venerdì 11 dicembre 2015



(Manifestazione dell'angelo nel sogno a Giuseppe. Evangeliario siriaco, XIII secolo.)
I vigilanti oggi sono nella gioia,
poiché è venuto il Vigilante a svegliarci.
Chi dormirà in questa notte
nella quale veglia l’intera creazione?
 (Efrem il Siro. Inno I sulla Natività)

Vi auguro a tutti un Santo Natale.

Arch. P. Manuel Nin osb, Rettore
Pontificio Collegio Greco
Roma, Natale 2015





       La Parola di Dio in questi giorni ci prepara come una pedagoga alla manifestazione del mistero della nostra fede: l’Incarnazione del Verbo eterno di Dio. E come avviene questa pedagogia? Lasciamo riecheggiare nel nostro cuore tre pericope che scandiscono la liturgia di questi giorni. Nella Domenica degli Antenati, ascoltiamo la genealogia di Matteo, quella lunga lista di nomi, forse conosciuti ed importanti in se stessi? Sicuramente importanti per Colui a cui essi guardavano, per Colui verso cui andavano e ci portavano: Gesù Cristo. Nel vespro del giorno di Natale ascoltiamo la pericope di Luca, l’annuncio della nascita nella povertà, nella piccolezza, del Verbo di Dio, quella povertà della grotta, del bimbo neonato, fragile, messo in una mangiatoia. E l’annuncio ai pastori, a gente anch’essa povera, magari neanche proprietaria del proprio gregge, ma gente che sa ascoltare, che è capace ancora di meraviglia, che sa accogliere, che sa correre… verso dove? Verso che cosa? Verso chi? Verso un bambino neonato, povero fragile. Infine la terza pericope: quella di Matteo ascoltata nella Divina Liturgia del giorno 25: i magi, gente lontana, ma che pure sa accorgersi ed accogliere un segno, e sa cercare… cercare che cosa? Cercare chi? Seguire nella fiducia un segno che gli porterà non ad una grande teofania, non ad un grande prodigio, ma ad un bambino neonato. O se volete sì ad una grande teofania, sì ad un grande prodigio: il nostro Dio che si manifesta nella povertà di una stalla, nella piccolezza di un neonato. Gli antenati, i pastori, i magi… sono i testimoni di questo grande prodigio. Sono per noi modelli di speranza, di fiducia, di un cuore capace di sperare, di ascoltare, di adorare.

        P. Manuel Nin


mercoledì 18 novembre 2015

21 novembre, festa dell’Ingresso della Madre di Dio nel Tempio.
Oggi il Creatore si annienta davanti alla creatura annientata.
          Il 21 di novembre, nei calendari delle Chiese cristiane, si celebra la festa dell’Ingresso della Madre di Dio nel Tempio. Nella tradizione bizantina, questa celebrazione ha un giorno di pre festa, in cui i testi liturgici annunciano quello che sarà uno dei punti costanti nella celebrazione festiva: la gioia del cielo, della creazione tutta, degli angeli e degli uomini per il mistero che Dio adopera in e per mezzo della Madre di Dio. La festa quindi si prolunga fino al giorno 25. Vorrei soffermarmi nella lettura dei tropari del giorno prefestivo, attribuiti molti di essi all’innografo bizantino Giorgio di Nicomedia (+860). Questi testi mettono in evidenza già quello che diventerà il tema centrale della festa: Maria introdotta nel tempio di Dio diventa per l’incarnazione del Verbo, lei stessa tempio di Dio. Inoltre Maria vergine nel suo ingresso nel tempio è accompagnata da un coro di vergini; e troviamo qua nei testi liturgici un riferimento a Mt 25 nella pericope delle dieci vergini in attesa dello Sposo alla porta del Regno. E in alcune icone della festa addirittura vengono dipinte non cinque ma diverse addirittura le dieci vergini con le lampade accese: “Vergini recanti lampade, facendo lietamente strada alla sempre Vergine, realmente profe­tizzano in spirito ciò che avverrà: la Madre di Dio, che è tempio di Dio, con gloria verginale è introdotta nel tempio, ancora bam­bina”. Alcuni dei testi liturgici si servono di immagini e simboli che in Maria diventano realtà vera e propria: “Nutrita fedelmente con pane celeste, o Vergine, nel tem­pio del Signore, tu hai generato al mondo il Verbo, pane di vita: come suo tempio eletto e tutto imma­colato, fosti mi­sti­camente fidanzata allo Spirito, spo­sata a Dio Padre”. Maria nutrita dall’angelo col pane celeste che genera il pane della vita. Alcune delle icone raffigurano Maria ricevuta nel tempio dal sacerdote Zaccaria collocato di fronte all’altare, quasi rafigurante il vescovo di fronte all’altare ricevendo nella celebrazione della Divina Liturgia i doni presentati per essere deposti sull’altare; quindi, sempre nell’icona, Maria seduta all’interno del santuario nutrita dall’angelo.
          I tropari del giorno prefestivo riprendono con insistenza il parallelo tra il tempio che accoglie Maria, ed essa stessa diventata a sua volta tempio di Dio: “Oggi è condotto al tempio del Signore il tempio che ac­coglie Dio, la Madre di Dio, e Zaccaria la riceve. Oggi il san­­to dei santi esulta, e il coro degli angeli è misticamente in­ festa; con loro anche noi oggi facciamo festa e insieme a Ga­briele acclamiamo: Gioisci, piena di grazia, il Signore è con te, lui che possiede la grande misericordia”. Nel mattutino uno dei tropari canta in una bella armonia tra teologia e poesia, il mistero della redenzione adoperata nell’Incarnazione del Verbo di Dio: “Il Creatore di tutte le cose, l’Artefice e Sovrano, pie­gan­dosi con ineffabile compassione, solo per il suo amore per gli uomini, ha avuto pietà di colui che con le sue mani aveva formato e che vedeva caduto, e si è compiaciuto di rialzarlo, riplasmandolo in modo più divino, con il proprio annientamento, perché per natura è buono e miseri­cordioso. Egli prende pertanto Maria, vergine e pura, come mediatrice del mistero, per assumere da lei, secondo il suo disegno, ciò che è nostro: essa è celeste dimora”. Di fronte all’uomo caduto nel peccato, il Creatore si piega, “cade”, si fa piccolo “pie­gan­dosi con ineffabile compassione”, per rialzare e ricreare l’opera delle sue mani. Potremmo dire che Dio “vede l’uomo caduto” e si annienta davanti all’uomo annientato. E Maria, nel mistero della redenzione, diventa la mediatrice, colei da chi il Verbo di Dio, incarnandosi, assume pienamente la natura umana, la rialza e la riporta alla sua primitiva bellezza nella gloria.
          L’ultimo dei tropari del mattutino del giorno prefestivo è un vero e proprio intreccio di tre testi veterotestamentari, salmo 44, Isaia 45 ed Ezechiele 44, che la tradizione patristica e liturgica delle diverse Chiese cristiane ha letto in chiave cristologica e quindi anche mariologica; si tratta di un tropario che mette in evidenza l’Incarnazione del Verbo di Dio e la verginità di Maria prefigurate ambedue nella porta orientale del tempio, e quindi Maria stessa diventata tempio di Dio nel tempio di Dio: “Esulti oggi il cielo in alto, e le nubi facciano piovere leti­zia sulle magnificenze oltremodo prodigiose del nostro Dio (Is 45). Ecco infatti: la porta che guarda a oriente (Ez 44), generata secon­do la promessa da una sterile senza frutto e consacrata come dimora di Dio, è condotta oggi al tempio quale obla­zione immacolata. Esulti Davide suonando la cetra: Sa­ran­no condotte al Re le vergini dietro a lei, egli dice, le sue com­pagne saranno condotte: dentro alla tenda di Dio (salmo 44), nel luogo del suo propiziatorio dovrà venir allevata per essere dimora, a salvezza delle anime nostre, di colui che prima dei secoli è stato immutabilmente generato dal Padre”. Le nubi che fanno piovere il Giusto e la terra che l’accoglie e genera il Salvatore; la porta chiusa del tempio di Dio guardante all’oriente e varcata soltanto da Dio; il corteo delle vergini che accompagnano Maria. Si tratta di un tropario prefestivo che ci introduce alla contemplazione del mistero che la festa del 21 novembre celebra: Maria diventata tempio nel tempio, ognuno dei cristiani alimentati dal pane della vita, diventati anche noi tempio del Signore. “Entra, o Signo­ra, nel tempio del Re; entra, tu la cui gloria si scorge nel nascondimento; tu, dalla quale fluirà per tutti, come latte e miele, il Cristo luce”.



mercoledì 28 ottobre 2015


Invito alla presentazione del libro
Uno sguardo orientale a Roma
Venerdì 6 novembre alle ore 18.00
Pontificio Collegio Greco



mercoledì 21 ottobre 2015

La celebrazione della liturgia di san Giacomo.
Gerusalemme, madre di tutte le Chiese.
La tradizione liturgica bizantina, oltre alle anafore di san Giovanni Crisostomo e di san Basilio Magno, conosce un’altra anafora attribuita a san Giacomo, fratello del Signore e primo vescovo di Gerusalemme e “fratello di Dio” come viene chiamato nei libri liturgici. Questa anafora, caduta quasi in disuso, viene adoperata nella celebrazione della Divina Liturgia il giorno 23 ottobre, festa liturgica di san Giacomo. A Roma, dalla fine degli anni ’60 del xx secolo, per iniziativa dell’allora rettore del Pontificio Collegio Greco archimandrita p. Olivier Raquez osb, questa anafora viene celebrata la domenica più vicina alla festa del 23 ottobre. Lo stesso p. Raquez ne curò una traduzione italiana ad uso dei fedeli. Questa tradizione viene tuttora mantenuta nella vita liturgica del suddetto Collegio Greco, nella sua chiesa di Sant’Atanasio dei Greci, celebrata quest’anno la prossima domenica 25 ottobre.
         Come accennato, ci troviamo con una liturgia che la tradizione bizantina ha lasciato cadere praticamente dal tutto, e che invece la tradizione siro occidentale usa molto spesso, assieme all’anafora dei Dodici Apostoli. Questa liturgia la troviamo in diverse versioni linguistiche ma specialmente sotto due versioni, quella siriaca e quella greca; sembra che il testo siriaco sia traduzione da un primo testo greco, più semplice ed arcaico dell’attuale; in ambedue versioni, l'attribuzione a San Giacomo, fratello del Signore, è unanime. Ce ne sono ancora altre versioni: armena, georgiana, etiopica, fatto che dimostra l’importanza che ebbe questo testo almeno durante il primo millennio. Si tratta di una anafora di origine gerosolimitana, con tanti riferimenti a dei personaggi veterotestamentari: Abele, Noè, Abramo, Zaccaria, ai luoghi santi, alla Gerusalemme celeste. Come datazione, si tratta di un testo elaborato in diversi momenti nell’arco che va dalla fine III secolo fino al VII. Teologicamente si tratta di un testo diverso da quello di san Giovanni Crisostomo e da quello di san Basilio. La struttura anche architettonica della celebrazione è un po diversa da quella normale nella tradizione bizantina, e si avvicina di più a quelle di tradizione siro-antiochena: davanti all’iconostasi viene situato il “bima” cioè lo spazio -nelle chiese siriache chiuso da un cancello-, dove su un ambone viene deposto l’evangeliario e su un tavolino chiamato “calvario” viene posta la croce; attorno al bima si collocano il sacerdote col diacono e i concelebranti e ivi si celebra tutta la liturgia della Parola. La liturgia eucaristica, poi, viene celebrata nel santuario. Lo schema della celebrazione è come segue: Preghiere iniziali, ingresso con l’evangeliario e canto dell’inno “O Unigenito”, grande litania diaconale, trisaghion (“Santo Dio, Sano Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”), letture (fatte dal bima). Quindi già dal santuario l’ingresso con i doni del pane e del vino col canto dell’inno “Ammutolisca ogni carne umana… il Signore dei Signori avanza per essere immolato…”, cantato anche il Sabato Santo nella liturgia di san Basilio; segue il credo, lo scambio della pace di Cristo, e quindi l’anafora, il Padrenostro, la comunione e il congedo. Vorrei sottolineare di questa struttura: l’avvio del piccolo ingresso subito all’inizio, senza le tre antifone della liturgia di san Giovanni Crisostomo, fatto che accomuna la nostra liturgia con le liturgie di tradizione siriaca. Nelle diverse litanie fatte dal diacono si aggiunge nell’ultima petizione oltre alla Madre di Dio anche Giovanni Battista, i profeti, gli apostoli, i martiri, e in una di esse anche Mosè, Aronne, Elia, Eliseo, Samuele, Davide, Daniele. E ancora lo scambio della pace di Cristo fatto dopo il credo.
L’anafora di san Giacomo viene centrata, come d’altronde anche le altre anafore cristiane, tra due grandi movimenti di lode a Dio, cioè all’inizio dell’anafora: “E’ veramente cosa buona e giusta, conveniente e doverosa, lodare inneggiare, adorare, glorificare e rendere grazie a Te, creatore delle cose visibili e invisibili...”,  e alla fine dell’anafora la conclusione del sacerdote: “Per la grazia, la misericordia e l’amore per gli uomini del tuo Cristo, con il quale sei benedetto e glorificato insieme con il santissimo buono e vivificante tuo Spirito...”. Cioè il movimento che va dall’opera creatrice di Dio alla sua opera di santificazione operata da Cristo per mezzo dello Spirito; dalla creazione, alla redenzione, alla santificazione. Giacomo non fa, come faranno altre anafore -Giovanni Crisostomo, Basilio- l’enumerazione di tutta una serie di attributi apofatici di Dio: invisibile, incomprensibile, incommensurabile.... Troviamo soltanto tre titoli: “Creatore di tutte le cose, Tesoro dei beni, Sorgente di vita e di immortalità”; invece l’autore a lungo tutte le schiere di coloro che sono chiamati a questa lode: i cieli, il sole, la luna, la terra, il mare... e ancora: la Gerusalemme celeste, la Chiesa dei primogeniti, i giusti, i profeti, i martiri, gli apostoli, cherubini, serafini... Non si fa l’enumerazione dei temi divini da lodare, ma si fa l’enumerazione di coloro che si uniscono alla lode di Dio. È tutta la chiesa che Giacomo attira alla lode di Dio. Prima della narrazione dell’istituzione dell’eucaristia e dell’epiclesi, Giacomo narra la storia della salvezza, adoperando tutta una serie di verbi: “hai avuto compassione... hai creato l’uomo... lui cadde... non lo hai disprezzato... non lo hai abbandonato... corretto, richiamato, guidato...”, e aggiunge: “…hai inviato nel mondo il tuo proprio Figlio unigenito, nostro Signore Gesù Cristo, perché egli con la sua venuta rinnovasse e risuscitasse la tua immagine”. L’autore mette in rilievo come la venuta di Cristo rinnova nell’uomo l’immagine di Dio; in questa frase ritroviamo la soteriologia dei Padri, da Ignazio di Antiochia a Ireneo, a Origene. Vorrei ancora sottolineare qualche punto dell’epiclesi di questa anafora: Il dono dello Spirito viene invocato sui fedeli e sui doni presentati: “Manda su di noi e su questi santi doni che ti presentiamo il tuo Spirito Santissimo, Signore e vivificante, consustanziale e che condivide l’eternità......”. Ancora l’epiclesi chiede come frutto della santificazione dello Spirito che i doni diventino Corpo e Sangue di Cristo e che la Chiesa sia santificata e rimanga stabile nella roccia della fede. L’azione dello Spirito, in questa anafora, viene strettamente collegata alla sua azione lungo tutta la storia della salvezza; è Lui che “ha parlato nella Legge, nei Profeti e nella nuova Alleanza...”. L’epiclesi ha pure una chiara dimensione ecclesiologica, che verrà in qualche modo sottolineata di nuovo nella grande preghiera di intercessione alla fine dell’anafora che ha ancora degli indici chiaramente gerosolimitani: “…a sostegno della tua santa Chiesa cattolica e apostolica che hai stabilito sulla roccia della fede... Ti offriamo questo sacrificio per la tua santa e gloriosa Gerusalemme, madre di tutte le chiese... Ricordati di questa santa tua città... Ricordati Signore di tutti i cristiani che sono andati o si recano nei Luoghi santi di Cristo...”. Infine la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo porta la comunità, la Chiesa alla plenitudine della forza dello Spirito. Questo Spirito invocato sulla comunità, viene ad essa dato attraverso la comunione; lo Spirito costruisce il corpo ecclesia­le di Cristo per mezzo della santificazione, della divinizzazione di coloro che vi si comunicano.
         Celebrare la liturgia di san Giacomo, se non altro una volta all’anno, è sempre celebrare il mistero della morte e risurrezione del Signore, e farlo con una anafora che ci mette di fronte ad aspetti teologici, ecclesiologici, liturgici ed anche architettonici un po diversi da quelli a cui siamo abituati nella celebrazione liturgica bizantina, e soprattutto è celebrare con una anafora che ci fa presente la comunione con la Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le Chiese cristiane.



mercoledì 23 settembre 2015

Biglietto di ringraziamento del Papa emerito Benedetto XVI

Grazie anche a Lei, Santità.


venerdì 11 settembre 2015

L’Esaltazione della Santa Croce nell’innografia di Romano il Melodo.
Oggi la croce riapre ad Adamo il paradiso.
          La tradizione innografica dell’Oriente cristiano adopera spesso il genere letterario del “dialogo” o della “disputa”, cioè la composizione poetica in cui due personaggi o delle volte due luoghi sviluppano lungo un numero variabile di strofe un tema di carattere teologico, servendosi appunto del dialogo/disputa come genere letterario. Efrem (+373) in ambito siriaco e Romano il Melodo (+555) in ambito greco sono due esempi notevoli di innografi che si servono di questo genere letterario. Di Romano abbiamo due inni dedicati alla Croce di Cristo, di cui il primo presenta appunto la discussione tra l’Ade ed il diavolo presentato sotto la forma del serpente. È un testo che sviluppa, lungo ventun strofe, il tema della redenzione di Cristo per mezzo della sua croce; è un poema che in alcune delle strofe raggiunge una profondità e una bellezza uniche nel suo genere. Il filo conduttore del testo è il ritorno di Adamo in paradiso grazie alla croce di Cristo, che ne diventa la chiave per la sua riapertura. I tre primi tropari sono dei testi di introduzione, si potrebbe dire di situazione di tutto il poema: “La spada di fuoco non custodisce più la porta dell’Eden, perché al suo posto è sopraggiunto il lego della croce. Il pungiglione della morte e la vittoria dell’Ade sono stati inchiodati… Ed in essa inchiodato tu ci hai redenti, o Cristo Dio nostro… Le creature celesti e terrestri gioiscono con Adamo, perché è stato chiamato di nuovo nel paradiso”. La prima delle strofe, che è poi entrata nella tradizione bizantina come kontakion in alcuni giorni dell’anno liturgico, descrive quasi fisicamente il Golgota e l’Ade sconfitto dalla croce: “Tre croci piantò Pilato sul Golgota, due per i ladroni e una per il Datore di vita; l’Ade la vide e disse a quelli di laggiù: «O miei ministri e miei eserciti, chi ha conficcato un chiodo nel mio cuore? Una lancia di legno mi ha trafitto all’improvviso… e sono costretto a rigettare Adamo e i nati da lui che a me mediante un albero erano stati dati: un albero li introduce di nuovo nel paradiso»”.



          La disputa tra l’Ade ed il diavolo/serpente inizia dalla strofa seconda, con il rimprovero di costui all’Ade che si accorge di essere sconfitto dalla croce, rimprovero originato dalla cecità del serpente di fronte alla forza della croce di Cristo: “Ade che hai? Perché piangi a vuoto? Ho architettato io lassù per il figlio di Maria questo legno che ti ha spaventato… E’ la croce sulla quale ho fatto inchiodare Cristo, perché con un legno voglio distruggere il secondo Adamo. Non ti turbare, continua a tenere stretti i tuoi prigionieri”. E la risposta dell’Ade rimproverato che diventa quasi una professione di fede nella redenzione avvenuta nella croce: “Corri ed apri bene i tuoi occhi, e guarda la radice del legno dentro la mia anima: mi è scesa fin nel profondo per portare in alto Adamo ed essere ricondotto in paradiso”. Lungo quattro strofe l’innografo prosegue con i rimproveri tra l’Ade ed il diavolo, descritti dal poeta orbo l’uno e cieco l’altro. L’Ade presenta al serpente la forza della croce di Cristo: “L’ora presente ti mostrerà la potenza della croce e la grande autorità del Crocifisso. Per te la croce è stoltezza, ma da tutto il creato è ammirata come un trono, inchiodato sul quale Gesù ascolta il ladrone e gli dice: «Oggi, povero uomo, con me entrerai di nuovo nel paradiso»”. La promessa fatta da Cristo al ladrone fa reagire ed aprire gli occhi al diavolo cieco che confessa la sua sconfitta; e l’autore sottolinea il legame tra l’audizione e la visione nella confessione del diavolo: “Il serpente vide quel che aveva udito: il ladrone rendere testimonianza a Cristo che testimoniava per lui… E (il diavolo) sbigottito e battendosi il petto diceva: «Parla con un ladrone e non risponde agli accusatori? Neanche di una parola ha degnato Pilato, ed adesso si rivolge ad un assassino?»”. Sconfitto il diavolo cerca rifugio presso l’Ade e nella sua disfatta descrive la salvezza che sgorga dalla croce di Cristo, luogo della vittoria col suo sangue e della vita che sgorga dall’acqua del costato di Cristo; Romano ci presenta messo in bocca del diavolo un riferimento di carattere sacramentale del battesimo e dell’eucaristia: “«Accoglimi, Ade: presso di te è il mio rifugio! Ho visto anch’io il legno che ti ha spaventato, e arrossato di sangue ed acqua… L’uno prova l’uccisione di Gesù, l’altro prova che egli è vivo, poiché la vita è sgorgata dal suo fianco… ed è stato il secondo Adamo a far rifiorire Eva, la madre dei viventi, di nuovo nel paradiso»”. Le parole di Gesù sulla croce quindi diventano buona novella, vangelo anche per gli occhi e le orecchie dei due personaggi della disputa. In questa strofa, la quattordicesima, troviamo delle immagini di una profondità poetica e teologica ineguagliabili: “«Aspetta, Ade sciagurato», disse piangendo il demonio, «taci, sopporta. Sento una voce annunciatrice di gioia, un sussurro mi è giunto che porta buone notizie, un brusio come di foglie dall’albero della croce. Sul punto di morire Cristo ha detto: “Padre, pedona loro… non sanno quel che fanno”. Noi però sappiamo che colui che soffre è il Signore della gloria, che vuol riportare Adamo di nuovo nel paradiso»”. La croce quindi diventa luogo di conversione, non più albero di condanna, vigna dai tralci amari, bensì luogo della dolcezza e della vita: “Piangiamo ora, o Ade, vedendo l’albero che avevamo piantato trasformato in un tronco sacro! Ai suoi piedi hanno preso dimora e fra i suoi rami hanno nidificato briganti e assassini, esattori e meretrici, per cogliere il frutto della dolcezza da quello che pareva un albero secco. Abbracciano la croce come pianta della vita, si aggrappano ad essa per compiere a nuoto la traversata col suo aiuto e approdare di nuovo nel paradiso!”. Infine Romano nella penultima delle strofe mette in bocca all’Ade il tema del furto del ladrone che nella croce “ruba” la sua salvezza: “Nessuno di noi dovrà più far violenza alla stirpe di Adamo, perché è stata segnata dal sigillo della croce, come un tesoro che dentro un fragile scrigno ha una perla inviolabile, che l’accorto ladrone sulla croce è riuscito a sottrarre… e per questo furto è stato chiamato di nuovo nel paradiso!”. L’inno di Romano finisce con una preghiera che rinchiude tutta la teologia della salvezza per mezzo della croce sviluppata lungo il poema: “Altissimo e glorioso, Dio dei padri e dei fanciulli… la tua croce è la gloria di noi tutti… La nave di Tarsis una volta recava oro a Salomone nel tempo stabilito: a noi il tuo legno procura ogni giorno e ogni momento ricchezza incalcolabile, perché conduce tutti di nuovo nel paradiso”.

domenica 6 settembre 2015

La Natività della Madre di Dio nell’innografia siriaca.
La Madre di Dio tesse un vestito di gloria.
          L’abbondantissima produzione letteraria messa sotto la paternità di sant’Efrem il Siro (+373), ha una serie di inni considerati dagli editori come dei testi soltanto attribuibili al grande Padre della Chiesa siriaca, ma in realtà composti dal V secolo in poi e certamente ispirati all’innografia di Efrem. Molti di questi inni pseudo efremiani sono dedicati a Maria nella sua divina maternità, inni che la cantano, meditando e lodando allo stesso tempo il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio. Ci soffermiamo in due di questi inni. Ambedue iniziano con una sorta di preghiera a Cristo, affinché sia Lui stesso a illuminare il canto del poeta: “La Vergine mi chiama a cantare il mistero che ammiro. Dammi, o Figlio di Dio, il tuo dono di ammirazione… per dipingere un’immagine piena di bellezza alla tua Madre. Canterò per tua grazia, o Signore, inni eletti alla Vergine, la quale divenne madre in modo prodigioso; lei è vergine e pur madre. Lode a colui che la prescelse!”. La verginità di Maria ed il concepimento in lei del Verbo di Dio incarnato vengono messi in evidenza con delle immagini molto contrastanti, a partire dall’umanità stessa di Maria nel suo essere pienamente donna e concepire verginalmente: “Un feto nel suo seno senza connubio, grande prodigio! Latte è nelle sue mammelle, cosa inconsueta! I segni della verginità assieme al latte sono nel suo corpo…”. E prosegue con delle espressioni che sottolineano la divino umanità di Colui che è nato da Maria: “La Vergine Maria santamente partorisce il Figlio; dà il latte a colui che nutre il genere umano; sulle ginocchia sostiene colui che tutto sostiene. Lei è Vergine, è pure Madre: cosa lei non è?”.
         L’autore prosegue introducendo il tema della verginità –sia in un riferimento alle dieci vergini del vangelo-, sia soprattutto tenendo presente la verginità come realtà ecclesiale già nel IV secolo nelle Chiese di tradizione siriaca: “In Maria goda tutta la schiera delle vergini, perché una fra di esse si è chinata e ha partorito il Gigante che sostiene le creature, lo stesso che liberò il genere umano fatto schiavo”. Il riferimento cristologico al “gigante” partorito da Maria è preso dal salmo 18,6, un testo che la tradizione dei Padri e le liturgie orientali ed occidentali hanno letto ed interpretato applicato a Cristo stesso nella sua incarnazione e nascita da Maria.
         Nel primo dei due inni di cui facciamo la lettura, troviamo una serie di quattro strofe che iniziano con la forma: “Si rallegrino in Maria…”, ed enumerano tutti coloro che per mezzo di lei trovano in Cristo la loro piena redenzione, ad iniziare da Adamo stesso fino ai sacerdoti, ai profeti e ai padri: “Si rallegri in Maria Adamo ferito dal serpente, perché lei a lui ha fornito la pianta medicinale… Si rallegrino in Maria i sacerdoti, perché lei ha partorito il grande sacerdote divenuto vittima… La schiera dei profeti, perché in lei si sono adempiute le loro profezie…”. Il nesso con Adamo guarito dalla medicina che è Cristo stesso porta l’autore in ambedue inni a cantare il tema dell’incarnazione e la nascita del Verbo di Dio vista come una nuova creazione di Adamo, di Eva e dell’umanità stessa: “Maria dette il dolce frutto agli uomini, in luogo di quel frutto dell’amarezza che Eva aveva raccolto dall’albero… Maria tesse una stola di gloria per il suo padre che era stato denudato tra gli alberi: rivestendola castamente, egli acquistò decoro… ”. Maria ancora è presentata come vite che produce il vino che è Cristo stesso, riferimento che ha anche un carattere eucaristico e collegato con il vino come bevanda di salvezza: “La vite verginale produsse un grappolo dal dolce vino, e per esso furono consolati dalle tristezze Adamo ed Eva addolorati: gustando il farmaco di vita, e furono da questo consolati dalle loro tristezze”.

         Il collegamento che l’autore fa tra Eva e Maria viene sviluppato ancora nell’ultima parte del secondo degli inni. Dopo aver di nuovo avvicendato le dieci vergini con delle lampade in mano del vangelo di Matteo con Maria vergine che porta l vera luce del mondo e che è Cristo stesso, l’innografo si dilunga a sviluppare il nesso tra Eva e Maria, tra la caduta nel peccato e la redenzione –la nuova creazione- avvenuta nella nascita di Cristo: “Per lei si sollevò il capo di Eva rimasto abbattuto. Maria infatti ha portato il Bambino che afferrò il serpente, e le foglie della nudità si tramutarono in gloria. Due vergini ha avuto l’umanità: una causa della vita, l’altra della morte; da Eva spuntò la morte, da Maria la vita”. E ancora l’autore riprende il tema del vestito di gloria tessuto da Maria nel suo grembo: “La madre caduta fu sorretta da sua figlia, e poiché quella era rivestita di foglie di nudità, questa le tesse e le dette un vestito di gloria”. In diverse strofe dei due inni troviamo ancora i titoli cristologici dati a Maria e presi da immagini veterotestamentarie: lei è il campo che non ha conosciuto il seminatore, lei è la nave che porta agli uomini il frutto della salvezza, lei è la lampada che porta la luce per gli uomini: “Per Maria spuntò la luce che scacciò le tenebre che si erano diffuse tramite Eva offuscando l’umanità. Per mezzo di Maria il mondo è stato illuminato”.