sabato 16 luglio 2016

         Venerdì 15 luglio. Ieri sera un nuovo attentato terrorista a Nizza in Francia. Un grosso tir si è abbattuto sulla folla che festeggiava il 14 luglio, festa nazionale in Francia. Sembra che non ci sono dubbi sulla natura terroristica islamica dei fatti. Un’ottantina di morti e tantissimi feriti. Siamo di fronte ad un nuovo e terribile fatto di una guerra ormai non più nel sottosuolo del terzo mondo neppure nel sottovoce del commercio delle armi, ma nel bel mezzo della vecchia Europa, nel cuore di colei che a nome di un dialogo, di un’amicizia fraterna non ha saputo avere gli occhi aperti di fronte non dico ad una religione (perché forse di religione non si tratta), ma di fronte ad una ideologia che non soltanto spinge alla distruzione e alla morte, ma che pretende di premiare coloro che ci riescono. E insisto che non siamo di fronte a una guerra di religione, ma ad una guerra di ideologie, guerra di potere che coinvolge da una parte una posizione socio politica ed economica che si vuole agnostica, nel libero pensiero debole, e dei gruppi islamici dall’altra, gruppi costituiti pure loro in stato, in potere, in mosse economiche e strategiche che hanno perso di vista quello che di più sacro c’è, cioè la vita umana. Dico che da una parte siamo di fronte ad una posizione politica agnostica perché di pensiero cristiano non si tratta, ma di una situazione di mancanza di perno di pensiero umano e spirituale, a nome di una libertà e di una tolleranza, che dall’altra parte non è contemplata in modo più assoluto. Un’Europa stanca, invecchiata in tutti gli ambiti della sua vita, che non genera né vita né pensiero né speranza. Volendo o no, la memoria va a dieci anni fa in quel settembre 2006 e alle parole (illuminate!? profetiche!?) di Benedetto XVI, di quell’anziano professore che di nuovo dalla sua cattedra “leggeva” il pensiero medievale (ma attuale come non mai!) e lo faceva da storico lucido per quello che era accaduto e poteva accadere nella storia; da teologo che sapeva portare la Parola incarnata e crocefissa in un primo piano ormai quasi sconosciuto e sicuramente incomodo a molti; da pastore che vegliava attentamente sul suo gregge, sulla sua vigna che la mano del Signore aveva piantata.
Superata (forse!) una ideologia, una situazione di neo manicheismo che per decenni nel secolo scorso divideva (uso questa parola in piena consapevolezza!) la società, la Chiesa, il pensiero europeo in due fazioni opposte tra buoni e cattivi, tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, tra un “prima” che si demonizzava ed un “dopo” che quasi si divinizzava, ideologia (per qualcuno quasi vangelo fosse!) che serpeggiava durante il xx secolo e fatta bandiera dal pensiero marxista che l’aveva messa come linfa vitale del suo agire… Ideologia che noi cristiani non possiamo metterla nuovamente nel nostro foglio di rota, benché la tentazione c’è e come!
“Noi che sempre abbiamo voluto dialogare… Noi che sempre abbiamo accolto… Noi che siamo sempre disposti ad aiutare, accogliere, rinunciare per… Noi che abbiamo voluto vivere e vogliamo ancora vivere il Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo”… Ci accorgiamo che per noi questo “noi” esiste e deve esistere, ma i fatti come quello di oggi a modo di “shock” ci fanno diventare consapevoli che di fronte al “noi” un “voi” non esiste, non è contemplato.
         Vedere le immagini di quel tir che falciava vite umane, vite giovani e vecchie che festeggiavano una rivoluzione di più di duecento anni fa, e che si sono trovate tagliate dalla gioia e dalla vita a causa di un’altra pseudo rivoluzione che non porta nessun cambiamento ma un semplice ribaltamento (sicuramente neanche!) pure lui neo manicheo, vedere quelle immagini, vedere la bambina morta con la bambola accanto, come l’immagine del bambino annegato sulla spiaggia di qualche mese fa, immagini che rimbalzano sulle reti sociali, toccano sicuramente anzi scuotono. Ma che debbono riportarci all’icona, l’unica forse, del Verbo di Dio incarnato, crocefisso, morto e risorto.
         Il perdono è Vangelo, e lo deve essere nella nostra (non ideologia ma vita!), perdono che va rinnovato ogni giorno fino a sette, settanta volte sette… sempre. Questa è la nostra (apparente) debolezza ma (sicuramente) la nostra forza. Ma (è pure Vangelo!) semplici come le colombe, svegli come i serpenti. Dal Signore appeso alla croce e risorto dai morti, ai primi martiri, ai martiri cristiani di sempre per i quali non ci sono stati mai dei buoni e cattivi, per i quali non c’è un “prima” e un “dopo” ma unicamente Colui che è ieri, ora e sempre.



sabato 23 aprile 2016

Ordinazione episcopale a San Paolo fuori le mura, 15 aprile 2016
Saluto finale e ringraziamento.
Cristo,j avne,sth!
Eminenze, cari fratelli nell’episcopato, padri abati, monaci, sacerdoti, diaconi, seminaristi, fratelli e sorelle. Alla fine di questa bellissima celebrazione dei Santi Misteri, in cui per l’imposizione delle mani del fratello vescovo Demetrio e degli altri arcivescovi e vescovi concelebranti, e per l’invocazione della “Grazia Divina che guarisce le nostre debolezze…”, sono stato ordinato vescovo nella successione apostolica, in questa basilica romana e toccando questo santo altare che si trova sopra il sepolcro del beato Paolo, l’apostolo delle genti, che annunciò il Cristo risorto, Vivente e Vivificante, e lo annunciò da Oriente ad Occidente, da Damasco a Gerusalemme, ad Atene e a Roma, arrivando fino all’allora lontana la nostra Tarraco. Alla fine di questa celebrazione quindi voglio ringraziare il nostro unico e vero Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che nel suo grande amore per gli uomini ci ha salvati e continua ad amarci e salvarci.
Uno dei Padri della Chiesa a me più cari: Sant’Efrem di Nisibi in uno dei suoi inni, parlando al suo vescovo, gli dice: Nella tua persona il Maestro si fa presente: tu innalzi i suoi tratti! Vorrei che questo fosse il programma del mio servizio episcopale nell’Esarcato Apostolico per i cattolici di tradizione bizantina in Grecia: innalzare (mettere in alto, in primo piano, far presenti…) i tratti del Signore, del Maestro in me stesso, e questo per mezzo della sua Parola, dei sacramenti e della carità. Far presente alla mia Chiesa e nella mia Chiesa che è in Grecia quei tratti che sono quelli del mio Maestro, del mio Signore Cristo. Il suo Vangelo, la sua Parola di amore, di perdono, di salvezza, di vita nuova. Una Parola delle volte affilata come una spada a doppio taglio. Una Parola delle volte consolante come un padre che esce all’incontro del figlio prodigo che ritorna a casa. Una Parola che tante volte mette a nudo quello che c’è nei nostri cuori. Una Parola che non si stanca mai di perdonare fino a settanta volte sette. Una Parola che sempre è la Parola della Croce, della Croce di Cristo. Per questo, l’avete visto, ho voluto mettere il lemma dello stemma episcopale in questa Parola: “il Verbo si è fatto carne… ov Lo,goj sa,rx evge,neto”. Il Verbo, la Parola che si è incarnata. Una Parola vissuta nell’ascolto del Vangelo, nella vita di grazia attraverso i sacramenti della Chiesa, attraverso i fratelli, pure loro sacramenti del Signore incarnato e vivente. E per questo che chiedo al Signore che mi dia di essere e fare il vescovo nel confermare la fede dei fratelli. Nel condividere le gioie e le speranze degli uomini, le tristezze e le sofferenze degli uomini. Nel presiedere nella carità; un presiedere nel senso monastico: quel prodesse magis quam praeesse della RB che è di più un servizio che un onore. Nell’essere esempio di carità. Nel vivere la carità. Buon pastore e medico. Nella consapevolezza dei propri peccati che ti fa disponibile verso la misericordia. Servizio del vescovo come “liturgo”, come colui che invoca lo Spirito Santo, che fa l’epiclesi sui santi doni, sulla Chiesa. “…innalzare, dipingere, in me stesso e negli altri i tratti del Maestro”.
In questo momento, sotto lo sguardo unico del Signore nella maestà di questo bellissimo mosaico, sento la fiducia in Lui, il Signore, che guida la nostra vita, ogni giorno, ogni istante. In tutto quello a cui Lui ci chiama. Ed è in profondo atteggiamento di fede che ho accettato questo nuovo incarico, episcopale, che mi è stato affidato, in cui oggi sono stato consacrato.
Ringrazio sua Santità papa Francesco, per la sua fiducia verso la mia persona. La mia risposta è stata libera, ma fatta in spirito di ubbidienza alla volontà del Signore che si manifesta attraverso le decisioni di coloro che da Lui stesso sono stati messi a guida della Chiesa. Ringrazio sua eminenza il cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, sua eccellenza Cyril Vasil’ arcivescovo segretario e p. Lorenzo Lorusso OP, sottosegretario. Saluto gli altri ufficiali e impiegati della Congregazione
Un saluto fraterno e cordiale ai vescovi orientali e latini che avete voluto concelebrare questi Santi Misteri. Saluto le loro eminenze i cardinali Michael Harvey, arciprete di questa basilica, e Lluis Martinez Sistach, arcivescovo emerito di Barcelona che il 18 aprile di diciotto anni fa mi ordinò sacerdote a Montserrat.
Guardando la Grecia, saluto il fratello vescovo Demetrio Salachas, mio predecessore all’Esarcato Apostolico, mio ordinante e, posso dirlo, mio bastone e vincastro nei miei primi pasi nel servizio episcopale all’Esarcato. Saluto i miei fratelli vescovi delle diverse diocesi della Grecia, in modo speciale mio fratello Sebastiano Rosolatos, arcivescovo dei cattolici di Atene, e pure lui uno dei tre vescovi ordinanti. Χαιρετίζω τòν Πατέρα Άθανάσιο καì όλους όσοι ηλθαν εκπροσωπωντας την Αποστολικη Εξαρχια, απο την Ελλαδα. Σημερα, απο εδω, τη Ρωμη, η ευλογια μου και η προσευχη μου στους ιερεις της Εξαρχιας, στις μοναχες, στους ασθενεις, στους ηλικιωμενους, στους νεους, σε ολους τους πιστους: ελληνες, ουκρανους, χαλδαιους. Σε σας ολους που αναγγελλετε την πιστη σας στον Ανασταντα Χριστο μεσα στον υπεροχο καθεδρικο ναο της Αγιας Τριαδος.
Saluto il fratello vescovo Donato di Lungro, ordinante pure lui e tutti gli altri vescovi venuti da tante parti dell’Europa.
Guardando ad Occidente ringrazio i diversi vescovi latini venuti alla celebrazione. In modo speciale Jaume Pujol, arcivescovo metropolita di Tarragona e primate, amico e testimone delle mie terre native e testimonianza paolina privilegiata. Saluto mons. Joan Enric Vives, arcivescovo de la Sèu d’Urgell. Mons. Piero Marini, Francesco Brugnaro. E gli altri vescovi di tradizione latina.
Saluto e ringrazio i rappresentanti dei diversi organismi della Santa Sede e della curia romana con cui ho collaborato in questi anni romani. Mons. Guido Marini e l’ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice. L’OR col suo direttore prof. Giovanni Maria Vian, che mi ha aperto sempre le pagine del quotidiano della Santa Sede per far conoscere le ricchezze teologiche-liturgiche-spirituali dell’Oriente cristiano.
Saluto gli abati e i monaci benedettini. L’abate Primate Notker Wolf, Procuratore Apostolico del Pontificio Collegio Greco. L’abate Bruno Marin, Presidente della Congregazione di Subiaco Montecassino. Un ringraziamento speciale al p. Abate Roberto di San Paolo e alla sua comunità per la sua accoglienza veramente benedettina in questa basilica e in questa abazia. Saluto il P. Lamberto Vos priore del monastero di Chevetogne, grazie per la tua presenza in questa celebrazione, ed anche in Collegio Greco in questi anni. Saluto gli altri abati benedettini e monaci delle diverse comunità italiane e europee che avete fatto lo sforzo di affrontare un viaggio per pregare insieme questa mattina romana. Saluto il p. priore del monastero di Grottaferrata.
Salutando i confratelli benedettini il mio pensiero ed il mio cuore va a Montserrat. La presenza del P. Abate Josep M, e dei pp: Ignasi M, Ramon, Josep Enric, Jordi Agusti, Gabriel, Bernat e Anton, mi spinge a un grande grazie per la vostra paternità ed amicizia fraterna mostratemi in questi anni, ormai quaranta di vita monastica, paternità ed amicizia salde nei momenti di gioia e di sofferenza, di peccato e di grazia. Sento e vedo lo sguardo sorridente, la protezione e l’intercessione della Santissima Madre di Dio e sempre vergine Maria, la Moreneta; questo sguardo sono sicuro che continuerà a guardarmi e a proteggermi fino ad Atene. È a Montserrat, già nei primi anni, dove ho conosciuto ed amato l’Oriente cristiano, nello studio delle lingue antiche, nella lettura dei Padri. Montserrat è una delle colonne su cui ha poggiato e poggia la mia vita, per questo ho voluto dire queste parole in italiano affinché fossero da tutti capite. Anche il dono del pastorale fatto dal p. Abate Josep M., e dei confratelli ha questa simbologia
L’altra colonna della mia vita è Roma. La terza, ne sono sicuro, sarà la Grecia! E a Roma in modo speciale il PCG, dove ho abitato per ben 20 anni. Non è facile dire arrivederci al PCG. Ringrazio il Signore per questa realtà romana, tra le più antiche e venerabili dell’urbe. Ringrazio p. Giovanni. D. Natale, i seminaristi. Le suore di don Daste, mons. Michel Berger i gli impiegati della casa. Nel ricordo del servizio prestato anche dalle Piccole Operaie dei Sacri Cuori. Ricordo p. Lanne, e in modo speciale p. Olivier Raquez, da cui ho imparato quel suo “savoir faire” sano, sereno e responsabile nella conduzione della vita del Collegio. Saluto anche la comunità di Sant’Atanasio, nel ricordo di mons. Eleuterio Fortino.
Grazie al numeroso gruppo di sacerdoti orientali e latini venuti da tanti luoghi dell’Europa: Grecia, Lungro, Piana degli Albanesi, Ungheria, Ucraina, Romania, Terra Santa ed il Prossimo Oriente, Bulgaria, Spagna, Serbia. Un grande grazie!
Saluto i Rettori dei Collegi Orientali e latini di Roma, con i numerosi loro studenti.
Ringrazio i rappresentanti delle università pontificie romane con cui ho collaborato -e mi auguro di poter continuare a collaborare in qualche modo: Sant’Anselmo, ateneo e collegio benedettino, prima residenza romana, dove poi ho iniziato la mia vita come professore. La Pontificia Università della Santa Croce ed il Pontificio Istituto Orientale. Ringrazio i tantissimi professori e studenti oggi qui presenti in questa celebrazione.
Saludo al excelentisimo sr. Eduardo Gutierrez Saenz de Buruaga, embajador de España ante la Santa Sede. Gracias por el interés con el que siempre ha seguido la vida del PCG. Un saluto anche agli altri ambasciatori -della Bulgaria e dell’Ordine di Malta presso la Santa Sede- e gli altri membri del corpo diplomatico che siete presenti in questa celebrazione.
Una salutaciò especial per al molt horonable Sr. Oriol Junqueras, vicepresident del Govern i conseller d’Economia i Hisenda de la Generalitat de Catalunya, amb la delegaciò que l’acompanya.
Gracias a los sacerdotes y amigos venidos desde diversas partes de la peninsula: Madrid, Salamanca, Zamora, Andalucia.

Grazie agli amici romani e non, che in questi anni mi avete fatto il grande dono dell’amicizia e dell’accoglienza fraterna nella vostra casa.

Un gràcies molt gran a la meva família i a tots els amics vinguts del Vendrell i de diversos llocs de Catalunya: diversos preveres de les diòcesis catalanes. En aquest moment molt important en la meva vida, la vostra presència “en ple” a Roma és per a mi un gran motiu de joia i d’acciò de gràcies. I veient-vos a vosaltres, veig tots aquells que també hi sòn presents des del cel, la mirada, la rialla dels quals la podem palpar entre nosaltres.



venerdì 1 aprile 2016

Gli Enkomia del mattutino del Sabato Santo. Dalla croce alla risurrezione.
Non ti attardare, o vita, tra i morti
Una delle ufficiature più popolari ed allo stesso tempo più belle e profonde della Settimana Santa nella tradizione bizantina è il mattutino del Sabato Santo. In modo speciale ci soffermiamo nel canto degli Enkomia. Si tratta di un testo formato da 176 strofe divise in tre stanze o gruppi; composto tra il XII e il XIV sec., non se ne conosce l'autore, benché i temi di fondo risalgono ai testi pasquali di San Gregorio di Nazianzo e di Romano il Melode. Il canto degli Enkomia viene fatto di fronte al tafos, che rappresenta la tomba di Cristo, dov’è posto l'Epitafios, che è il velo ricamato in cui viene raffigurato il corpo di Gesù nella tomba. Il poema sgrana lentamente dando voce a diversi personaggi, tutti i misteri che sono avvenuti, specialmente la sepoltura di Gesù, la sua discesa nell'Ade fino alla sua risurrezione. Ci troviamo in un costante via va di dolcezza e di amarezza, di lacrime e di attesa gioiosa della risurrezione. Questa tomba diventa il centro dell'universo: “Tutte le generazioni, o Cristo mio, offrono un canto alla tua sepoltura”; tomba di Cristo che è il centro della vita e della preghiera della Chiesa, che porta dalla terra al cielo, dalla morte alla vita.
         Diverse delle strofe del testo mettono in contrasto la figura di Cristo morto come fonte di vita, il parallelo morte-vita: “O Cristo, tu che sei la vita sei stato deposto in una tomba: le schiere angeliche piene di stupore davano gloria alla tua condiscendenza… O vita, come muori? come dimori in una tomba, mentre distruggi il regno della morte e risusciti dall’ade i defunti? O Vita, quale prodigio, tu sei nella morte! E come la morte è distrutta dalla morte? E come da un morto scaturisce la vita?”. Troviamo sottolineato il dolore, lo sgomento, la meraviglia dei diversi personaggi di fronte alla morte di Cristo; comunque man mano la morte diventa più comprensibile, sempre alla luce della risurrezione: “Su di te, o Gesù, la pura tua Madre effondeva gemiti e lacrime, ed esclamava: Come potrò seppellirti, o Figlio? Risorgi, o datore di vita! dice tra le lacrime la Madre che ti ha partorito. Affrettati a risorgere, o Verbo, e dissipa la tristezza di colei che puramente ti ha partorito”.
         Altre strofe mettono in rilievo come il Verbo di Dio Creatore è allo stesso tempo il Verbo di Dio incarnato ed oggi rinchiuso in una tomba: “Tu che hai fissato le misure della terra, o Gesù, Re dell’universo, abiti oggi in una piccola tomba, per far risorgere i morti dai sepolcri. Anche la moltitudine delle schiere intelligibili accorre con Giuseppe e Nicodemo, per rinchiudere in un piccolo sepolcro te, che nulla può contenere. Tu che nel principio, col solo tuo cenno hai fissato l’orbita terrestre, come uomo mortale scendi sotto terra esanime: fremi, o cielo, a questa vista!”. Sono delle strofe che mettono in risalto il tema della vera incarnazione del Verbo di Dio: “È stato innalzato sulla croce colui che ha sospeso la terra sulle acque, ed ora, esanime, è sepolto sotto la terra, che non lo può sostenere e terribilmente si scuote”. Uno degli argomenti centrali del Sabato Santo è la discesa di Cristo nell’ade per riprendersi Adamo ed Eva e riportargli nel paradiso. “Sulla terra sei disceso per salvare Adamo, e non avendolo trovato sulla terra, o Sovrano, sino all’ade sei disceso per cercarlo. Come morto, nella tomba, come Dio, col Padre, e nell’ade come Sovrano del creato… Adamo ebbe paura di Dio che camminava nel paradiso, ma gioisce ora per la sua venuta nell’ade…”. Il Signore cerca Adamo come lo cercò nel paradiso dopo il peccato.
         Diverse delle strofe del poema riprendono quindi il tema di Cristo come nuovo Adamo: “Apparso nella carne come nuovo Adamo, o Salvatore, con la tua morte riporti alla vita Adamo, un tempo per invidia messo a morte. Tu che un tempo, prendendo una costola da Adamo, ne plasmasti Eva, sei stato trafitto al fianco e ne hai fatto sgorgare torrenti di purificazione”. Negli Enkomia inoltre è ben presente a figura di Maria, la Madre di Dio; le strofe in cui essa interviene ce la presentano con delle immagini molto forti in cui si intreccia il dolore della madre di fronte al Figlio morto e la speranza mescolata anche alla fretta per la sua risurrezione: “Su di te, o Gesù, la pura effondeva gemiti e lacrime di madre, ed esclamava: Come potrò seppellirti, o Figlio? Ahimè, luce del mondo, ahimè, mia luce, Gesù mio amatissimo! gridava la Vergine con gemito penoso. O Dio e Verbo, o gioia mia! Come sopporterò la tua sepoltura di tre giorni? Sono straziate le mie viscere materne! Quando ti vedrò, o Salvatore, luce intemporale, gioia e diletto del mio cuore? esclamava la Vergine gemendo. Piangeva amaramente la tua Madre immacolata, o Verbo, vedendo nella tomba te, eterno Dio ineffabile. Vedendo la tua morte, o Cristo mio, la tua purissima Madre gridava a te amaramente: Non ti attardare, o vita, tra i morti! O mia dolce primavera, dolcissimo Figlio mio, dove è tramontata la tua bellezza? Per liberare Adamo ed Eva io soffro tutto questo: non piangere, Madre...”.
         Oltre alla Madre di Dio, attorno alla tomba vivificante di Cristo ci sono Giuseppe di Arimatea, Nicodemo e le donne mirofore che diventano tipo della Chiesa che offre al corpo di Cristo gli unguenti, gli aromi, le cure e l’amore verso Colui che si è incarnato, è morto ed è risorto il terzo giorno: “Venite, cantiamo al Cristo morto un sacro compianto, come un tempo le miròfore, per udire con loro il saluto: Gioite’! Sei tu, o Verbo, il vero unguento profumato che mai vien meno, perciò le miròfore ti portavano unguenti: a te, il vivente, come a un morto. Con aromi, o Cristo, Nicodemo e il nobile Giuseppe, compongono in modo nuovo la tua salma, esclamando: Trema, o terra tutta! Cosparsero di unguenti profumati il sepolcro, le miròfore, giungendo al mattino al far del giorno.. Aromi e unguenti offrono le discepole al sepolcro. E subito odono, in cambio dei loro doni, il saluto: Gioite!”.

Gli Enkomia del Sabato Santo diventano una vera e propria catechesi sulla fede cristiana: la creazione, il peccato, la vera incarnazione del Verbo di Dio, la sua passione, morte e risurrezione, la maternità divina di Maria. È Maria che parla, che piange e si rallegra; è la Chiesa stessa che ha le doglie del dolore e la gioia della risurrezione; siamo ognuno di noi coinvolti, concelebranti, come soltanto la liturgia sa e deve farlo nella celebrazione della nostra fede.


L’inizio della Settimana Santa nella tradizione bizantina
Vedendoti sull’asinello, ti contempliamo sui cherubini.
La tradizione bizantina inizia le celebrazioni della Settimana Santa con l’ingresso di Cristo a Gerusalemme la domenica delle Palme, celebrazione preceduta dalla settimana di Lazzaro che ha contemplato la malattia, e la morte dell’amico di Cristo fino alla sua risurrezione il sabato. I testi liturgici della domenica delle palme intrecciano in un modo insistente e pedagogicamente ripetitivo il tema della vittoria di Cristo sulla morte di Lazzaro e il suo ingresso trionfale a Gerusalemme per vivere lì, nella sua città, la propria passione, morte e risurrezione: “Prefigurando per noi la tua augusta risurrezione, col tuo comando hai risuscitato un morto, il tuo amico Lazzaro ormai senza respiro, traendolo dal sepolcro già maleodorante, dopo quattro giorni, o buono…”. Diversi dei tropari del giorno riprenderanno, applicandola a Cristo, la profezia di Zaccaria 9,9: “Su dunque, anche noi oggi, tutto il nuovo Israele, la Chiesa delle genti, esclamiamo col profeta Zaccaria: Gioisci grandemente, figlia di Sion, dà l’annuncio, figlia di Gerusalemme: ecco, il tuo Re viene a te, mite e per salvare, montato su un puledro d’asina…”. In molti dei testi liturgici della festa troviamo delle figure che sottolineano la confessione di fede cristologica nella vera incarnazione del Verbo di Do, servendosi di immagini presentate per via di contrasto: “Colui che ha per trono i cieli e per sgabello la terra, il Verbo di Dio Padre, il Figlio a lui coeterno, viene oggi a Betania modestamente seduto su un puledro…”. Diverse volte nei tropari il puledro diventa il trono ed il cocchio su cui siede il Signore dei cieli umilmente entrando a Gerusalemme: “Tu che cavalchi i cherubini, e sei celebrato dai serafini, sei montato su un asinello alla maniera di Davide, o buono: i bambini ti celebravano come conviene a Dio… Vedendoti su un asinello, ti contemplavano come assiso sui cherubini”. Uno dei tropari del mattutino, oltre al parallelo tra il trono celeste nella gloria e quello terrestre sull’asinello, parallelo che si allarga ancora agli angeli e ai fanciulli, introduce già il tema centrale della Pasqua ormai vicina, cioè la redenzione di Adamo e il suo rientro in paradiso: “In cielo assiso in trono, in terra sull’asinello, o Cristo Dio, tu hai accolto la lode degli angeli e lacclamazione dei fanciulli che a te gridavano: Benedetto sei tu che vieni a richiamare Adamo dallesilio.
L’ingresso di Cristo a Gerusalemme è quindi in vista alla salvezza, alla redenzione di Adamo, e alcuni dei tropari mettono in relazione il tema dei due Adamo, l’uomo creato ed il Cristo creatore: “Con rami di palme spirituali, con l’anima purificata, come i fanciulli esaltiamo con fede Cristo, acclamando a gran voce il Sovrano: Benedetto tu, che sei venuto nel mondo per salvare Adamo dalla maledizione antica, divenendo il nuovo Adamo spirituale, o amico degli uomini, secondo il tuo beneplacito. O Verbo che tutto disponi per il bene, gloria a te”. L’albero della croce diventa il nuovo albero dove Adamo è rialzato dalla sua caduta attraverso la passione del nuovo Adamo. Un lungo tropario del mattutino di questa domenica riassume tutti gli aspetti che verranno celebrati lungo la Settimana Santa: l’incontro col Cristo, Verbo di Dio incarnato che cammina ed entra a Gerusalemme; l’unione sponsale tra Cristo e la Chiesa, unione che avviene nella croce del Signore: “Uscite genti, uscite, popoli, contemplate oggi il Re dei cieli che si avvicina a Gerusalemme su un povero asinello come su trono eccelso. Generazione adultera e incredula, vieni e contempla colui che vide Isaia, venuto per noi nella carne. Vedi come egli sposa la nuova Sion quale sposa casta… Come a nozze senza macchia né corruzione, accorrono acclamanti i fanciulli senza macchia e ignari del male: con loro anche noi acclamiamo…”. Da questo tropario e da altri della festa, vediamo come la tradizione bizantina legge sempre in chiave cristologica e cristiana le profezie dell’Antico Testamento ed i testi salmici: “Cristo, il nostro Dio che viene manifestamente, verrà e non tarderà, verrà dal boscoso monte adombrato, dalla Vergine che lo partorisce ignara duomo: cosí diceva un tempo il profetaI monti e tutti i colli facciano erompere la loro gioia grande per la misericordiaVerrà rivestito di potenza il re dei secoli, il Signore…”.
Infine in un altro dei tropari troviamo il parallelo tra i bimbi di Betlemme fatti sgozzare da Erode ed i bimbi di Gerusalemme acclamanti e salvati dal Cristo crocefisso. E nello stesso tropario troviamo accostati il paradiso chiuso con la spada che ne vieta l’ingresso, ed il costato di Cristo aperto dalla lancia diventato porta di accesso al paradiso per Adamo e per tutta l’umanità: “Poiché hai legato l’ade, o immortale, ucciso la morte e risuscitato il mondo, con palme ti esaltavano i bambini, o Cristo, come vincitore, a te gridando oggi: Osanna al Figlio di Davide! I bimbi - essi dicono - non saranno piú sgozzati per il bimbo di Maria, perché per tutti, bimbi e vecchi, tu solo sarai crocifisso. La spada non si volgerà piú contro di noi, perché il tuo fianco sarà trafitto dalla lancia. Perciò diciamo esultanti: Benedetto sei tu che vieni per richiamare Adamo dall’esilio”.
         La liturgia bizantina nella domenica delle palme ci consegna i rami con cui acclamiamo il Cristo vincitore, rami che per tutti noi sono tipo ed immagine della croce che ci salva: Oggi la grazia dello Spirito santo ci ha riuniti, e portando tutti la tua croce, diciamo: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, osanna nel piú alto dei cieli.



lunedì 4 gennaio 2016

L'Epifania nell'innografia liturgica bizantina
Oggi Dio abbraccia l’uomo e lo riveste di bellezza
         L'Epifania del Signore è una festa liturgica che celebra la manifestazione del Verbo di Dio incarnato, in un contesto trinitario e cristologico. I testi liturgici della festa nella tradizione bizantina riassumono i principali misteri della fede cristiana: quello trinitario, l'incarnazione del Verbo di Dio, la redenzione ricevuta nel battesimo. Evento, quest'ultimo, specialmente celebrato durante la liturgia della grande benedizione delle acque che ricorda e celebra il battesimo di Cristo e di ognuno dei fedeli cristiani. I grandi innografi cristiani orientali hanno dedicato dei testi poetici alla contemplazione di questa celebrazione; sono testi dove sono messi in evidenza lo stupore e la meraviglia del Battista e di tutta la creazione — gli angeli, il firmamento, le acque del Giordano — di fronte alla manifestazione umile del Verbo di Dio incarnato che si avvia a ricevere il battesimo da Giovanni.
         Romano il Melodo (+555), nei suoi due kontàkia per la festa dell'Epifania mette in risalto alcuni aspetti teologici importanti. In primo luogo accosta diverse volte la nudità di Adamo e del genere umano con il battesimo e il vestito nuovo lì indossato, vestito che è Cristo stesso: “Perciò noi, nudi figli di Adamo, riuniamoci tutti, rivestiamoci di lui per ricevere il suo calore! Riparo per i nudi e luce per quanti sono al buio tu sei venuto, sei apparso, luce inaccessibile”. Molto spesso per via di contrasto, l'innografo insiste sul fatto che la nudità di Adamo disubbidiente porta Dio stesso a spogliarsi e farsi uomo, spogliato come Adamo: “Dio, con la sua santa voce chiamò il disubbidiente: Dove sei, Adamo? Voglio vederti! Anche se nudo sei, anche se povero sei, non avere vergogna, perché io mi sono fatto simile a te. Tu che volevi diventare Dio non ci sei riuscito: io invece mi sono fatto carne. L'incarnazione del Verbo di Dio è paragonata dall’innografo a un grande abbraccio in cui Dio elargisce all'uomo la sua misericordia, con un retroterra molto chiaro della parabola del figlio prodigo: “Dalla mia compassione mi sono lasciato piegare, misericordioso quale sono, e mi sono avvicinato a ciò che ho plasmato, tendendo le mani per abbracciarti. Non provare vergogna dinanzi a me: per te che sei nudo io mi denudo e mi battezzo”.
         L'autore quindi pone accanto la nudità dell'uomo all'incarnazione di Cristo vista come denudarsi e farsi uno di noi, con un gioco di parole tra il denudarsi dell'incarnazione e il denudarsi per il battesimo. In diverse delle strofe dei suoi inni Romano fa parlare in forma dialogica Cristo e Giovanni Battista, come se fosse un dialogo in prosecuzione di quello della pericope evangelica del battesimo di Cristo nel Giordano. Da parte di Giovanni c'è lo stupore e la paura, mentre che da parte di Cristo c'è la forza e l'incoraggiamento: “Giovanni fu sconvolto dalla paura e disse: Fermati, o Salvatore, e non insistere: a me basta essere stato considerato degno di vederti! Che cosa richiedi a un uomo, tu, amico del genere umano? Perché chini il tuo capo sotto questa mia mano? Essa non è abituata a reggere il fuoco! Tu vieni da me, ma il cielo e la terra guardano se compirò l'atto temerario”. E Cristo risponde al Battista, il Precursore: “Tu hai un incarico da assolvere per me. Una volta ho mandato Gabriele e ha svolto bene il suo compito per la tua nascita: manda anche tu la tua mano come un angelo, per battezzare. Prestami soltanto la destra! Battezzami e attendi in silenzio ciò che avverrà”. Il battesimo di Cristo è un dono dello Spirito a tutta la Chiesa affinché anch'essa diventi luogo di salvezza per i battezzati: “Io sto per aprire i cieli, far discendere lo Spirito e darlo in pegno. Battezzatore e contestatore, preparati non alla controversia ma al servizio! Io qui disegnerò per te la soave e splendente figura della Chiesa, accordando alla tua destra quel potere che poi attribuirò alle mani dei discepoli e dei sacerdoti.
         Romano mette in parallelo Adamo nudo dopo il peccato di Adamo, spogliato dall'immagine di cui fu creato, e Cristo incarnato e pronto a essere battezzato: “Giovanni contemplò con rispetto le membra ignude di colui che impone alle nuvole di avvolgere il cielo come un mantello, e vide in mezzo ai flutti colui che era apparso in mezzo ai tre fanciulli, la rugiada di fuoco. Per Romano, quindi, l'incarnazione e il battesimo di Cristo sono realtà finalizzate a riportare e ricreare Adamo nella condizione di figlio: “Inneggia, inneggia a lui, o Adamo; adora colui che ti viene incontro! Mentre tu ti ritraevi, egli si è mostrato a te affinché tu potessi vederlo, toccarlo e riceverlo. Lui è sceso sulla terra per portarti lassù, è diventato mortale affinché tu potessi diventare dio e rivestirti della primitiva dignità, per riaprire l'Eden ha preso dimora a Nazaret”. Infine Romano riprende il tema del vestito bianco indossato dai battezzati, vestito intessuto dallo Spirito Santo nell'incarnazione del Verbo di Dio, divenuto agnello di Dio: “È stata ormai strappata la veste del lutto, abbiamo indossato l'abito bianco, intessuto per noi dallo Spirito col vello immacolato dell'Agnello e Dio nostro. Quale messaggio del Battista e quale mistero in esso! Chiama agnello il pastore, e non semplicemente agnello, ma agnello che libera dalle colpe”. Infine una delle strofe degli inni di Romano è quella che è entrata nell'ufficiatura bizantina e che raccoglie tutta la teologia della festa: “Ti sei manifestato oggi al mondo, e la tua luce, o Signore, ha impresso il segno su di noi che, riconoscendoti, eleviamo a te il nostro inno: Sei venuto, sei apparso, luce inaccessibile”.



mercoledì 23 dicembre 2015

Da Adamo a Cristo, negli inni di Sant’Efrem il Siro
Questa è la notte in cui veglia l’intera creazione
          Le diverse tradizioni liturgiche cristiane, di Oriente e di Occidente, nella domenica o nei giorni che precedono immediatamente la celebrazione della nascita del Figlio di Dio, leggono come pericope evangelica la Genealogia di Cristo secondo il vangelo di Matteo. Efrem il Siro nel primo dei suoi 28 inni sul Natale, una vera e propria lectio divina del primo capitolo di Matteo. Si tratta di un inno assai lungo, novantanove strofe, nelle quali Efrem mette in scena dei personaggi e dei fatti veterotestamentari per arrivare all’ultima delle strofe in cui canta l’incarnazione del Verbo di Dio. Il carattere cristologico di tutto l’inno viene scandito anche dal versetto ritornello cantato tra una e l’altra delle strofe: “Gloria a te, Figlio del nostro Creatore”. Un primo gruppo di strofe, da 1 a 11, propone la figura dei diversi profeti che hanno annunciato l’incarnazione e la nascita del Figlio di Dio: Isaia, Michea, Giacobbe, Davide, diventano per Efrem l’inizio della lunga serie di personaggi e di fatti veterotestamentari che portano a Cristo; in qualche modo Efrem mette per primi della lunga schiera che guarda a Cristo coloro che già nell’Antico Testamento furono ispirati dallo Spirito per annunciarlo nella profezia: “Questo giorno ha fatto gioire, Signore, i re, i sacerdoti e i profeti, perché in esso si compirono le loro parole… La vergine infatti ha oggi partorito l’Emmanuele a Betlemme. La parola proferita da Isaia oggi è divenuta realtà… Oggi è nato un bimbo, il suo nome è Meraviglia. È proprio una meraviglia di Dio che si sia manifestato come un infante”. Quindi lungo quasi una cinquantina di strofe, dalla 12 alla 60, Efrem snoda il canto a una serie di figure e di fatti presi dall’antica alleanza che sono la prefigurazione, il tipo di Cristo; ed il poeta lo fa mettendo in parallelo il fatto avvenuto nel libro biblico da una parte con l’«oggi» che fa presente la salvezza che si adempie in Cristo stesso: “Adamo aveva posto la corruzione sulla donna uscita da lui. Oggi ella ha sciolto la sua corruzione partorendogli il Salvatore… Una terra vergine aveva partorito Adamo, capo della terra. Oggi una vergine ha partorito l’Adamo capo del cielo…”. Efrem quasi senza soluzione di continuità collega i personaggi biblici, specialmente presi dalla Genesi, con l’opera salvifica di Cristo, di cui essi sono la vera prefigurazione: “Set, preso il posto di Abele, guardava verso il Figlio ucciso, che mediante la propria uccisione spuntò la spada introdotta nella creazione… I due fratelli che coprirono Noè guardavano verso l’unigenito di Dio, che sarebbe venuto a coprire la nudità di Adamo…”. E nel suo percorso attraverso le figure bibliche, nel suo mettere in parallelo antica e nuova alleanza, Efrem riporta Mosè ed Elia alla scena della Trasfigurazione di Cristo: “Mosè ed Elia videro il Figlio. Il mite ascese dalle profondità, e lo zelota scese dall’alto: videro il Figlio nel mezzo. Essi furono simbolo della sua venuta. Mosè fu tipo dei morti ed Elia tipo dei vivi, che voleranno incontro a lui nella sua venuta”. L’inno di Efrem, quasi in un avanti indietro, dopo Elia ritorna ad Adamo ed Eva e ai primi capitoli della Genesi, per riproporne una lettura chiaramente cristologica ed ecclesiologica: Adamo cacciato e riportato nel paradiso; l’arca di Noè tipo della Chiesa: “Adamo attese lui, poiché è lui il Signore del cherubino, e solo lui avrebbe potuto farlo entrare e abitare sotto i rami dell’albero della vita… Anche l’arca degli animali, il suo tipo guardava verso il nostro Signore, che avrebbe costruito la santa Chiesa nella quale trovano rifugio le anime.”. Efrem sottolinea come è lo Spirito Santo a illuminare la lunga schiera di figure bibliche affinché loro guardino verso il Cristo che viene: “È lo Spirito Santo che in loro, quietamente contemplando per loro, li spingeva a vedere, grazie a lui, il Salvatore che essi bramavano”.
          Dalle strofe 61 alla 81, Efrem introduce nell’inno il tema della veglia che dovrebbe segnare la vita dei cristiani in attesa del Salvatore, che è il vero vigilante, che non dorme mai. Efrem svilupperà delle immagini veramente belle in cui mette in parallelo il fatto dell’attesa, della veglia, con coloro e Colui che sono i veri vigilanti: Cristo è il vero vegliante sui cristiani, sulla Chiesa; gli angeli, i pastori, i monaci, tuti i cristiani sono coloro che nella veglia attendono “il vero vegliante”: “I vigilanti oggi sono nella gioia, poiché è venuto il Vigilante a svegliarci. Chi dormirà in questa notte nella quale veglia l’intera creazione? Adamo introdusse nella creazione il sonno della morte mediante il peccato… è sceso oggi il Vigilante a svegliarci dal torpore del peccato”. Efrem nell’ultima serie di strofe presenta tutta una serie di virtù proprie del cristiano, in una lunga lista introdotta di nuovo dalla parola «oggi»: “Oggi Maria nasconde in noi i lievito di Abramo. Amiamo anche noi i poveri come lui li amò… Oggi cade in noi il fermento di Davide, il clemente. Ciascuno sia misericordioso come lui lo fu verso Saul…”. E quindi lungo le dieci ultime strofe dell’inno, Efrem in questo «oggi» della nascita del Figlio di Dio incarnato dipinge la vita nuova che ne sgorga: “Oggi… non ci sia né buio, né ira, né orgoglio… ma rediamo partecipi i poveri dei propri beni… Oggi è impressa la divinità nell’umanità, affinché anche l’umanità fosse intagliata nel sigillo dell’a divinità”.


venerdì 11 dicembre 2015



(Manifestazione dell'angelo nel sogno a Giuseppe. Evangeliario siriaco, XIII secolo.)
I vigilanti oggi sono nella gioia,
poiché è venuto il Vigilante a svegliarci.
Chi dormirà in questa notte
nella quale veglia l’intera creazione?
 (Efrem il Siro. Inno I sulla Natività)

Vi auguro a tutti un Santo Natale.

Arch. P. Manuel Nin osb, Rettore
Pontificio Collegio Greco
Roma, Natale 2015





       La Parola di Dio in questi giorni ci prepara come una pedagoga alla manifestazione del mistero della nostra fede: l’Incarnazione del Verbo eterno di Dio. E come avviene questa pedagogia? Lasciamo riecheggiare nel nostro cuore tre pericope che scandiscono la liturgia di questi giorni. Nella Domenica degli Antenati, ascoltiamo la genealogia di Matteo, quella lunga lista di nomi, forse conosciuti ed importanti in se stessi? Sicuramente importanti per Colui a cui essi guardavano, per Colui verso cui andavano e ci portavano: Gesù Cristo. Nel vespro del giorno di Natale ascoltiamo la pericope di Luca, l’annuncio della nascita nella povertà, nella piccolezza, del Verbo di Dio, quella povertà della grotta, del bimbo neonato, fragile, messo in una mangiatoia. E l’annuncio ai pastori, a gente anch’essa povera, magari neanche proprietaria del proprio gregge, ma gente che sa ascoltare, che è capace ancora di meraviglia, che sa accogliere, che sa correre… verso dove? Verso che cosa? Verso chi? Verso un bambino neonato, povero fragile. Infine la terza pericope: quella di Matteo ascoltata nella Divina Liturgia del giorno 25: i magi, gente lontana, ma che pure sa accorgersi ed accogliere un segno, e sa cercare… cercare che cosa? Cercare chi? Seguire nella fiducia un segno che gli porterà non ad una grande teofania, non ad un grande prodigio, ma ad un bambino neonato. O se volete sì ad una grande teofania, sì ad un grande prodigio: il nostro Dio che si manifesta nella povertà di una stalla, nella piccolezza di un neonato. Gli antenati, i pastori, i magi… sono i testimoni di questo grande prodigio. Sono per noi modelli di speranza, di fiducia, di un cuore capace di sperare, di ascoltare, di adorare.

        P. Manuel Nin