant’Efrem il Siro sulla Natività del Signore contiene dei testi di indubbia autorità efremiana, soprattutto dal quinto al ventesimo, ed altri a lui attribuiti dalla tradizione manoscritta. Uno di questi poemi teologici della tradizione siriaca del IV secolo, è il terzo inno della collezione di Efrem, un testo di 22 strofe di sei versetti ognuna. Si tratta di un inno in ci l’autore, con delle forme dossologiche e di benedizione, canta il mistero dell’incarnazione del Verbo e Figlio di Dio: “Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare Betlemme. Benedetto il bimbo, che oggi ha ringiovanito l’umanità. Benedetto il frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. Benedetto il buono che in un istante ha arricchito la nostra povertà…”. Dalle prime strofe l’autore riassume l’opera redentrice di Cristo portata a termine nel mistero della sua stessa incarnazione: “Siano rese grazie alla fonte inviata per la nostra propiziazione. Siano rese grazie a colui che congedò il sabato compiendolo. Siano rese grazie a colui che sgridò la lebbra… anche la febbre lo vide e fuggì… Gloria alla tua venuta che ha riportato alla vita gli uomini”. In due delle prime strofe l’autore loda Dio Padre che per mezzo del Figlio diventa vicino, manifesto, tangibile all’uomo: “Gloria a Colui che è venuto presso di noi mediante il suo primogenito. Gloria a quel Silente che ha parlato mediante la sua voce. Gloria a quello Spirituale compiaciutosi che divenisse corpo il proprio figlio, affinché, mediante esso la sua potenza diventasse tangibile, e grazie a quel corpo potessero vivere i corpi della sua stessa stirpe”. La grandezza, l’invisibilità, il non poter essere toccato di Dio Padre, diventano realtà umane nell’incarnazione e la nascita del Figlio: “Gloria all’Invisibile, il cui figlio diventa visibile. Gloria al Vivente, il cui figlio morì. Gloria al Grande il cui figlio scese e si rimpicciolì…”.
          L’imperscrutabilità del mistero di Dio, nell’incarnazione del Verbo diventa comprensibile e percepibile; l’autore in qualche modo canta la nascita di Cristo come il suo lasciarsi circoscrivere, toccare dall’uomo, fino ad arrivare alla crocifissione, momento della massima umiliazione del Verbo fatto carne: “Gloria all’Invisibile… che non può essere minimamente toccato… ma fu toccato, per sua grazia, in virtù della sua umanità. La natura che mai fi toccata, fu legata e avvinta per le mani, trafitta e crocifissa per i piedi. Volontariamente prese un corpo per coloro che lo afferrarono”. E il teologo poeta continua la sua meditazione della crocefissione e morte di Cristo: “Benedetto colui che la nostra libertà ha potuto crocifiggere poiché egli l’ha concesso. Benedetto colui che anche il legno ha portato perché egli gliel’ha permesso. Benedetto colui che anche il sepolcro ha potuto rinchiudere perché egli si è circoscritto”.
          L’autore sottolinea ancora come grazie all’incarnazione di Cristo, l’umanità è redenta e fatta degna di Dio; nel testo vengono usate delle immagini tipiche della cristologia di tradizione siriaca, come le nozze, la tenda, la cetra per il canto: “Benedetto, lui che ha segnato la nostra anima, l’ha adornata e l’ha sposata a sé. Benedetto, lui che ha fatto del nostro corpo una tenda della sua invisibilità… Siano rese grazie a quella voce, di cui è cantata la gloria sulla nostra cetra, e la potenza sulla nostra arpa”. La redenzione di Cristo quindi diventa la conseguenza della sua incarnazione: “Gloria al figlio del Giusto, crocifissi dagli empi. Gloria a colui che ci ha slegati ed è stato legato al nostro posto… Gloria al bello che ci ha modellati a sua somiglianza. Gloria al limpido che non ha guardato alle nostre macchie.”.
          Troviamo lungo il poema diversi riferimenti all’eucaristia, dove il poeta adopera delle immagini molto belle come quella del pastore, del tralcio, del grappolo, che gli servono per collegare i Santi Doni al mistero dell’incarnazione: “Gloria al celeste il cui corpo è divenuto pane per dar vita alla nostra mortalità… Benedetto il pastore divenuto agnello per la nostra redenzione. Benedetto il tralcio divenuto coppa della nostra salvezza. Benedetto il grappolo, fonte del farmaco della vita. Benedetto il coltivatore, diventato il chicco seminato e il covone mietuto, l’architetto fattosi per noi torre di rifugio”. Due volte ancora l’autore si serve dell’immagine dell’innesto per cantare il farsi presente, l’incarnarsi di Dio nella vita dell’uomo: “Adoriamo colui che ha tracciato nel nostri udito un sentiero per le sue parole. Rendiamo grazie a colui che ha innestato il suo frutto nel nostro albero… Il suo frutto si è unito alla nostra umanità, affinché mediante esso fossimo attratti verso colui che si è piegato verso di noi”.

          La grandezza di Dio, quindi, si manifesta pienamente nella sua piccolezza, nel suo abbassarsi fino alla condizione umana: “Gloria a colui che mai poté essere misurato da noi… Gloria a colui che sa tutto e che si è sottomesso a domandare, per ascoltare, e apprendere ciò che già sapeva, per rivelare, con le sue domande, il tesoro dei suoi doni”. In una delle ultime strofe l’autore introduce l’immagine di Cristo come medico e la sua nascita come farmaco di vita per gli uomini: “Benedetto il medico sceso per un’incisione senza dolore… la sua nascita è il farmaco che ha clemenza dei peccatori…”. L’inno si conclude con la confessione della piccolezza dell’uomo nella lode di Dio: “Sia benedetto colui che la nostra bocca non è all’altezza di rendergli grazie… neppure alla sua bontà. Mare di gloria, che non manchi di nulla, accogli nella tua bontà una goccia di rendimento di grazie, di cui, per tuo dono, è umettata la mia lingua per renderti grazie”.


giovedì 18 dicembre 2014

A proposito di due inni di Sant’Efrem il Siro sul Natale
È entrato eccelso ed è uscito umile
          La collezione di inni di sant’Efrem il Siro sulla Natività del Signore contiene 28 poemi. Due di essi, il X e XI, sono dei testi assai brevi con dodici strofe il primo ed otto il secondo, che snodano in modo particolare e con delle immagini simboliche specialmente ricercate e belle, il tema dell’incarnazione del Verbo di Dio.
          Il primo dei due inni, il decimo della collezione, canta il mistero della redenzione adoperata da Cristo dalla sua incarnazione alla sua risurrezione, e lo fa a partire dal parallelo tra il grembo verginale (custodito) di Maria, e la tomba di Cristo sigillata (custodita) anche essa. Efrem inizia il canto con un argomento a lui caro, e che troviamo presente in diversi degli inni di questa collezione sul Natale: le nenie cantate da Maria a suo Figlio, messe in parallelo a quelle cantate dalle madri dei patriarchi dell’antico testamento: “Lia e Rachele, Zilpa e Bila, quando cantavano nenie ai desiderati, ai dodici che avevano partorito, cosa di uomini erano le loro nenie. Cosa della divina signoria sono le tue nenie, o Signore dei tuoi fratelli”. Dalla seconda strofa in poi Efrem introduce ed sviluppa l’immagine del sepolcro sigillato da coloro che seppellirono Cristo: “…sigillato essi ti posero: sigillarono la pietra e posero la guardia. Fu a tuo vantaggio che sigillarono il tuo sepolcro, o Figlio del Vivente”. Il sepolcro sigillato diventa una testimonianza del fatto che non ci fu nessun furto del corpo di Gesù da parte di nessuno: “Dopo averti seppellito… ci sarebbe stato spazio per affermare falsamente che ti avevano rubato. O onnivivificante, con l’astuzia del sigillo del tuo sepolcro accrebbero la tua gloria!”. Daniele il profeta e Lazzaro l’amico di Cristo vengono messi in parallelo da Efrem, a partire dalla loro permanenza nella fossa dei leoni sigillata il primo e nella tomba suggellata il secondo, e così diventano tipo di Cristo stesso chiuso anche lui nel grembo di Maria e nel sepolcro: “Di te fu tipo sia Daniele che Lazzaro, l’uno nella fossa che i popoli sigillarono, e l’altro nella tomba che il popolo aprì…”. Inoltre Daniele nella fossa dei leoni è tipo di Cristo nel grembo di Maria; il grembo ed il sepolcro di Cristo testimoniano sia la sua vera incarnazione che la sua risurrezione: “Con la tua risurrezione tu li hai convinti della tua nascita, perché sigillata era la fossa e suggellato era il sepolcro… tuoi testimoni furono la fossa e il sepolcro sigillati”. Quindi il ruolo del grembo e del sepolcro è simile in quanto ambedue hanno generato Cristo alla vita. Ambedue hanno come ruolo quello di concepire e partorire: “Il grembo ti ha concepito, lui che era sigillato; lo sheol ti ha partorito, lui che era suggellato. Fuori dall’ordine naturale il grembo concepì e lo sheol ridiede… Sigillato era il sepolcro che custodiva il morto. Vergine era il grembo, che nessun uomo aveva conosciuto…”. Attraverso l’incarnazione e la nascita verginale di Cristo, e la sua risurrezione dai morti, Efrem sottolinea ancora la vera natura divina di Cristo: “Il grembo sigillato e la pietra suggellata… hanno confutato e persuaso che tu sei celeste”. Nascita e risurrezione di Cristo, quindi sono segno di contradizione e allo stesso tempo ne testimoniano la sua vera divinità: “Il popolo stava tra la tua nascita e la tua risurrezione. Calunniava la tua nascita? La tua morte lo biasimava. Scioglieva la tua risurrezione? La tua nascita lo confutava. Due atleti colpivano la bocca calunniatrice”.
          Il secondo degli inni, undecimo della collezione, e più breve dal precedente, soltanto otto strofe, e sviluppa parallelamente il tema dell’incarnazione del Verbo di Dio e quello della divina maternità di Maria, misteri che per Efrem rimarranno sempre incomprensibili alla mente umana: “La madre tua, Signore, nessuno sa come chiamarla. Se la chiama «vergine», il figlio si alza; se «maritata», nessun uomo l’ha conosciuta. E se la madre tua è incomprensibile, comprendere te, chi sarà in grado?”. Efrem dà a Maria in questo inno gli appellativi di madre, sorella, sposa e vergine: “Ella è tua madre e tua sorella, e anche sposa…, sposa secondo natura, prima della tua venuta… concepì fuori dall’ordine naturale… ed era vergine quando ti partorì santamente…”. La maternità di Maria serve ad Efrem per mettere chiaramente in luce la vera incarnazione del Verbo di Dio: “Se lei ti poteva dare cibo, era perché tu avevi fame. Se poteva darti da bere, era perché avevi voluto aver sete. Se lei ti poteva abbracciare, era perché il carbone ardente d’amore custodiva il suo grembo”. Notiamo che la tradizione liturgica siriaca chiamerà il corpo di Cristo sull’altare col titolo di «brace o carbone ardente». Infine nelle ultime tre strofe Efrem riprenderà delle belle immagini cristologiche proposte per via di contrasto: “Egli è entrato in lei Signore ed è divenuto servo. È entrato eloquente… è entrato in lei tuono e la sua voce si è fatta silente. È entrato in lei pastore dell’universo, ed è diventato in lei agnello… è entrato ricco ed è uscito povero… è entrato eccelso ed è uscito umile… Nudo e spoglio è uscito da lì, colui che veste tutti”.



giovedì 4 dicembre 2014


(Annunciazione e Madre di Dio. Dittico etiopico in pietra e legno, XIX secolo)
Una terra vergine aveva partorito Adamo, capo della terra.
Una Vergine oggi ha partorito l’Adamo capo del cielo.
I vigilanti oggi sono nella gioia, poiché è venuto il Vigilante a svegliarci.
Chi dormirà in questa notte nella quale veglia l’intera creazione?
 (Efrem il Siro. Inno I sulla Natività)

Vi auguro a tutti un Santo Natale.

Arch. P. Manuel Nin osb, Rettore
Pontificio Collegio Greco

Roma, Natale 2014

lunedì 1 dicembre 2014

San Saba, l’uomo santificato
Uomo di comunione con Dio e con i fratelli
          Il beato papa Paolo VI tra il 1964 e 1965 compì due gesti profetici nel rapporto con le Chiese ortodosse di tradizione bizantina: la restituzione (potremmo dire la traslatio) delle reliquie di sant’Andrea apostolo a Patrasso e del monaco san Saba al monastero che porta il suo nome nel deserto presso Betlemme. Nel 2004 san Giovanni Paolo II restituiva alla sede patriarcale di Costantinopoli, nelle mani del patriarca ecumenico Bartolomeo I, le reliquie di san Gregorio di Nazianzo e san Giovanni Crisostomo. Gli Apostoli e i Padri venerati nelle loro reliquie che diventano testimoni, martiri del cammino verso la piena comunione tra le Chiese cristiane di Oriente ed Occidente.
          La figura del monaco san Saba (+532) è molto venerata in Oriente ed è una delle personalità più importanti nello sviluppo del monachesimo nella Palestina. Nato in Cappadocia verso il 439, inizia nella Palestina un percorso di vita monastica che va dal cenobitismo all’eremitismo. Verso il 478 fonda la Grande Laura, centro monastico destinato a svolgere un ruolo importante nello sviluppo del monachesimo della regione e nella fedeltà alla confessione cristologica calcedoniana. Saba muore il 5 dicembre del 532, data della sua festa nel calendario bizantino. I testi dell’ufficiatura della festa mettono in risalto alcuni aspetti della vita di san Saba, aspetti che diventano quasi l’icona del monaco e di ogni cristiano. La vita di Saba come monaco e padre di monaci si fa presente nei testi liturgici con due immagini che lo cantano come abitante e come colonizzatore del deserto: “Hai fatto del deserto una città dove si vive se­condo sapienza, o splendore dei padri, Saba, padre no­stro di mente divina, e lo hai reso paradiso spirituale, co­per­to di fiori divini: la molti­tu­dine dei monaci…”. La vita di san Saba come monaco e padre di monaci, ne fa un uomo di comunione col cielo e con le schiere celesti e quindi uomo di intercessione: “Saba di mente divina, simile agli angeli, compagno dei santi, consorte dei profeti, coe­rede dei martiri e degli apostoli, ora che abiti la luce senza tramonto… sup­plica Cristo… perché siano donate alla Chiesa la con­cordia, la pace e la grande misericordia”. La stessa vita di Saba come monaco ne fa anche un uomo di comunione con i monaci, con gli uomini. Per loro diventa modello ed esempio: “Saba beatissimo, lampada inestinguibile della con­ti­nenza, tersissimo luminare dei monaci, ri­splen­dente per i fulgori della carità, torre inconcussa della pa­zien­za… te­so­ro di guarigioni, vero colonizzatore del deserto… torcia che sorge sul mare del mondo, per guidare i popoli al porto divino… gui­da dei monaci… implora Cristo, per­ché siano donate alla Chiesa la concordia, la pace e la grande misericordia”. Questi due aspetti saranno, nella tradizione monastica cristiana due pilastri dell’essere e vivere come monaco: la comunione con Dio e con gli uomini.
          Nei testi liturgici della festa, la vita monastica è presentata quasi come una nuova nascita, e riprendendo Genesi 1,26 come una nuova creazione. Uno dei tropari infatti canta Saba come monaco / uomo nuovo, integro nell’immagine e ricreato nella somiglianza di Dio, pervenuto alla contemplazione della Trinità: “Custodita illesa in te l’immagine di Dio, ma reso l’intelletto signore delle passioni…, mediante l’ascesi hai rag­giunto per quanto possibile la somi­glianza: poiché, fa­cendo coraggiosamente violenza alla natura, ha assoggettato la carne allo spirito. Sei così divenuto eccelso fra i monaci, colonizzatore del deserto, allenatore di quelli che com­pio­no bene la corsa… E ora nei cieli, venuti meno ormai gli specchi, contempli puramente la santa Trinità…”.
          Altri testi presentano Saba, e ogni monaco, con l’immagine del carbone ardente, acceso dallo Spirito Santo e quindi diventato teoforo, ricettacolo del dono di Dio: “Ti sei mostrato al mondo quale carbone divinamente splen­dente, per essere stato a contatto col fuoco, o Saba, teoforo dello Spirito, facendo risplendere le anime di quan­ti con fede a te si accostano… gui­dan­­doli alla luce senza tramonto…”. Saba è quindi portatore di Dio e pienamente configurato con Cristo che raggiunge, con l’immagine della scala di Giacobbe, nella salita della vita ascetica: “La tua vita è stata chiaramente una scala che raggiunge il cielo, o uomo di mente divina: e con essa ti sei sollevato alle altezze, e hai ottenuto di unirti al Cristo sovrano, o bea­tissimo, con l’intelletto risplen­dente per i fulgori che da lui promanano; illuminato dai suoi bagliori, hai ricevuto lo stesso splendore degli angeli…”. Il dono delle lacrime nella compunzione, diventa fonte di fertilità per il deserto; questo è uno degli aspetti che troviamo presenti nei testi di tradizione monastica; ed il tropario della festa di san Saba ne è un bel esempio: “Con lo scorrere delle tue lacrime, hai reso fertile la sterilità del deserto; e con gemiti dal pro­fondo, hai fatto fruttare al centuplo le tue fatiche, e sei divenuto un astro che risplende su tutta la terra…”.

          San Saba abitante e colonizzatore del deserto, configurato col Cristo, intercessore presso Cristo. Icona di san Saba che la tradizione bizantina ci disegna nell’innografia liturgica con delle immagini –servitore, compagno, consorte- che indicano la piena parresia con le realtà del cielo: “Noi, folle di monaci, ti onoriamo come guida, padre nostro Saba, perché grazie a te abbiamo imparato a cam­minare per la via veramente retta. Beato sei tu che hai servito Cristo, diventato com­pagno degli angeli, consorte dei santi e dei giusti…”. 
Icona di San Saba. XX secolo

Monastero della Laura di San Saba, Palestina