martedì 4 agosto 2015

La Trasfigurazione del Signore nell’omelia di Anastasio il Sinaita.
Oggi tutta la creazione è trasfigurata.
       La festa della Trasfigurazione del Signore, celebrata il 6 agosto, è una delle feste importanti nei calendari delle Chiese cristiane di Oriente e di Occidente. L’iconografia della festa ci riporta a dei capolavori di carattere musivo nel monastero di santa Caterina del Sinai (VI s.), a Ravenna a san Apollinare in Classe (VI s.) e a Roma ai santi Nereo ed Achilleo (VIII-IX s.). Diversi Padri hanno commentato la pericope della festa: Origene, Efrem, Giovanni Crisostomo, Agostino. In queste righe vorrei presentare l’omelia per la Trasfigurazione di Anastasio il Sinaita, un autore di cui abbiamo poche notizie biografiche, e che visse nel Sinai come monaco nella seconda metà del VII secolo.
        Anastasio inizia l’omelia con una captatio benevolentiae facendo un elogio del monte Tabor, dove avviene l’episodio evangelico della Trasfigurazione del Signore, partendo dalla visione di Giacobbe nel libro della Genesi: “Quanto è terribile questo luogo! Mi viene da gridare come Giacobbe, nel giorno della festa di questo monte. Come lui, vedo anche io una scala che sale dalla terra al cielo, poggiata sulla cima di questo monte. Anche io dico: Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”. La grandezza del monte come luogo santo, come nuovo Sinai, Anastasio la vede nella testimonianza del Padre e nella manifestazione del Figlio, sole di giustizia. Il monte Tabor, lungo tutta l’omelia verrà presentato come tipo della Chiesa stessa, luogo della piena rivelazione del Verbo di Dio incarnato. La stessa liturgia del giorno ne diventa epifania.
        Anastasio fa una lunga lode del monte della Trasfigurazione, prefigurato nell’Antico Testamento e manifestato nel Nuovo: “Questo è il monte da cui si è staccata la pietra, cantato dagli angeli e di cui parlano i profeti, annunciato dal salmista, che istruisce gli ignoranti ed illumina i peccatori… creato dalla mano destra del Signore…”. Tutta una serie di temi che fanno del monte Tabor un tipo della Chiesa stessa, luogo della redenzione, dell’istruzione e dell’illuminazione. E senza soluzione di continuità passa alla simbologia neotestamentaria: “In questo monte sono stati prefigurati i simboli del Regno, preannunciato il mistero della crocifissione, svelata la bellezza del Regno e manifestata la seconda venuta di Cristo. In questo monte i beni futuri furono presentati già come attuali… In questo monte si preannuncia senza inganno la nostra immagine futura e la nostra configurazione con Cristo”. E Anastasio associa alla gioia del monte Tabor anche quella di tutta la creazione: le altre montagne esultano, le colline si riempiono di fiori e di foreste, i ruscelli che scorrendo fanno risuonare la loro voce di lode nell’acqua, gli uccelli i loro cinguettii. E aggiunge una frase che dà la chiave ecclesiologica alla simbologia del Tabor: “Questa montagna è il luogo dei misteri, il posto delle realtà ineffabili, la roccia dei segreti nascosti e la sommità dei cieli”. Il Tabor come chiesa, e come altare.
        Anastasio prosegue l’omelia situando la liturgia della festa, e con una lunga serie di frasi iniziate con “oggi”, dà la spiegazione della festa stessa della Trasfigurazione: “Oggi sul Tabor è stata rinnovata e trasformata l’immagine della bellezza terrestre in bellezza celeste… Oggi il Tabor e l’Hermon esultano ed invitano tutto l’universo alla gioia… Oggi Galilea e Nazareth danzano insieme e si rallegrano per la festa…”. E quindi sgrana tutta la redenzione operata da Cristo e quasi annunciata in anticipo nella sua Trasfigurazione: “Oggi il Signore è stato visto sul monte. Oggi la natura di Adamo, già creata a somiglianza di Dio ma oscurata dagli idoli, è stata riportata alla sua primitiva bellezza di uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Oggi la natura che si era allontanata per l’idolatria, risplende di nuovo nei raggi della divinità”. Anastasio sottolinea ancora come la Trasfigurazione del Signore allontana le vecchie tuniche di pelle e riveste l’uomo di luce come di un manto. Il giorno della Trasfigurazione è la festa in cui gli araldi dell’antica e la nuova alleanza appaiono accanto al Signore. E con una bella immagine l’autore paragona il Tabor con il Golgota: “Fu crocefisso tra due uomini sul Golgota, ed oggi appare divinamente tra Mosè ed Elia”. E prosegue paragonando il Sinai col Tabor: “Sul Sinai la tormenta, sul Tabor il sole… Là il decalogo, qua il Verbo preesistente. Là la verga germina, qua la croce fiorisce. Là le quaglie come castigo, qua la colomba come salvezza. Là Maria, sorella di Mosè, suonò il tamburello, qua Maria genera divinamente. Là Elia si nascondeva, qua vede Dio”.

        Nella parte centrale del testo omiletico, l’autore mette in bocca di Mosè una lunga anamnesi dei fatti adoperati da Dio nell’antica alleanza nel Sinai e che adesso sul Tabor trovano la loro pienezza, un testo che è una professione di fede nella vera incarnazione del Verbo di Dio: “E adesso ti vedo, tu che sei con il Padre e sula montagna hai detto: «Io sono colui che sono». Che io possa vederti per poterti conoscere. E adesso ti vedo non più di spalle bensì visibilmente sul Tabor… Tu che sei il Dio pieno di amore, nascosto nella mia forma umana… Tu che scendesti nel roveto ardente, che guidasti e dissetasti il popolo nel deserto… adesso sei sceso per umanizzare la natura dell’uomo che era disumana…”. E a conclusione dell’omelia Anastasio invita tutta la creazione, anch’essa trasfigurata in Cristo, e specialmente il Tabor e tutte le montagne a un cantico di lode con uno sguardo quasi geografico a tutta la terra santa della Galilea che si espande ai piedi del monte della Trasfigurazione: “Rallegrati, Creatore di tutte le cose, o Cristo re, Figlio di Dio pieno di luce, che a tua immagine hai trasfigurato tutta la creazione. Rallegrati, Maria, santa montagna amata da Dio, che hai formato Cristo nella carne ma senza trasfigurarla; Maria, cittadina di Nazareth, Vergine Madre di Dio. Rallegrati Nazareth, santuario di Dio. Rallegrati Tabor, la più bella tra le montagne. Rallegrati mare di Tiberiade, percorso e santificato dai piedi divini. Rallegratevi, sacerdoti santi che portate nella terra di Melchisedec l’immagine di Cristo. Rallegratevi, assemblee angeliche dei vergini e delle vergini imitatori di Elia il tesbita. Rallegrati Chiesa dei credenti, celebrando questa festa in onore del vero Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo. A lui la gloria nei secoli. Amen”.





venerdì 3 luglio 2015

La chirotonia episcopale del nuovo vescovo eparchiale di Piana degli Albanesi
Sotto lo sguardo di Cristo, vedendo la nascita del pastore…
         Il 26 ottobre 1937 con la bolla “Apostolica Sedes” Papa Pio XI creava l’eparchia di Piana dei Greci per i fedeli di rito bizantino della Sicilia. Quattro vescovi si sono succeduti fino ai nostri giorni: Giuseppe Perniciaro (1967-1981, benché amministrava l’eparchia già dal 1938); Ercole Lupinacci (1981-1987), Sotir Ferrara (1988-2013) e Giorgio Demetrio Gallaro, ordinato vescovo proprio lo scorso 28 giugno 2015.  L’ordinazione è stata divisa in due momenti. Il primo si è svolto il giorno 27 giugno sotto lo sguardo dei magnifici mosaici della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio di Palermo, concattedrale nel capoluogo siciliano dell’eparchia bizantina e dal 1943 sede della parrocchia di San Nicolò dei Greci alla Martorana, a Palermo, durante la celebrazione del vespro nella quale il vescovo eletto Giorgio Demetrio ha pronunciato la sua professione di fede. Erano già presenti il cardinale Paolo Romeo, che per due anni è stato amministratore apostolico di Piana degli Albanesi, e i tre vescovi ordinanti: Donato Oliverio di Lungro, Dimitri Salachas di Atene e Nicola Samra di Newton negli Stati Uniti. Dopo il lucernario con l’ingresso del vespro, il primo vescovo ordinante ha chiesto per tre volte all’ordinando qual è la sua professione di fede. L’eletto in piedi sopra un tappeto in cui è rappresentata un’aquila (simbolo del ministero di cura e di veglia che il vescovo, come l’aquila che sorveglia dall’alto la nidiata, dovrà esercitare sul suo gregge), ha confessato la sua professione di fede davanti ai vescovi e davanti alla Chiesa che lo accoglie e che ne diventa il gregge. Tre sono le professioni di fede proclamate dall’eletto: la prima è il credo niceno costantinopolitano; la seconda è una professione di fede molto più dettagliata, in cui si sviluppano aspetti trinitari e cristologici; e la terza sviluppa ancora di più diversi punti cristologici per quanto riguarda l’incarnazione del Verbo di Dio. Tre professioni di fede quindi che riassumono la fede della Chiesa, che fu formulata già nei grandi concili ecumenici dei secoli IV e V; inoltre queste professioni di fede hanno una forte dimensione ecclesiologica in quanto sono proclamate alla presenta e dei vescovi ordinanti e della comunità cristiana radunata.
         Il giorno seguente, 28 giugno, alle 10 del mattino, nella cattedrale di San Demetrio Megalomartire a Piana degli Albanesi è stata celebrata la Divina Liturgia e l’ordinazione episcopale di P. Giorgio Demetrio Gallaro. Il corteo del clero e dei fedeli è partito dalla chiesa di San Nicola e dall’episcopio e in processione si è avviato verso la cattedrale di San Demetrio. Oltre ai vescovi sopra accennati, erano presenti l’eparca emerito di Piana degli Albanesi Sotir Ferrara e diversi vescovi orientali cattolici dell’Europa, tra cui mons Fulop Kocsis metropolita di Hajdudorog in Ungheria; era presente mons. Silvano Maria Tomasi osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, l’abate del monastero di Grottaferrata p. Michel van Parys, ed il rettore del Pontificio Collegio Greco di Roma p. Manuel Nin. In rappresentazione della Congregazione per le Chiese Orientali, erano presenti il sottosegretario P. Lorenzo Lorusso OP, e P. Martin Mihal’. All’inizio della celebrazione il cardinale Paolo Romeo  ha indirizzato un saluto alla Chiesa di Piana che per due anni lui ha servito come amministratore apostolico, sottolineando l’importanza del momento dell’ordinazione in cui in fedeli di una Chiesa vedono nascere il loro padre. Colui che ne diventa pastore e padre viene generato dallo Spirito Santo nel corso della celebrazione liturgica. Concludendo il suo servizio nella Chiesa di Piana, il cardinale ha messo in evidenza la ricchezza di questa realtà cristiana ed ecclesiale che è la Chiesa italo albanese in Sicilia. La cattedrale di San Demetrio era gremita di fedeli, ed anche le strade adiacenti. I canti liturgici sono stati eseguiti da due cori dell’eparchia: il coro della stessa cattedrale, e quello di Palazzo Adriano, uno dei cinque paesi che formano l’eparchia, assieme a Santa Cristina Gela, Contessa Entellina, Mezzojuso e la stessa Piana degli Albanesi. 
         Nella tradizione bizantina l’ordinazione episcopale avviene dopo l’ingresso col vangelo, cioè prima delle letture della Sacra Scrittura, mentre che quella sacerdotale avviene prima dell’anafora, e quella diaconale alla fine dell’anafora e prima della comunione, ad indicare il ruolo che ognuno ha nella celebrazione della Divina Liturgia. La Divina Liturgia inizia nel modo normale, e fatto l’ingresso col Vangelo e cantati i tropari e l’inno Trisaghion, è stata letta la bolla papale di nomina del nuovo eparca. Quindi l’eletto è stato portato al santuario e accompagnato dai tre vescovi ordinanti, ha fatto tre giri attorno all’altare baciandone i quattro angoli, ad indicare il vincolo e la piena configurazione del vescovo con Cristo di cui l’altare è simbolo. Mentre l’eletto compie i tre giri, si cantano i tropari dei martiri, degli apostoli e della Madre di Dio, cioè di coloro che hanno predicato con la loro vita, la loro parola ed il loro sangue il Vangelo di Cristo e con lui sono stati pienamente configurati. Dopo il triplice giro all’altare, l’ordinando genuflette davanti all’altare e appoggia su di esso le mani e la testa. Il primo dei vescovi apre l’evangeliario e dalla parte del testo lo colloca sul capo dell’eletto; gli altri due sostengono l’evangeliario. Vengono recitate dal primo vescovo le tre preghiere di ordinazione; la prima delle tre preghiere: La grazia divina che ha sempre guarito de debolezze e rimpiazzato le mancanze, ha designato il piissimo prete Giorgio Dremetrio per essere vescovo della città di Piana degli Albanesi. Preghiamo per lui affinché venga su di lui la grazia dello Spirito Santo, è una delle formule epicletiche più arcaiche presenti nella liturgia delle Chiese Cristiane Orientali. Seguono altre due preghiere in cui si chiede che il nuovo vescovo sia fortificato con la grazia dello Spirito Santo e sia imitatore tuo (Cristo), di te che sei il vero Pastore che ha dato la sua vita per le pecore. Fa di lui una guida per i ciechi, una lucerna per coloro che sono nelle tenebre, un precettore per gli ignoranti, un pedagogo per i piccoli, una luce nel mondo.
         Finite le tre preghiere, anche i vescovi latini presenti sono passati dd imporre le mani al già ordinato vescovo.  Quindi costui è stato rivestito coi parati episcopali: il sakkos, sorta di tonaca con due maniche indossato dal vescovo nella tradizione bizantina; il grande omoforion, che è il parato liturgico a forma di grande e larga stola bianca che poggia sulle spalle del vescovo, scendendo in due fasce sul petto e sulla schiena fino alle ginocchia. È il parato liturgico vero e proprio che lo identifica e lo mostra come vescovo, e sarà con l’omoforion che il vescovo nelle ordinazioni impone le mani su coloro che vengono ordinati diaconi, preti o vescovi. La sua simbologia è quella della pecora smarrita che il buon pastore si carica sulle sue spalle. Nelle tradizioni orientali si tratta di un simbolo cristologico e non ecclesiologico, e viene imposto, consegnato unicamente al momento dell’ordinazione episcopale. Quindi l’epigonation (sorta di stoffa triangolare che cadde sul ginocchio destro), la corona episcopale ed il bastone pastorale, simboli del ministero del pastore verso la sua Chiesa, bastone di appoggio e di sostegno… di correzione e di punizione…, recita la preghiera del vescovo nel consegnare il pastorale. Prima di farglieli indossare il vescovo ordinante li mostra ai fedeli con l’acclamazione: axios (degno), a cui tutta l’assemblea con forza risponde all’unisono: axios, axios, axios, ad indicare l’accoglienza che la Chiesa fa del vescovo che gli viene consegnato come pastore. Quindi la Divina Liturgia procede con le letture dell’Apostolo e del Vangelo. Il vescovo ordinato diventa il primo celebrante, vero pastore che commenta ai fedeli la Parola di Dio, e che invoca lo Spirito Santo sui Doni e sui fedeli affinchè tutti, il pane ed il vino, lui stesso diventato vero pastore e i fedeli a lui affidati diventino vero Corpo di Cristo. 
         Alla fine della liturgia, celebrata sotto lo sguardo di Cristo, della Madre di Dio e dei Santi rappresentati nei bei affreschi della cattedrale di San Demetrio, il neo eparca ha ringraziato tutti coloro che con la loro presenza e la loro preghiera hanno fatto corona al nuovo pastore della Chiesa di Piana degli Albanesi.



giovedì 25 giugno 2015










Tre strumenti utili
per approfondire l’Oriente cristiano


Mi permetto di mandarvi per conoscenza, la presentazione
dei tre volumi raccolta degli articoli apparsi su L’Osservatore
Romano, testi che presentano e studiano diversi aspetti delle
liturgie cristiane di tradizione orientale, sia bizantina che siriaca.
Tre volumi che cercano di farci conoscere il “largo respiro” delle
Chiese cristiane orientali.

Me permito mandarles para su conocimiento, la presentación
de tres volùmenes que contienen la serie de artìculos
aparecidos en El Osservatore Romano, textos que presentan y
estudian diversos aspectos de las liturgias cristianas de tradición
oriental, bizantina y siriaca especialmente. Tres volùmenes que
quieren introducirnos al “ancho respiro” de las Iglesias cristianas
orientales.

Permettez-moi de vous envoyer la présentation des trois volumes,
recueil des articles publiés dans L'Osservatore Romano, textes
qui présentent les différents aspects des liturgies chrétiennes de
la tradition orientale, surtout byzantine et syriaque. Trois volumes
qui tentent de nous faire connaître le large souffle des Eglises
chrétiennes orientales.

Let me to send you the presentation of the three volumes,
the collection of articles published in L'Osservatore Romano,
texts presenting and studying different aspects of the Christian
liturgies of the Eastern tradition, both Byzantine and Syriac. Three
volumes that try to make us know the "wide ranging" of Eastern
Christian Churches.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco

venerdì 22 maggio 2015

L’invocazione dello Spirito Santo nella tradizione siro occidentale.
Infuocati dallo Spirito
       La tradizione liturgica della Chiesa siro occidentale, chiamata anche Chiesa siro antiochena, possiede un’abbondante patrimonio di testi di anafore eucaristiche, una settantina nell’insieme, di cui una ventina soltanto edite finora. Testi di attribuzione e paternità molto varia: san Giacomo primo vescovo di Gerusalemme, san Marco, san Giovanni Evangelista, Dodici Apostoli, Gregorio di Nazianzo, Severo di Antiochia, Dioscoro, Giacomo di Sarug, cioè nomi di apostoli, e di santi padri legati molti di essi alla tradizione cristologica di questa Chiesa. Ci soffermiamo in modo particolare nell’epiclesi che si trova in alcune di queste anafore, cioè la preghiera di invocazione dello Spirito Santo sul pane e sul vino affinché diventino il Corpo ed il Sangue di Cristo. In tutti i testi anaforici è sempre lo Spirito Santo colui che è invocato per la consacrazione del pane e del vino, allo stesso modo che è Lui che santifica e consacra l’acqua battesimale e l’olio santo. Filosseno di Mabbug, vescovo siriaco nel VI secolo, dirà che: “I misteri appaiono agli occhi degli uomini come semplici cose, ma per l’irruzione dello Spirito Santo ricevono una forza soprannaturale; l’acqua, da una parte, diventa grembo materno che genera dei figli alla vita dello Spirito. L’olio riceve la forza santificatrice che unge e consacra allo stesso tempo corpo ed anima; il pane ed il vino diventano il Corpo ed il Sangue del Figlio di Dio fatto uomo”. Il tema dell’acqua come grembo e il battesimo come nascita è un aspetto molto tipico della teologia siriaca; inoltre ci troviamo di fronte ad una forza e ad una presenza misteriosa che agisce ed opera nell’eucaris­tia; si tratta di una trasformazione e di una presenza divina dello Spirito Santo. Efrem, in una omelia sulla Settimana Santa afferma: “Voi mangerete una Pasqua pura ed immacolata, un pane lievitato e perfetto che lo Spirito Santo ha preparato e ha fatto cuocere, un vino mescolato di fuoco e di Spirito: il Corpo ed il Sangue di Dio, che fu vittima per tutti gli uomini”.
Nelle anafore il sacerdote, dopo la narrazione dell’istituzione dell’eucaristia, invoca lo Spirito Santo sui doni e sulla comunità ecclesiale: “Anco­ra ti chiediamo, Signore di tutto e Dio delle potenze sante, prostrandoci davanti a te sul nostro volto, di mandare il tuo Spirito Santo su queste offerte qui poste…. E rivela che questo pane è il Corpo prezioso del nostro Signore Gesù Cri­sto… E che questo calice è il Sangue del nostro Signore Gesù Cristo…. Perché questi san­ti sacramenti siano per tutti coloro che ne prenderanno: vita, ri­surrezione, remissione dei peccati, gua­rigione del­l'anima e del corpo, il­lumina­zione dello spirito, giustificazione davan­ti al tre­mendo tribunale del tuo Cristo…” (Dodici Apostoli). Nell’anafora di san Giacomo troviamo ben presente tutta la teologia dello Spirito Santo sviluppatasi nella seconda metà del IV secolo, in tre aspetti ben concreti, cioè in quello che lo Spirito Santo è: “il tuo Santissimo Spirito, che è Signore e dà la vita, assiso sul trono insieme con te, Dio e Padre, e con l’unigenito Figlio tuo, che regna con te, della stessa sostanza, coeterno, che ha parlato nella legge, nei profeti e nel Nuovo Testamento...”. Poi in quello che lo Spirito fa, cioè la santificazione dei doni: “Affinché per la sua venuta faccia di questo pane il Corpo di Cristo... E di quello che è mescolato in questo calice il Sangue di Cristo...”. Quindi in quello che i Santi Doni diventano per i fedeli e per la Chiesa: “Affinché questi misteri diano a coloro che li ricevono e ne partecipano, santità dell’anima e del corpo, e producano in essi frutti di buone opere, raffermino la tua santa Chiesa, che tu hai fondato sulla roccia della fede, e contro di essa le porte degli inferi non prevarranno, preservandola da ogni eresia e degli scandali di coloro che trasgredisco­no la fede…”. Quindi da sottolineare la dimensione ecclesiologica della teologia dello Spirito Santo nelle anafore siriache: la santificazione adoperata dallo Spirito sui Santi Doni è in vista alla santificazione dei fedeli, alla purificazione delle loro mancanze e al perdono dei loro peccati. Inoltre nell’anafora attribuita a san Giovanni Evangelista, troviamo una triplice epiclesi, sul sacerdote, sui doni e sui fedeli: “Signore, pieno di bontà e di misericordia, abbi pietà di me e manda su di me e su queste offerte il tuo Spirito vivente, santo e vivificante… Che lui discenda su questi misteri e li santifichi, affinché una volta sceso faccia di questo pane il Corpo di Cristo nostro Dio, e di questo calice il sangue dello stesso Cristo nostro Dio. Affinché questi misteri purifichino i cuori di coloro che ne parteciperanno, rendano spirituali i loro pensieri e santifichino le loro anime…”. Riprendendo l’immagine dello Spirito Santo adoperata nel testo sopra citato di sant’Efrem, Lui è il fuoco nascosto che avvolge il sacerdote che adopera il sacrificio; il fuoco che sorvola l’altare e che discende sui doni all’epiclesi.
Lo Spirito Santo quindi come fuoco, ed i suoi effetti. Gli autori siriaci parleranno del calore, della lievitazione, della cottura, dell’incandescenza..., applicate allo Spirito Santo, come simboli di realtà spirituali. Parlando dello Spirito Santo come fuoco, vogliono sottolineare l’opera divina dello Spirito Santo per mezzo dei Santi Doni: diventati infuocati nello Spirito Santo, per mezzo di essi i fedeli sono vivificati e ricevono i doni dell’immortalità.

          All’invocazione del sacerdote, quindi, lo Spirito Santo, donatore di vita, scende sulle offerte collocate sull’altare e che rappresentano Cristo messo nella tomba. In qualche modo si può dire che il sacerdote invoca lo Spirito Santo affinché renda presente la risurrezione di Cristo sull’altare; cioè dia al Corpo di Cristo messo nella tomba l’immortalità, l’incorruttibilità e lo faccia diventare, come abbiamo letto nell’epiclesi dell’anafora di san Giacomo: “Corpo datore di vita, Corpo che dà la salvezza alle nostre anime e ai nostri corpi, Corpo del Signore, Dio grande e Salvatore nostro Gesù Cristo”.


martedì 12 maggio 2015

L’Ascensione del Signore nell'ufficiatura bizantina
Sulle spalle del buon Pastore
          L’Ascensione del Signore, celebrata il quarantesimo giorno dopo la Risurrezione del Signore è una delle grandi feste dell’anno liturgico. Egeria nella seconda metà del IV secolo parla di una celebrazione il quarantesimo giorno dopo Pasqua ma che si fa a Betlemme e non sul monte degli ulivi da dove il Signore ascende in cielo; quasi ad evidenziare mettendole in parallelo la nascita del Verbo di Dio incarnato e la sua glorificazione in cielo. Uno dei tropari dell’ufficiatura bizantina per questa festa recita: “Prendendoti sulle spalle, o Cristo, la natura che si era smarrita, sei asceso al cielo e l’hai presentata a Dio Padre”. Tutta la liturgia dell’Ascensione nella tradizione bizantina si muove attorno a questi due punti fondamentali: l’incarnazione del Verbo di Dio, la sua kenosi, il suo farsi piccolo, uno di noi; e quasi in parallelo la sua Ascensione alla destra del Padre che ha come conseguenza la glorificazione della natura caduta dell’uomo, di Adamo e di tutto il genere umano glorificato col Figlio alla destra del Padre.
     I tropari dell’ufficiatura del vespro, già dall'inizio, mettono in luce i diversi aspetti che verranno sottolineati lungo la liturgia della festa. In primo luogo l’Ascensione di Cristo collegata con il dono dello Spirito Santo: “Il Signore è asceso ai cieli per mandare il Paraclito nel mondoSignore, quando gli apostoli ti videro sollevarti sulle nubi, tra i lamenti dicevano: O Sovrano, non lasciare orfani i tuoi servimandaci, come hai promesso, lo Spirito santissimo”. In secondo luogo la gioia delle schiere celesti (gli angeli) e delle schiere degli uomini (gli apostoli) per l’Ascensione di Cristo nella carne: “Signore, alla tua ascensione restarono attoniti i cherubini, vedendo venire sulle nubi te, Dio, che siedi su di loro… Contemplando la tua esaltazione sui monti santi, o Cristo, noi cantiamo la luminosa figura del tuo volto…, glorificando la tua gloriosa ascensione”. Infine la confessione della vera incarnazione del Verbo di Dio e quindi la piena redenzione del genere umano: “Il Signore è asceso ai cieli, che hanno preparato il suo trono, le nubi il carro su cui salire; stupiscono gli angeli vedendo un uomo al di sopra di loro. Il Padre riceve colui che dall'eternità, nel suo seno dimora… Signore, compiuto il mistero della tua economia… te ne sei andato oltre il firmamento del cielo. O tu che per me come me ti sei fatto povero, e sei asceso là, da dove mai ti eri allontanato…”. E ancora quasi a ribadire la doppia natura del Verbo incarnato, troviamo in un altro dei testi: “Tu che, senza separarti dal seno paterno, o dolcissimo Gesù, hai vissuto sulla terra come uomo, oggi dal Monte degli Ulivi sei asceso nella gloria: e risollevando, compassionevole, la nostra natura caduta, l’hai fatta sedere con te accanto al Padre”. Diversi dei tropari sottolineano questa piena glorificazione della natura umana assunta da Cristo, alla destra del Padre.
         Due altri dei tropari del vespro hanno un particolare interesse da sottolineare: “Sei stato partorito, come tu hai voluto; ti sei manifestato, come avevi stabilito; hai patito nella carne, o Dio nostro; sei risorto dai morti e hai calpestato la morte; sei asceso nella gloria, tu che tutto riempi, e ci hai mandato lo Spirito divino affinché celebriamo e glorifichiamo la tua divinità”. Si tratta proprio di una confessione di fede, quasi una formula di un simbolo che riassume tutta la professione di fede cristiana: il Verbo di Dio che si incarna, nasce, patisce, muore e risorge; quindi ascende in cielo e manda il dono dello Spirito Santo. Il secondo tropario recita: “Mentre tu ascendevi, o Cristo, dal Monte degli Ulivi, le schiere celesti che ti vedevano, si gridavano l’un l’altra: Chi è costui? E rispondevano: È il forte, il potente, il potente in battaglia; costui è veramente il Re della gloria. Ma perché sono rossi i suoi vestiti? Viene da Bosor, cioè dalla carne. E tu, dopo esserti assiso in quanto Dio alla destra della Maestà, ci hai inviato lo Spirito santo per guidare e salvare le anime nostre”. Troviamo messo ben in in evidenza, come accennavamo all'inizio, il rapporto stretto tra l’abbassamento, l’incarnazione del Verbo di Dio, e la sua glorificazione, la sua Ascensione ai cieli. E un rapporto che viene fatto a patire della lettura, quasi teatrale, di due testi biblici che troviamo spesso adoperati nella liturgia, cioè il salmo 23 e Is 63.
         I due temi dominanti di tutta la festa, cioè la redenzione e il dono dello Spirito Santo gli ritroviamo ancora in altri momenti dell’ufficiatura: “È asceso Dio tra le acclamazioni, il Signore, al suono della tromba, per risollevare l’immagine caduta di Adamo e inviare lo Spirito Paraclito a santificazione delle anime nostre”. La vera incarnazione del Verbo di Dio, la sua natura umana che ha sofferto, è morta ed è risorta, viene oggi glorificata alla destra del Padre: “Al Cristo che ascende glorioso sulle spalle dei cherubini, e con lui fa sedere anche noi alla destra del Padre, cantiamo, popoli tutti, un canto di vittoria, perché si è reso glorioso”.
         L’Ascensione del Signore non è una sua separazione, un suo allontanarsi da noi. Nella sua carne glorificata noi saliamo già in cielo con lui alla destra del Padre; e grazie al dono dello Spirito Santo lui, il Signore, rimane accanto a noi, non lontano da noi: “Compiuta l’economia a nostro favore, e congiunte a quelle celesti le realtà terrestri, sei asceso nella gloria, o Cristo Dio nostro, senza tuttavia separarti in alcun modo da quelli che ti amano; ma rimanendo inseparabile da loro, dichiari: Io sono con voi, e nessuno è contro di voi”.

         Questo aspetto della redenzione della natura umana lo troviamo in modo speciale nell'ufficiatura del mattutino della festa, con delle immagini poetiche e teologicamente molto belle e profonde: “O tu che sei asceso su una nube luminosa e hai salvato il mondo, benedetto tu sei, o Dio, Dio dei padri nostri. Prendendoti sulle spalle, o Cristo, la natura che si era smarrita, sei asceso al cielo e l’hai presentata a Dio Padre. O tu che sei asceso con la carne al Padre incorporeo, benedetto tu sei, o Dio, Dio dei padri nostri. Sollevando la nostra natura, messa a morte dal peccato, tu l’hai portata, o Salvatore, al Padre tuo”. E ancora in altri tropari troviamo riassunta tutta la teologia della festa: “Visibilmente è stata innalzata fino all'alto dei cieli la magnificenza di colui che si è fatto povero nella carne, e la nostra natura decaduta ha l’onore di assidersi accanto al Padre. Celebriamo una festa solenne, tutti concordi esplodiamo in acclamazioni, e gioiosi battiamo le mani.”



sabato 9 maggio 2015

        Permeati da Cristo nella celebrazione dei Santi Misteri.
A proposito della lettera apostolica Orientale Lumen  a vent’anni dalla sua pubblicazione.

Il 2 maggio 1995, ricorrenza festiva di sant’Atanasio il Grande, patriarca di Alessandria, papa san Giovanni Paolo II segnava la lettera apostolica Orientale Lumen (OL) per la ricorrenza centenaria di un’altra lettera apostolica, l’Orientalium Dignitas di papa Leone XIII. A vent’anni di distanza, vorrei accennare ad alcuni aspetti importanti di OL, soprattutto nella sua prima parte. Nell'introduzione il papa accenna ai motivi della lettera: il centenario dell'Orientalium Dignitas di Leone XIII; la constatazione dei passi fatti in questi cento anni, passi verso la conoscenza e l'incontro tra Oriente ed Occidente. OL mete in evidenza come a partire dalla Pentecoste avvenuta a Gerusalemme, “madre di tutte le Chiese” –ed è questa un’espressione è importante in bocca al vescovo di Roma-, tutte le Chiese cristiane, nella loro autenticità e pluriformità, ritrovano la forza dello Spirito per la ricerca costante dell'armonia tra di esse. OL insiste nel fatto della necessità della piena comunione tra i cristiani che nasce dalla loro chiamata a predicare Cristo agli uomini: “Le Chiese di Oriente e di Occidente sono chiamate a concentrarsi sull'essenziale, cioè il cedere il passo al ravvicinamento e alla concordia…”.

Nella prima parte del testo, il papa sottolinea la necessità da parte dell’Occidente di conoscere l'Oriente cristiano, conoscerne la sua esperienza di fede, il mistero della sua vita in Cristo. Ed accenna alla diversità e complementarità tra Oriente ed Occidente, in tanto che hanno indagato la stessa verità rivelata, lo stesso mistero a partire da metodi e prospettive diverse. Da parte dell'Occidente bisogna ascoltare le Chiese dell'Oriente, bisogna avvicinarsi a queste Chiese, alla loro tradizione; Oriente ed Occidente sono un mosaico opera della mano del Creatore. Il papa fa notare come l'Oriente mette in evidenza la partecipa­zione del cristiano alla natura divina mediante la comunione al mistero della Santa Trinità. Questa comunione si realizza attraverso la liturgia, specialmente l'eucaristia. Ed in questo cammino di divinizzazione, OL propone il modello dei martiri, dei santi e della Madre di Dio: ”In questo cammino di divinizzazione ci precedono coloro che la grazia e l'impegno nel cammino del bene ha reso "somigliatissimi" a Cristo: i martiri e i santi. E tra questi un posto tutto particolare occupa la Vergine Maria, dalla quale è germogliato il virgulto di Jesse. La sua figura è non solo la Madre che ci attende, ma anche icona della Chiesa, simbolo e anticipo dell'umanità trasfigurata dalla grazia”.

OL poi dedica tutto un paragrafo alla trattazione del tema della Tradizione: l’importanza del rapporto tra presente, passato e futuro. L'Oriente offreun forte senso di continuità, dalla tradizione all'attesa escatologica. La tradizione come patrimonio della Chiesa di Cristo, memoria viva del Risorto incontrato e testimoniato dagli apostoli che hanno trasmesso il ricordo vivente ai loro successori, in linea ininterrotta che è garantita dalla successione apostolica, attraverso l'imposizione delle mani, fino ai vescovi di oggi. Tradizione ancora vista da OL come memoria del Risorto, che mantiene la Chiesa vegliante nella memoria di Cristo Sposo; la Tradizione quindi è la memoria viva della Sposa conservata eternamente giovane dall'Amore che la inabita. E OL insiste nell'in­serirsi nella Tradizione della Chiesa in quanto memoria, e nel mostrare agli uomini la bellezza di questa memoria -di questa Tradizione-, la forza che viene dallo Spirito che ci fa testimo­ni, figli di testimoni, cioè radicati in una schiera di martiri, di santi, che ci hanno preceduto e con cui siamo, in questa memoria, legati.

Per ben otto paragrafi OL tratta il tema del monachesimo, oppure se si vuole contempla la vita monastica come tipo e modello della vita cristiana. Sottolinea la centralità del monachesimo in Oriente, sicché diventa punto di riferimento per tutti i cristiani. E qui troviamo uno dei paragrafi centrali del documento che giustifica appunto la trattazione della vita monastica in OL: “I forti tratti comuni che uniscono l'esperienza monastica d'Oriente e d'Occidente fanno di essa un mirabile ponte di fraternità, dove l'unità vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel dialogo fra le Chiese”. E OL mette in evidenza tre aspetti fondamentali del monachesi­mo cristiano: esso è luogo della lode di Dio, luogo della carità, e luogo della ricerca di Dio. Tre aspetti proprio in questa progressione: al monaco viene chiesta per primo la lode, il ringraziamento a Dio, poi la carità verso il fratello, quindi il terzo aspetto, forse quello più importante, che è alla base dei due primi: la ricerca di Dio. La vita del monaco quindi presentata come centrata tra due poli: l'ascolto della Parola di Dio -qui il termine "ascolto" va al di là della semplice audizione e diventa una assimilazione del monaco alla parola-, e l'eucaristia. La Parola è nutrimento della vita del monaco, la Parola lo configura a Cristo, perché la Parola è Cristo. Questo ascol­to/assimilazione della Parola avviene specialmente nella liturgia, attraverso i testi biblici ed innografici che sono una parafrasi del testo sacro. L'eucaristia è l'altro asse della vita del monaco, eucaristia come luogo dove la Parola si fa carne, luogo della piena configurazione con Cristo -la partecipazione ai santi misteri ci fa consanguinei di Cristo-, luogo anche escatologico in quanto anticipa l'appartenenza alla Gerusalemme celeste. Come conseguenza, in questo paragrafo la vita monastica viene presentata come la vita cristiana nella sua pienezza liturgica: un'unica dimensione celebrativa, dall'ascolto della Parola, alla comunione coi santi misteri. La liturgia quindi vista come luogo della piena divinizzazione dell'uomo e del creato. Nella liturgia, dunque, il creato trova il suo senso pieno, il creato viene permeato da Cristo e proprio allora ne sgorga la sacramentalità della Chiesa. In questo punto, quindi, il documento integra un aspetto essenziale della liturgia, sia quella delle Chiese di Oriente che quella delle Chiese di Occidente, cioè la sua dimensione di bellezza: “In questo quadro la preghiera liturgica in Oriente mostra una grande attitudine a coinvolgere la persona umana nella sua totalità: il mistero è cantato nella sublimità dei suoi contenuti, ma anche nel calore dei sentimenti che suscita nel cuore dell'anima salvata. Nell'azione sacra anche la corporeità è convocata alla lode, e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi più cari per esprimere la divina armonia e il modello dell'umanità trasfigurata, si mostra ovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei colori, nelle luci, nei profumi...”.

Un ultimo aspetto della prima parte di OL che vorrei mettere in evidenza è il sottolineare come questa configurazione con Cristo avviene attraverso un processo di conversione a partire da un triplice dono di Dio: il dono delle lacrime, il silenzio ed il distacco dall'orgoglio: “…nella coscienza del proprio peccato e della lontananza dal Signore, che si fa compunzione del cuore, simbolo del proprio battesimo nell'acqua salutare delle lacrime; nel silenzio e nella quiete interiore…”. OL mette in luce ancora un aspetto centrale per la conoscenza dell’Oriente cristiano, cioè il fatto che esso ha mantenuto sempre l'unità tra la spiritualità e la teologia. Quest'unità viene sottolineata particolarmente nel monachesimo in tanto che vita teologica, cioè l'appartenenza alla propria vita delle verità della fede; quest'unità si realizza per mezzo della configurazione a Cristo. Unità tra teologia e spiritualità che sbocca anche in un'antropologia molto positiva, legata al mistero dell'incarnazione. E in questo contesto OL sottolinea ancora il luogo del silenzio come via per percepire il mistero di Dio. Questo silenzio è necessario come via per la teologia, per la preghiera, per la predicazione, per l'impegno nel mondo, per l'uomo cioè per ascoltare l'altro.

Abbiamo messo in evidenza alcuni aspetti soltanto della prima parte della lettera OL. Un testo che vent’anni fa, e anche oggi continua a far vedere come “le parole dell'Occidente hanno bisogno delle parole dell'O­riente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze”.


mercoledì 1 aprile 2015

Dal cenacolo alla Pasqua nell’innografia di Efrem il Siro
Oggi è spremuto il grappolo venuto da Maria
Efrem il Siro dedica diversi inni alla crocifissione e alla Pasqua di Cristo. Due di essi ci aiutano ad entrare nei misteri che celebriamo in questi giorni santi. Si tratta del terzo sulla crocifissione ed il secondo sulla sua risurrezione, testi che ci situano ognuno a modo suo in un contesto liturgico. Il primo contempla il cenacolo, quel “luogo” come lo chiama Efrem, che diventa tipo della Chiesa stessa nella sua celebrazione dei misteri; il secondo presenta la Chiesa della terra e la Chiesa del cielo unite nella lode al Signore.
Il terzo inno sulla crocifissione presenta il cenacolo, il luogo dell’ultima cena di Cristo con i discepoli, come un luogo quasi personificato, dove vengono celebrati i diversi eventi della salvezza, luogo che è già visto dal poeta come una vera e propria Chiesa che celebra i sacramenti. Il cenacolo è presentato come il luogo scelto, santo, luogo del servizio: “Beato sei tu, luogo, perché furono inviati due suoi discepoli e vennero a prepararti per la sua cena… Si era scelto la purezza e in te la vide, la santità e dentro di te la trovò. Alla tua fedeltà diede abbondantemente la sua benedizione, dono per il tuo servizio”. Il cenacolo ancora presentato come il luogo del sacrificio di Cristo stesso, che si dà ai discepoli nel suo corpo e nel suo sangue: “Beato sei tu, luogo del Giusto, poiché in te il Signore nostro ha spezzato il proprio corpo. Un piccolo luogo fu specchio di tutta la creazione riempita da lui… La grande alleanza uscì da una piccola dimora e riempì la terra”. E l’eucaristia stessa, dono grande del Salvatore, fa presente il suo stesso abbassamento, il suo stesso farsi piccolo: “Doveva farsi piccola quella grandezza del nostro Salvatore, poiché la sua natura gloriosa non può manifestarsi alle creature senza debolezza”. Il cenacolo come luogo del dono – della celebrazione- del corpo e del sangue di Cristo; luogo in cui Cristo stesso diventa sacerdote e vittima: “Beato sei tu, luogo,… Di ciò che avvenne in te tutta la creazione è piena, ed è troppo piccola. Beata la tua dimora, nella quale fu spezzato quel pane dal covone benedetto. In te fu spremuto il grappolo venuto da Maria, calice della salvezza… Il nostro Signore che in te si fece vero altare, sacerdote, pane e calice della salvezza… Altare e agnello, sacrificio e sacrificatore, sacerdote e cibo”. Il cenacolo è ancora contemplato come tipo della Chiesa custode del pane spezzato e di Cristo stesso, altare in cui lui si offre per i fratelli: “Beato sei tu, luogo… In te per primo fu spezzato il pane di cui divenisti Chiesa. Il primogenito degli altari in te è apparso…”. Quindi il cenacolo presentato come luogo della lavanda dei piedi; ed Efrem la collega con l’accoglienza di Abramo ai tre personaggi –che Efrem chiama “vigilanti”, che in siriaco significa anche “angelo”-, sotto la quercia di Mamre. La grandezza della teofania veterotestamentaria viene messa di fronte a quella del Figlio nel lavare i piedi, e lavarli anche al traditore: “Come in te apparve anche ad Abramo mentre portava il vitello ai vigilanti. I serafini fremettero vedendo il Figlio che, cinto ai fianchi un lino, lavava nel catino i piedi, la sozzura del ladro che lo avrebbe consegnato…”. Lavanda dei piedi che è presentata da Efrem come una nuova creazione, il battesimo dei dodici: “Nostro Signore purificò il corpo dei fratelli nel catino che è simbolo della concordia…. Nel ventre delle acque Cristo ci ha formati nuovamente… Non siamo membra divise che non si accorgono di lottare contro il proprio Amore!”.
         Nel secondo inno sulla risurrezione di Cristo, Efrem descrive la gioia pasquale, presentata come una grande liturgia di tutta la creazione, che accomuna il cielo e la terra. Ed inizia con un riferimento al luogo centrale della croce di Cristo come chiave che riapre il paradiso, da dove sgorga la lode di tutta la creazione: “E la chiave fu per me la tua croce, fu essa ad aprire il paradiso. Dal giardino portai, raccolsi e recai dal paradiso fiori e rose eloquenti… sparsi durante la tua festa, negli inni, sull’umanità”. Tutta a creazione quindi, nella festa di Pasqua, innalza la lode a Dio; ed Efrem elenca tutti coloro che lodano il Signore redentore, a cominciare da coloro che fanno parte della liturgia della terra: “Ecco la festa gioiosa che è tutta bocche e lingue. Donne e uomini casti furono trombe e corni. Bambini e bambine furono in essa arpe e cetre”. E il poeta inserisce in questa lode liturgica anche l’immagine dell’arca e quella che si potrebbe quasi chiamare la “liturgia degli animali”, raccolti per coppie con le loro voci concordi, come avviene nella lode della Chiesa: “Nell’arca risuonarono similmente tutte le voci da tutte le bocche. Fuori flutti terribili, dentro di essa voci deliziose. Le lingue, a due a due, modulavano in essa concordi, in purezza, ed erano tipo della nostra festa ove uomini e donne vergini hanno cantato il “gloria” al Signore dell’arca”. Questa dimensione di lode liturgica procede nell'inno con una descrizione della liturgia celebrata nella settimana santa. E in essa Efrem fa presente tutta la gerarchia, quella della terra e quella del cielo: “Il grande pastore vi intrecci come suoi fiori le sue interpretazioni, i presbiteri le loro buone opere, i diaconi le loro letture, i giovani i loro alleluia, i bimbi i loro salmi, le donne caste i loro inni, i semplici fedeli la loro condotta”. Notiamo in questa strofa la descrizione del ruolo di ognuno: il vescovo –grande pastore- che commenta la Parola, i sacerdoti nel loro operare, i diaconi nel proclamare la Parola, i giovani come cantori e salmisti, i fedeli il loro vivere come cristiani. Efrem aggiunge infine, cioè convoca le gerarchie celesti: “Invitiamo e convochiamo gli illustri, martiri, apostoli e profeti, i cui fiori sono come loro: splendenti i loro fiori, ricche le loro rose, dolce il loro profumo. Li raccolgono nel giardino delle delizie ed incoronano la nostra bella festa”.
         Infine l’inno si conclude con una preghiera, fatta da Efrem nel IV secolo, viva e attuale nella nostra Pasqua, e in quella dei cristiani ovunque perseguitati, martoriati nei nostri giorni: “Accetta, nostro Re, la nostra offerta e dacci in cambio la salvezza. Pacifica le terre devastate, edifica le chiese incendiate affinché, quando vi sarà pace grande, una gran corona possiamo intrecciarti di fiori provenienti da ogni parte, perché sia incoronato il Signore della pace. Benedetto Colui che agì e può agire!”.