martedì 12 maggio 2015

L’Ascensione del Signore nell'ufficiatura bizantina
Sulle spalle del buon Pastore
          L’Ascensione del Signore, celebrata il quarantesimo giorno dopo la Risurrezione del Signore è una delle grandi feste dell’anno liturgico. Egeria nella seconda metà del IV secolo parla di una celebrazione il quarantesimo giorno dopo Pasqua ma che si fa a Betlemme e non sul monte degli ulivi da dove il Signore ascende in cielo; quasi ad evidenziare mettendole in parallelo la nascita del Verbo di Dio incarnato e la sua glorificazione in cielo. Uno dei tropari dell’ufficiatura bizantina per questa festa recita: “Prendendoti sulle spalle, o Cristo, la natura che si era smarrita, sei asceso al cielo e l’hai presentata a Dio Padre”. Tutta la liturgia dell’Ascensione nella tradizione bizantina si muove attorno a questi due punti fondamentali: l’incarnazione del Verbo di Dio, la sua kenosi, il suo farsi piccolo, uno di noi; e quasi in parallelo la sua Ascensione alla destra del Padre che ha come conseguenza la glorificazione della natura caduta dell’uomo, di Adamo e di tutto il genere umano glorificato col Figlio alla destra del Padre.
     I tropari dell’ufficiatura del vespro, già dall'inizio, mettono in luce i diversi aspetti che verranno sottolineati lungo la liturgia della festa. In primo luogo l’Ascensione di Cristo collegata con il dono dello Spirito Santo: “Il Signore è asceso ai cieli per mandare il Paraclito nel mondoSignore, quando gli apostoli ti videro sollevarti sulle nubi, tra i lamenti dicevano: O Sovrano, non lasciare orfani i tuoi servimandaci, come hai promesso, lo Spirito santissimo”. In secondo luogo la gioia delle schiere celesti (gli angeli) e delle schiere degli uomini (gli apostoli) per l’Ascensione di Cristo nella carne: “Signore, alla tua ascensione restarono attoniti i cherubini, vedendo venire sulle nubi te, Dio, che siedi su di loro… Contemplando la tua esaltazione sui monti santi, o Cristo, noi cantiamo la luminosa figura del tuo volto…, glorificando la tua gloriosa ascensione”. Infine la confessione della vera incarnazione del Verbo di Dio e quindi la piena redenzione del genere umano: “Il Signore è asceso ai cieli, che hanno preparato il suo trono, le nubi il carro su cui salire; stupiscono gli angeli vedendo un uomo al di sopra di loro. Il Padre riceve colui che dall'eternità, nel suo seno dimora… Signore, compiuto il mistero della tua economia… te ne sei andato oltre il firmamento del cielo. O tu che per me come me ti sei fatto povero, e sei asceso là, da dove mai ti eri allontanato…”. E ancora quasi a ribadire la doppia natura del Verbo incarnato, troviamo in un altro dei testi: “Tu che, senza separarti dal seno paterno, o dolcissimo Gesù, hai vissuto sulla terra come uomo, oggi dal Monte degli Ulivi sei asceso nella gloria: e risollevando, compassionevole, la nostra natura caduta, l’hai fatta sedere con te accanto al Padre”. Diversi dei tropari sottolineano questa piena glorificazione della natura umana assunta da Cristo, alla destra del Padre.
         Due altri dei tropari del vespro hanno un particolare interesse da sottolineare: “Sei stato partorito, come tu hai voluto; ti sei manifestato, come avevi stabilito; hai patito nella carne, o Dio nostro; sei risorto dai morti e hai calpestato la morte; sei asceso nella gloria, tu che tutto riempi, e ci hai mandato lo Spirito divino affinché celebriamo e glorifichiamo la tua divinità”. Si tratta proprio di una confessione di fede, quasi una formula di un simbolo che riassume tutta la professione di fede cristiana: il Verbo di Dio che si incarna, nasce, patisce, muore e risorge; quindi ascende in cielo e manda il dono dello Spirito Santo. Il secondo tropario recita: “Mentre tu ascendevi, o Cristo, dal Monte degli Ulivi, le schiere celesti che ti vedevano, si gridavano l’un l’altra: Chi è costui? E rispondevano: È il forte, il potente, il potente in battaglia; costui è veramente il Re della gloria. Ma perché sono rossi i suoi vestiti? Viene da Bosor, cioè dalla carne. E tu, dopo esserti assiso in quanto Dio alla destra della Maestà, ci hai inviato lo Spirito santo per guidare e salvare le anime nostre”. Troviamo messo ben in in evidenza, come accennavamo all'inizio, il rapporto stretto tra l’abbassamento, l’incarnazione del Verbo di Dio, e la sua glorificazione, la sua Ascensione ai cieli. E un rapporto che viene fatto a patire della lettura, quasi teatrale, di due testi biblici che troviamo spesso adoperati nella liturgia, cioè il salmo 23 e Is 63.
         I due temi dominanti di tutta la festa, cioè la redenzione e il dono dello Spirito Santo gli ritroviamo ancora in altri momenti dell’ufficiatura: “È asceso Dio tra le acclamazioni, il Signore, al suono della tromba, per risollevare l’immagine caduta di Adamo e inviare lo Spirito Paraclito a santificazione delle anime nostre”. La vera incarnazione del Verbo di Dio, la sua natura umana che ha sofferto, è morta ed è risorta, viene oggi glorificata alla destra del Padre: “Al Cristo che ascende glorioso sulle spalle dei cherubini, e con lui fa sedere anche noi alla destra del Padre, cantiamo, popoli tutti, un canto di vittoria, perché si è reso glorioso”.
         L’Ascensione del Signore non è una sua separazione, un suo allontanarsi da noi. Nella sua carne glorificata noi saliamo già in cielo con lui alla destra del Padre; e grazie al dono dello Spirito Santo lui, il Signore, rimane accanto a noi, non lontano da noi: “Compiuta l’economia a nostro favore, e congiunte a quelle celesti le realtà terrestri, sei asceso nella gloria, o Cristo Dio nostro, senza tuttavia separarti in alcun modo da quelli che ti amano; ma rimanendo inseparabile da loro, dichiari: Io sono con voi, e nessuno è contro di voi”.

         Questo aspetto della redenzione della natura umana lo troviamo in modo speciale nell'ufficiatura del mattutino della festa, con delle immagini poetiche e teologicamente molto belle e profonde: “O tu che sei asceso su una nube luminosa e hai salvato il mondo, benedetto tu sei, o Dio, Dio dei padri nostri. Prendendoti sulle spalle, o Cristo, la natura che si era smarrita, sei asceso al cielo e l’hai presentata a Dio Padre. O tu che sei asceso con la carne al Padre incorporeo, benedetto tu sei, o Dio, Dio dei padri nostri. Sollevando la nostra natura, messa a morte dal peccato, tu l’hai portata, o Salvatore, al Padre tuo”. E ancora in altri tropari troviamo riassunta tutta la teologia della festa: “Visibilmente è stata innalzata fino all'alto dei cieli la magnificenza di colui che si è fatto povero nella carne, e la nostra natura decaduta ha l’onore di assidersi accanto al Padre. Celebriamo una festa solenne, tutti concordi esplodiamo in acclamazioni, e gioiosi battiamo le mani.”



sabato 9 maggio 2015

        Permeati da Cristo nella celebrazione dei Santi Misteri.
A proposito della lettera apostolica Orientale Lumen  a vent’anni dalla sua pubblicazione.

Il 2 maggio 1995, ricorrenza festiva di sant’Atanasio il Grande, patriarca di Alessandria, papa san Giovanni Paolo II segnava la lettera apostolica Orientale Lumen (OL) per la ricorrenza centenaria di un’altra lettera apostolica, l’Orientalium Dignitas di papa Leone XIII. A vent’anni di distanza, vorrei accennare ad alcuni aspetti importanti di OL, soprattutto nella sua prima parte. Nell'introduzione il papa accenna ai motivi della lettera: il centenario dell'Orientalium Dignitas di Leone XIII; la constatazione dei passi fatti in questi cento anni, passi verso la conoscenza e l'incontro tra Oriente ed Occidente. OL mete in evidenza come a partire dalla Pentecoste avvenuta a Gerusalemme, “madre di tutte le Chiese” –ed è questa un’espressione è importante in bocca al vescovo di Roma-, tutte le Chiese cristiane, nella loro autenticità e pluriformità, ritrovano la forza dello Spirito per la ricerca costante dell'armonia tra di esse. OL insiste nel fatto della necessità della piena comunione tra i cristiani che nasce dalla loro chiamata a predicare Cristo agli uomini: “Le Chiese di Oriente e di Occidente sono chiamate a concentrarsi sull'essenziale, cioè il cedere il passo al ravvicinamento e alla concordia…”.

Nella prima parte del testo, il papa sottolinea la necessità da parte dell’Occidente di conoscere l'Oriente cristiano, conoscerne la sua esperienza di fede, il mistero della sua vita in Cristo. Ed accenna alla diversità e complementarità tra Oriente ed Occidente, in tanto che hanno indagato la stessa verità rivelata, lo stesso mistero a partire da metodi e prospettive diverse. Da parte dell'Occidente bisogna ascoltare le Chiese dell'Oriente, bisogna avvicinarsi a queste Chiese, alla loro tradizione; Oriente ed Occidente sono un mosaico opera della mano del Creatore. Il papa fa notare come l'Oriente mette in evidenza la partecipa­zione del cristiano alla natura divina mediante la comunione al mistero della Santa Trinità. Questa comunione si realizza attraverso la liturgia, specialmente l'eucaristia. Ed in questo cammino di divinizzazione, OL propone il modello dei martiri, dei santi e della Madre di Dio: ”In questo cammino di divinizzazione ci precedono coloro che la grazia e l'impegno nel cammino del bene ha reso "somigliatissimi" a Cristo: i martiri e i santi. E tra questi un posto tutto particolare occupa la Vergine Maria, dalla quale è germogliato il virgulto di Jesse. La sua figura è non solo la Madre che ci attende, ma anche icona della Chiesa, simbolo e anticipo dell'umanità trasfigurata dalla grazia”.

OL poi dedica tutto un paragrafo alla trattazione del tema della Tradizione: l’importanza del rapporto tra presente, passato e futuro. L'Oriente offreun forte senso di continuità, dalla tradizione all'attesa escatologica. La tradizione come patrimonio della Chiesa di Cristo, memoria viva del Risorto incontrato e testimoniato dagli apostoli che hanno trasmesso il ricordo vivente ai loro successori, in linea ininterrotta che è garantita dalla successione apostolica, attraverso l'imposizione delle mani, fino ai vescovi di oggi. Tradizione ancora vista da OL come memoria del Risorto, che mantiene la Chiesa vegliante nella memoria di Cristo Sposo; la Tradizione quindi è la memoria viva della Sposa conservata eternamente giovane dall'Amore che la inabita. E OL insiste nell'in­serirsi nella Tradizione della Chiesa in quanto memoria, e nel mostrare agli uomini la bellezza di questa memoria -di questa Tradizione-, la forza che viene dallo Spirito che ci fa testimo­ni, figli di testimoni, cioè radicati in una schiera di martiri, di santi, che ci hanno preceduto e con cui siamo, in questa memoria, legati.

Per ben otto paragrafi OL tratta il tema del monachesimo, oppure se si vuole contempla la vita monastica come tipo e modello della vita cristiana. Sottolinea la centralità del monachesimo in Oriente, sicché diventa punto di riferimento per tutti i cristiani. E qui troviamo uno dei paragrafi centrali del documento che giustifica appunto la trattazione della vita monastica in OL: “I forti tratti comuni che uniscono l'esperienza monastica d'Oriente e d'Occidente fanno di essa un mirabile ponte di fraternità, dove l'unità vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel dialogo fra le Chiese”. E OL mette in evidenza tre aspetti fondamentali del monachesi­mo cristiano: esso è luogo della lode di Dio, luogo della carità, e luogo della ricerca di Dio. Tre aspetti proprio in questa progressione: al monaco viene chiesta per primo la lode, il ringraziamento a Dio, poi la carità verso il fratello, quindi il terzo aspetto, forse quello più importante, che è alla base dei due primi: la ricerca di Dio. La vita del monaco quindi presentata come centrata tra due poli: l'ascolto della Parola di Dio -qui il termine "ascolto" va al di là della semplice audizione e diventa una assimilazione del monaco alla parola-, e l'eucaristia. La Parola è nutrimento della vita del monaco, la Parola lo configura a Cristo, perché la Parola è Cristo. Questo ascol­to/assimilazione della Parola avviene specialmente nella liturgia, attraverso i testi biblici ed innografici che sono una parafrasi del testo sacro. L'eucaristia è l'altro asse della vita del monaco, eucaristia come luogo dove la Parola si fa carne, luogo della piena configurazione con Cristo -la partecipazione ai santi misteri ci fa consanguinei di Cristo-, luogo anche escatologico in quanto anticipa l'appartenenza alla Gerusalemme celeste. Come conseguenza, in questo paragrafo la vita monastica viene presentata come la vita cristiana nella sua pienezza liturgica: un'unica dimensione celebrativa, dall'ascolto della Parola, alla comunione coi santi misteri. La liturgia quindi vista come luogo della piena divinizzazione dell'uomo e del creato. Nella liturgia, dunque, il creato trova il suo senso pieno, il creato viene permeato da Cristo e proprio allora ne sgorga la sacramentalità della Chiesa. In questo punto, quindi, il documento integra un aspetto essenziale della liturgia, sia quella delle Chiese di Oriente che quella delle Chiese di Occidente, cioè la sua dimensione di bellezza: “In questo quadro la preghiera liturgica in Oriente mostra una grande attitudine a coinvolgere la persona umana nella sua totalità: il mistero è cantato nella sublimità dei suoi contenuti, ma anche nel calore dei sentimenti che suscita nel cuore dell'anima salvata. Nell'azione sacra anche la corporeità è convocata alla lode, e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi più cari per esprimere la divina armonia e il modello dell'umanità trasfigurata, si mostra ovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei colori, nelle luci, nei profumi...”.

Un ultimo aspetto della prima parte di OL che vorrei mettere in evidenza è il sottolineare come questa configurazione con Cristo avviene attraverso un processo di conversione a partire da un triplice dono di Dio: il dono delle lacrime, il silenzio ed il distacco dall'orgoglio: “…nella coscienza del proprio peccato e della lontananza dal Signore, che si fa compunzione del cuore, simbolo del proprio battesimo nell'acqua salutare delle lacrime; nel silenzio e nella quiete interiore…”. OL mette in luce ancora un aspetto centrale per la conoscenza dell’Oriente cristiano, cioè il fatto che esso ha mantenuto sempre l'unità tra la spiritualità e la teologia. Quest'unità viene sottolineata particolarmente nel monachesimo in tanto che vita teologica, cioè l'appartenenza alla propria vita delle verità della fede; quest'unità si realizza per mezzo della configurazione a Cristo. Unità tra teologia e spiritualità che sbocca anche in un'antropologia molto positiva, legata al mistero dell'incarnazione. E in questo contesto OL sottolinea ancora il luogo del silenzio come via per percepire il mistero di Dio. Questo silenzio è necessario come via per la teologia, per la preghiera, per la predicazione, per l'impegno nel mondo, per l'uomo cioè per ascoltare l'altro.

Abbiamo messo in evidenza alcuni aspetti soltanto della prima parte della lettera OL. Un testo che vent’anni fa, e anche oggi continua a far vedere come “le parole dell'Occidente hanno bisogno delle parole dell'O­riente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze”.


mercoledì 1 aprile 2015

Dal cenacolo alla Pasqua nell’innografia di Efrem il Siro
Oggi è spremuto il grappolo venuto da Maria
Efrem il Siro dedica diversi inni alla crocifissione e alla Pasqua di Cristo. Due di essi ci aiutano ad entrare nei misteri che celebriamo in questi giorni santi. Si tratta del terzo sulla crocifissione ed il secondo sulla sua risurrezione, testi che ci situano ognuno a modo suo in un contesto liturgico. Il primo contempla il cenacolo, quel “luogo” come lo chiama Efrem, che diventa tipo della Chiesa stessa nella sua celebrazione dei misteri; il secondo presenta la Chiesa della terra e la Chiesa del cielo unite nella lode al Signore.
Il terzo inno sulla crocifissione presenta il cenacolo, il luogo dell’ultima cena di Cristo con i discepoli, come un luogo quasi personificato, dove vengono celebrati i diversi eventi della salvezza, luogo che è già visto dal poeta come una vera e propria Chiesa che celebra i sacramenti. Il cenacolo è presentato come il luogo scelto, santo, luogo del servizio: “Beato sei tu, luogo, perché furono inviati due suoi discepoli e vennero a prepararti per la sua cena… Si era scelto la purezza e in te la vide, la santità e dentro di te la trovò. Alla tua fedeltà diede abbondantemente la sua benedizione, dono per il tuo servizio”. Il cenacolo ancora presentato come il luogo del sacrificio di Cristo stesso, che si dà ai discepoli nel suo corpo e nel suo sangue: “Beato sei tu, luogo del Giusto, poiché in te il Signore nostro ha spezzato il proprio corpo. Un piccolo luogo fu specchio di tutta la creazione riempita da lui… La grande alleanza uscì da una piccola dimora e riempì la terra”. E l’eucaristia stessa, dono grande del Salvatore, fa presente il suo stesso abbassamento, il suo stesso farsi piccolo: “Doveva farsi piccola quella grandezza del nostro Salvatore, poiché la sua natura gloriosa non può manifestarsi alle creature senza debolezza”. Il cenacolo come luogo del dono – della celebrazione- del corpo e del sangue di Cristo; luogo in cui Cristo stesso diventa sacerdote e vittima: “Beato sei tu, luogo,… Di ciò che avvenne in te tutta la creazione è piena, ed è troppo piccola. Beata la tua dimora, nella quale fu spezzato quel pane dal covone benedetto. In te fu spremuto il grappolo venuto da Maria, calice della salvezza… Il nostro Signore che in te si fece vero altare, sacerdote, pane e calice della salvezza… Altare e agnello, sacrificio e sacrificatore, sacerdote e cibo”. Il cenacolo è ancora contemplato come tipo della Chiesa custode del pane spezzato e di Cristo stesso, altare in cui lui si offre per i fratelli: “Beato sei tu, luogo… In te per primo fu spezzato il pane di cui divenisti Chiesa. Il primogenito degli altari in te è apparso…”. Quindi il cenacolo presentato come luogo della lavanda dei piedi; ed Efrem la collega con l’accoglienza di Abramo ai tre personaggi –che Efrem chiama “vigilanti”, che in siriaco significa anche “angelo”-, sotto la quercia di Mamre. La grandezza della teofania veterotestamentaria viene messa di fronte a quella del Figlio nel lavare i piedi, e lavarli anche al traditore: “Come in te apparve anche ad Abramo mentre portava il vitello ai vigilanti. I serafini fremettero vedendo il Figlio che, cinto ai fianchi un lino, lavava nel catino i piedi, la sozzura del ladro che lo avrebbe consegnato…”. Lavanda dei piedi che è presentata da Efrem come una nuova creazione, il battesimo dei dodici: “Nostro Signore purificò il corpo dei fratelli nel catino che è simbolo della concordia…. Nel ventre delle acque Cristo ci ha formati nuovamente… Non siamo membra divise che non si accorgono di lottare contro il proprio Amore!”.
         Nel secondo inno sulla risurrezione di Cristo, Efrem descrive la gioia pasquale, presentata come una grande liturgia di tutta la creazione, che accomuna il cielo e la terra. Ed inizia con un riferimento al luogo centrale della croce di Cristo come chiave che riapre il paradiso, da dove sgorga la lode di tutta la creazione: “E la chiave fu per me la tua croce, fu essa ad aprire il paradiso. Dal giardino portai, raccolsi e recai dal paradiso fiori e rose eloquenti… sparsi durante la tua festa, negli inni, sull’umanità”. Tutta a creazione quindi, nella festa di Pasqua, innalza la lode a Dio; ed Efrem elenca tutti coloro che lodano il Signore redentore, a cominciare da coloro che fanno parte della liturgia della terra: “Ecco la festa gioiosa che è tutta bocche e lingue. Donne e uomini casti furono trombe e corni. Bambini e bambine furono in essa arpe e cetre”. E il poeta inserisce in questa lode liturgica anche l’immagine dell’arca e quella che si potrebbe quasi chiamare la “liturgia degli animali”, raccolti per coppie con le loro voci concordi, come avviene nella lode della Chiesa: “Nell’arca risuonarono similmente tutte le voci da tutte le bocche. Fuori flutti terribili, dentro di essa voci deliziose. Le lingue, a due a due, modulavano in essa concordi, in purezza, ed erano tipo della nostra festa ove uomini e donne vergini hanno cantato il “gloria” al Signore dell’arca”. Questa dimensione di lode liturgica procede nell'inno con una descrizione della liturgia celebrata nella settimana santa. E in essa Efrem fa presente tutta la gerarchia, quella della terra e quella del cielo: “Il grande pastore vi intrecci come suoi fiori le sue interpretazioni, i presbiteri le loro buone opere, i diaconi le loro letture, i giovani i loro alleluia, i bimbi i loro salmi, le donne caste i loro inni, i semplici fedeli la loro condotta”. Notiamo in questa strofa la descrizione del ruolo di ognuno: il vescovo –grande pastore- che commenta la Parola, i sacerdoti nel loro operare, i diaconi nel proclamare la Parola, i giovani come cantori e salmisti, i fedeli il loro vivere come cristiani. Efrem aggiunge infine, cioè convoca le gerarchie celesti: “Invitiamo e convochiamo gli illustri, martiri, apostoli e profeti, i cui fiori sono come loro: splendenti i loro fiori, ricche le loro rose, dolce il loro profumo. Li raccolgono nel giardino delle delizie ed incoronano la nostra bella festa”.
         Infine l’inno si conclude con una preghiera, fatta da Efrem nel IV secolo, viva e attuale nella nostra Pasqua, e in quella dei cristiani ovunque perseguitati, martoriati nei nostri giorni: “Accetta, nostro Re, la nostra offerta e dacci in cambio la salvezza. Pacifica le terre devastate, edifica le chiese incendiate affinché, quando vi sarà pace grande, una gran corona possiamo intrecciarti di fiori provenienti da ogni parte, perché sia incoronato il Signore della pace. Benedetto Colui che agì e può agire!”.





domenica 29 marzo 2015

Ecco lo Sposo arriva nel mezzo della notte
         La liturgia della Settimana Santa nella tradizione bizantina scandisce tutto il mistero della passione, morte e risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo; celebrazione che inizia già il sabato della risurrezione di Lazzaro e la domenica delle Palme con l’ingresso regale di Cristo a Gerusalemme. Da lunedì a mercoledì santi si celebra l’ufficiatura mattutina e quindi nelle ore serali la liturgia dei Doni Presantificati; tre giorni che contemplano la figura di Cristo sposo della Chiesa che le viene incontro nella sua croce, il vero talamo nuziale. Il Giovedì santo celebra la Divina Liturgia di San Basilio, dove si contemplano i misteri di Cristo che lava i piedi ai discepoli, che si dà come pane di vita, che è tradito e portato alla passione. Il Venerdì santo raduna la Chiesa attorno alla croce di Cristo, luogo di sofferenza, di sconfitta, ma anche di vittoria di Colui che in essa è appeso. Il Sabato santo invece raccoglie la comunità dei fedeli attorno alla tomba di Cristo, una tomba bella, adorna, vero luogo della celebrazione di questo sabato benedetto; nel mattutino, celebrato la sera di venerdì, si cantano gli Enkomia, il canto sì di lamento, ma soprattutto di speranza attorno al sepolcro di Colui che è la vita. Sempre nel giorno di sabato al mattino viene celebrata di novo la Divina Liturgia di San Basilio, con le letture veterotestamentarie che introducono i fedeli alla celebrazione di Colui che risorge per giudicare la terra. Sabato, a notte fonda, inizia l’ufficiatura del mattutino di Pasqua, con la proclamazione del vangelo della risurrezione, il canto delle bellissime odi di san Giovanni Damasceno e la Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo. Al vespro della domenica di Pasqua si proclama la pericope evangelica in diverse lingue, quelle dei fedeli presenti nella celebrazione.
         A Roma le celebrazioni nella tradizione bizantina avvengono in alcune chiese che seguono questa liturgia. Diamo le indicazioni di orario delle celebrazioni nel Pontificio Collegio Greco, il più antico tra i Collegi orientali di Roma, fondato da papa Gregorio XIII 13 gennaio 1576, e dal 1591 affidato ai padri della Compagnia di Gesù. Dal 1586 papa Sisto V riservò agli alunni del Collegio il privilegio di cantare l’epistola ed il vangelo in greco nelle messe papali solenni. Dal 1897 papa Leone XIII affidò ai monaci benedettini nella persona dell’Abate Primate di Sant’Anselmo, la responsabilità del Collegio Greco, in piena collaborazione con la Congregazione per le Chiese Orientali.
P. Manuel Nin




PONTIFICIO COLLEGIO GRECO – CHIESA DI SANT’ATANASIO
Settimana Santa e Pasqua 2015
Orario delle celebrazioni, chiesa di Sant’Atanasio a via del Babuino

Domenica delle Palme (29/04/2015)
19.00       (Sabato) vespro.
10.30       Benedizione delle Palme e Liturgia di San Giovanni Crisostomo.
18.30       Mattutino del Nymphios
Lunedì Santo (30/04/2015)
18.45       Liturgia dei Presantificati.
Martedì Santo (31/04/2015)
18.45               Liturgia dei Presantificati
Mercoledì Santo (1/05/2015)
18.45               Liturgia dei Presantificati
Giovedì Santo (2/05/2015)
10.30       Vespro e Liturgia di San Basilio.
18.00       Ufficio della Passione (Lettura dei 12 Vangeli)
Venerdì Santo (3/05/2015)
10.00               Ora Nona, Vespro e Deposizione dalla Croce.
18.00               Epitaphios thrinos, Enkomia e Processione.
Sabato Santo (4/05/2015)
10.00               Vespro e Liturgia di San Basilio.
23.00              Mesonyktikòn, Anastasis, Mattutino e Liturgia di San Giovanni Crisostomo.
Domenica di Pasqua (5/05/2015)
10.30               Liturgia di San Giovanni Crisostomo.

19.00               Vespro. Proclamazione del Vangelo in diverse lingue.

venerdì 27 marzo 2015

La domenica delle Palme nelle omelie cattedrali di Severo di Antiochia
Siede sull’asinello, riposa sui santi
Il corpus delle 125 Omelie Cattedrali di Severo di Antiochia, patriarca della sede sul fiume Oronte dal 513 al 518, ne contiene soltanto una per la domenica delle Palme, predicata il 31 marzo 513. Si tratta di un testo tipicamente severiano, dove il vescovo predica spiegando la celebrazione domenicale delle Palme, messa quasi senza soluzione di continuità col giorno precedente della risurrezione di Lazzaro e con i giorni santi della passione, morte e risurrezione di Cristo, il Verbo di Dio incarnato: “Quando il nostro Signore e Dio Gesù Cristo stava per essere consegnato volontariamente alla croce salvatrice… e farsi umile fino alla morte… Dopo essere sceso fino a Betania, risuscitò Lazzaro, che era stato messo nella tomba da quattro giorni, spaccando la forza della morte che lui stesso doveva uccidere completamente quando discese lui stesso nello sceol e liberare le anime ivi rinchiuse. Per questo disse: «Lazzaro, il nostro amico, dorme e vado a svegliarlo»”. Quasi che dall’inizio dell’omelia, Severo volesse riassumere tutto il cammino delle celebrazioni liturgiche, dal sabato di Lazzaro, passando per l’ingresso a Gerusalemme, fino alla croce e alla discesa di Cristo negli inferi. L’ingresso di Gesù nella città santa è per l’autore una manifestazione della sua divinità ed una prefigurazione della sua seconda venuta: “E Gesù, che sapeva quello che doveva capitare, cioè che i bambini e la folla gli andavano all’incontro, fece in modo che fosse un ingresso degno di Dio e allo stesso tempo simbolico, poiché diventava per noi prefigurazione della sua seconda venuta nella gloria… e così rivelava la sua divinità…”. E l’esegesi di Severo, in questo caso ed in altri passi del vangelo, mette fortemente in evidenza la manifestazione della vera divino umanità di Cristo.
Seguendo i diversi momenti della pericope evangelica dell’ingresso trionfale di Gesù, Severo fa una lettura cristologica ed ecclesiologica del puledro d’asina su cui Cristo siede entrando a Gerusalemme. L’asino, tipo delle nazioni pagane chiamate alla fede, riceve su di se i mantelli (le dottrine) degli apostoli e su di essi Cristo siede; quasi Severo volesse mettere in evidenza la predicazione di Cristo fondata sempre sulla parola degli apostoli: “I discepoli di Cristo slegarono facilmente l’asinello e lo portarono al loro Signore, dopo aver messo su di lui i loro mantelli… E vedendo Gesù che questo era stato fatto, lui che è veramente il Dio dei grandi misteri, si assise sopra… Infatti quando i credenti si sono rivestiti delle virtù apostoliche come se fossero dei vestiti, come l’asinello stesso, e così tra di loro sono sorti dei dottori e dei martiri…, allora la grazia di Gesù o piuttosto Gesù stesso si è assiso su di loro, ha abitato in essi ed ha riposato su di essi, come anche siede sui cherubini, lui che è Santo e riposa sui santi”.
Quindi il vescovo si trattiene a commentare il significato dei rami di ulivo tagliati dalla folla esultante, ed oltre ad indicare il fatto evidente della presenza di questi alberi nel monte che porta il loro nome, degli ulivi, Severo vi vede dei significati simbolici che commenta al suo uditorio: “Seduto (Cristo) sull’asinello, tipo dei popoli dei gentili che doveva credere in lui, una folla lo accompagnava… gettando al suo passaggio rami di ulivo e i loro vestiti, fatti che indicavano dei grandi misteri”. E, dopo un non breve excursus sul significato della parola «osanna» in ebraico e greco e sulla sua spiegazione cristologica cioè come acclamazione a Cristo vero Dio, Severo prosegue ancora: “La pianta dell’ulivo indica la riconciliazione che viene da Dio, e la sua carità verso di noi che elargisce non a causa della nostra giustizia bensì a causa della sua misericordia. Allo stesso modo una colomba con un ramo di ulivo nel becco indicò la fine del diluvio nei giorni di Noè”.
Severo commenta ancora l’aggiunta del vangelo di Giovanni: «Quando udirono che Gesù arrivava a Gerusalemme, presero rami di palma e uscirono al suo incontro», e la vede come una particolarità giovannea piena di significati. Ed in un lungo paragrafo l’autore fa un commento simbolico dello stesso albero della palma, rigoglioso nella parte alta, slanciato verso l’alto, rude però nel tronco: “La palma ci fa vedere che veniva dal cielo Colui che era osannato. È un albero infatti la cui parte superiore ha dei rami abbondanti e bianchi, mentre nella sua parte media ed inferiore è rude ed spinoso… slanciandosi sempre in alto. Così anche colui che si avvia alla conoscenza di Cristo troverà un cammino rude e difficile, ma quando arriverà all’altezza, in quanto è possibile agli uomini, troverà la luce della teologia e la rivelazione di cose ineffabili, come i rami di palma che sono bianchi. Per questo ancora la sposa del Cantico dei Cantici, che è la Chiesa di coloro che hanno creduto in Cristo, dice: «Io ho detto: Salirò sulla palma, afferrerò i rami più alti »”. L’albero della palma quindi presentato come tipo del cammino del cristiano nella conoscenza di Cristo. Quindi l’autore si avvia alla conclusione dell’omelia commentando il brano del vangelo di Matteo dell’espulsione dei trafficanti del tempio; il luogo santo come casa di preghiera sottolineato dai testi veterotestamentari, assieme al gesto profetico di Cristo, mettono in evidenza l’unità dei due testamenti. E aggiunge ancora un commento alla citazione che le pericopi evangeliche fanno del salmo 8: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra! Con la bocca di bambini e di lattanti: hai posto una difesa contro i tuoi avversari»; la lode dei bambini all’ingresso di Cristo a Gerusalemme è una professione di fede in Colui che essendo grande ed eccelso si è umiliato e fatto piccolo.

Il paragrafo conclusivo dell’omelia, breve ed incisivo, ha un sapore chiaramente crisostomiano quasi di applicazione pratica di tutto il testo commentato: “E’ arrivato il momento di finire l’omelia, per non annoiarvi… Ma voi onorate il balbettio del parlare teologico dei bambini, non trascinandoli ai teatri o alle corse di cavalli, ma portandogli in chiesa e dicendo a Cristo, che è Dio e creatore di tutto: Anche dalla bocca dei nostri bambini ti offriamo la nostra lode”.


lunedì 23 marzo 2015

L’Annunciazione nell’innografia di Efrem il Siro
Oggi esultano la preghiera ed il Vangelo
La festa dell’Annunciazione della Santissima Madre di Dio e sempre vergine Maria, è una delle poche feste che troviamo lungo la Quaresima nelle tradizioni liturgiche orientali. Si tratta di una delle antiche feste cristiane, e ne abbiamo testimonianze nei testi patristici e liturgici orientali. Allo sviluppo di questa festa contribuirono le omelie patristiche di tendenza antiariana che cercavano di sottolineare, accanto all’umanità di Cristo, anche la sua divinità eternamente sussistente in Dio; ed anche l’omiletica di origine siriaca.
Efrem il Siro commenta la pericope dell’annunciazione dell’incarnazione del Verbo di Dio del vangelo di Luca sia nel Commento al Diatessaron, sia anche nella raccolta di inni sulla Natività del Signore. Di questa raccolta appunto vorrei soffermarmi nel secondo degli inni, un testo di ventitré strofe, dove il poeta siriaco canta il mistero dell’incarnazione del Signore e dell’annuncio fatto da Gabriele a Maria. Già nella prima strofa del poema, la parola di Efrem è una lode, unita a quella delle schiere celesti, per il mistero del Verbo che nell’incarnazione redime il genere umano: “Della schiera celeste inviata per la lode, del tempo illustre segnato per la redenzione… me ne rendo anch’io partecipe nell’amore e mi allieto. Voglio lodarlo con canti puri… rendere gloria a quel bimbo che ci ha redenti”. Le profezie veterotestamentarie Efrem le vede applicate a Cristo stesso che nella sua incarnazione si manifesta come re, sacerdote ed agnello; inoltre troviamo anche dei riferimenti molto evidenti di carattere sacramentale al battesimo, al perdono dei peccati e all’eucaristia.: “La cetra dei profeti che l’annunciarono… l’issopo dei sacerdoti che lo amarono… il diadema dei re… sono di quel Signore dei vergini, la cui madre è anch’essa vergine. Poiché è re, ha dato a tutti la regalità; poiché è sacerdote, ha dato a tutti il perdono; poiché è l’agnello, distribuisce a tutti il cibo”. E in questa strofa Efrem collega la forma maschile e femminile del termine siriaco “vergine” in riferimento e a Maria, e a quei uomini e donne che nella verginità erano consacrati al Signore.
Diverse volte lungo l’inno Efrem farà riferimento alla vera divinità e vera umanità di Cristo con l’immagine della paternità divina e la maternità umana: “Degna di memoria la madre che l’ha generato, degno di benedizioni il seno che l’ha portato, come pure Giuseppe, per grazia chiamato padre del Figlio vero –il cui Padre è glorificato…”. In due strofe Efrem mette la parola nelle labbra di Maria stessa per cantare nella prima il mistero dell’incarnazione del Verbo: “Mi ha fatto gioire perché io l’ho concepito; mi ha magnificato poiché io l’ho generato. Nel suo paradiso vivente io sto per entrare e dargli lode nel luogo dove Eva fallì… Di me si è compiaciuto, al punto da essergli madre, poiché l’ha voluto, e da essermi figlio, poiché gli è piaciuto”. E quindi, in un’altra strofa, Efrem pone sempre in bocca di Maria, la lode della madre che è anche la lode della Chiesa: “Con la bocca dei miei martiri io rendo grazie per aver accolto il bimbo, figlio dell’Invisibile uscito alla visibilità. Su una cima eccelsa mi sollevi con i miei santi, per rendere gloria… a colui che si chinò e si fece piccolo nella mangiatoia”.
Efrem presenta ancora il tema della buona novella, l’annuncio fatto dagli angeli agli uomini, e lo fa con l’immagine dell’unica sorgente che è Cristo stesso e delle dodici sorgenti che ad essa attingono e che sono gli apostoli annunciatori del vangelo: “Voci celesti ti hanno annunciato ai terrestri; orecchie celesti ti hanno bevuto nel buon annuncio. Sorgente nuova che i celesti hanno aperto per i terrestri assetati di vita… Oh fonte non gustata da Adamo! Dodici sorgenti parlanti essa ha aperto, che hanno riempito di vita il mondo”. Efrem accosta le immagini di Cristo nuovo Adamo nato dalla vergine ad il primo Adamo fatto dalla terra vergine; e ritorna al tema della doppia consustanzialità del Verbo di Dio incarnato: “Tu, mio Signore, spiegami come e perché ti sia piaciuto levarti per noi da un grembo vergine. È stato forse come il tipo del puro Adamo, che da una terra vergine, non ancora lavorata, fu formato?... Egli (Cristo) fu così figlio per Giuseppe senza seme, come fu figlio per sua madre, senza uomo”.

Nella seconda parte dell’inno Efrem introduce già il tema dell’annunciazione, e si sofferma nell’atteggiamento di preghiera con cui Maria accoglie l’annuncio di Gabriele, e mette in risalto il legame tra la preghiera e la gioia dell’accoglienza della buona novella: “Cosa faceva, colei che era casta, nel momento in cui Gabriele, il messaggero, volando discese presso di lei? Lo vide nel momento della preghiera, perché anche Daniele aveva visto Gabriele durante la preghiera. Preghiera e buona novella, sua parente, è giusto che esultino vicendevolmente, come Maria ed Elisabetta sua parente”. Ed Efrem presenta una serie di esempi biblici di questo rapporto tra preghiera ed annuncio di salvezza: la fine del diluvio, la preghiera di Abramo, la preghiera del centurione. Quindi anche quella che è la più grande delle notizie –ed Efrem la chiamerà “la notizia delle notizie”-, trova Maria orante: “Tutte le buone notizie giungono al porto della preghiera. La notizia delle notizie, causa di tutte le gioie, trovò Maria in preghiera”. E quasi per pudore dell’incontro di Gabriele con Maria, presenta l’arcangelo come un vegliardo il cui aspetto non doveva turbare Maria: “Gabriele, come un vecchio nobile e grave entrò e la salutò, affinché lei non tremasse, affinché la giovane modesta, alla vista di un volto giovane, non si rabbuiasse”. Infine Efrem, con delle immagini molto belle, presenta i tre personaggi a cui Gabriele viene mandato: Daniele, Elisabetta e Maria: “A due casti vegliardi e alla vergine, solo ad essi fu mandato Gabriele con le buone notizie… Uno generò la rivelazione della parola di Dio, l’altra la voce del deserto e la vergine il Verbo dell’Altissimo”. L’inno si conclude con la ripresa del tema della kenosi del Verbo di Dio nella sua incarnazione: Colui che riempie l’universo si fa piccolo fino a essere contenuto nel grembo di Maria: “…restrinse se stesso fino a riempire il piccolo grembo di Maria. Poi come un seme nel nostro giardino e un piccolo raggio per la nostra pupilla, sorse, si diffuse e riempì il mondo”.


martedì 3 marzo 2015

Senza il racconto dell'istituzione, diventati corpo e sangue del Signore.
Le notizie che ci arrivano in questi giorni dei fatti accaduti a nord della Siria, con le violenze ed il sequestro di tanti cristiani di tradizione siriaca, soprattutto assiri e caldei, e la distruzione totale delle loro chiese, le loro case, le loro vite, ci porta senz'altro a pregare per questi nostri fratelli cristiani, a piangere con loro perché di sofferenza fino alle lacrime si tratta, a confessare la fede con loro perché di martirio si tratta ancora. E dinunciando senza sosta questi fatti inqualificabili che capitano nel medio Oriente e in tante regioni della terra, e deplorando ancora una volta quell'indifferenza se non altro apparente ad Occidente; leggendo queste notizie appunto non possiamo non pensare ed evocare oggi una delle venerabilissime tradizioni cristiane di lingua siriaca, quella siro orientale, quei cristiani che nella loro preghiera dicono "Abba" al Padre celeste, e che nella loro speranza gridano "Maran atha" al Signore che aspettano che torni nella gloria. La Chiesa siro orientale, rimasta nella seconda metà del IV secolo, oserei dire suo malgrado, tagliata fuori dalla frontiera dell’impero e dalla comunione fraterna con le altre Chiese cristiane, e dalla prima metà del V secolo, dopo il concilio di Efeso nel 431, rimasta fedele alla sua arcaica professione di fede radicata in quella sede patriarcale di Antiochia, dove i cristiani ebbero il più grande degli onori, cioè essere chiamati col nome di Colui che fu appeso alla croce.
         Queste Chiese con una spinta missionaria esemplare arrivarono fino in India, Cina e Mongolia. In questi due ultimi paesi quei cristiani vi rimasero fiorenti fino al medioevo, arrivando nel XIII secolo ad eleggere patriarca e precisamente a Bagdad uno dei loro vescovi proveniente dalla Mongolia; una Chiesa che nei nostri giorni lì, in Cina ed in Mongolia non esiste più, e ci ha lasciate pochissime tracce, qualche raro reperto archeologico, quasi soltanto il ricordo di quei cristiani, conosciuti col nome del grande patriarca costantinopolitano malaugurato a Efeso, di cui loro presero per tanti secoli la denominazione appunto di “cristiani nestoriani”. In India, queste furono Chiese che arrivarono lì portate dalla fede e la predicazione di Tommaso apostolo, Chiese oggi viventi e forti nella loro confessione di fede, nel loro annuncio del Vangelo.
Queste Chiese, conosciute oggi coi nomi di Chiesa Assira e Chiesa Caldea, hanno usato ed usano fino ai nostri giorni il siriaco come lingua liturgica, e nella celebrazione dei Santi Misteri adoperano una delle anafore più arcaiche nella tradizione delle preghiere eucaristiche cristiane, quella conosciuta col nome di Addai e Mari, una anafora che fino ai nostri giorni non ha tramandato la narrazione dell’istituzione dell’eucaristia. Queste Chiese cristiane però, hanno celebrato e celebrano i Santi Misteri invocando il dono dello Spirito Santo per la santificazione di quel pane e quel vino che è stato ed è il Corpo ed il Sangue del Signore, fedeli alla loro tradizione teologica e liturgica, e a quel fermento santo che nella celebrazione liturgica viene mescolato alla farina, mescolato alle loro vite e che li riporta alla fede degli apostoli e a quel momento in cui il Signore diede ai discepoli il suo Corpo ed il suo Sangue affinché loro lo tramandassero alle sue Chiese sparse da Oriente a Occidente.
Cristiani assiri e caldei nel nord della Siria e in Iraq, oggi non hanno non già le parole del Signore all'ultima cena, ma neanche hanno più le loro chiese dove celebrare la fede, dove ascoltare la sua Parola, non hanno più le loro case dove abitare in quella terra che è la loro terra da quasi duemila anni. Chiese e monasteri che erano testimonianze di una architettura antichissima, arcaica, con una iconografia precedente la crisi iconoclasta che lacerò il mondo bizantino lungo l'ottavo e il nono secolo. Erano e sono testimonianze di un cristianesimo non dico differente ma sì fiero della sua diversità. Cristiani assiri a caldei che subirono delle persecuzioni già all'inizio del XX secolo assieme a cristiani armeni e siro antiocheni; assiri e caldei che cercarono rifugio in occidente e oltre l'oceano, oggi di nuovo sono assediati, rapiti, perseguitati, martiri che vivono come se portassero scritte nella propria pelle quelle parole del Salvatore ai suoi discepoli: “questo è il mio corpo… ed il mio sangue…”.
E ancora una volta, la voce del vescovo di Roma si è levata per far memoria di questi fratelli cristiani, voce spinta dalle notizie “drammatiche che giungono dalla Siria e dall’Iraq, relative a violenze, sequestri di persona e soprusi a danno di cristiani e di altri gruppi”. E papa Francesco vuol ancora una volta “assicurare a quanti sono coinvolti in queste situazioni che non li dimentichiamo, ma siamo loro vicini e preghiamo insistentemente perché al più presto si ponga fine all’intollerabile brutalità di cui sono vittime... e allo stesso tempo chiedo a tutti, secondo le loro possibilità, di adoperarsi per alleviare le sofferenze di quanti sono nella prova, spesso solo a causa della fede che professano. Preghiamo per questi fratelli e queste sorelle che soffrono per la fede in Siria e in Iraq”.
Oggi quel "prendete e mangiate... prendete e bevete... questo è il mio corpo... questo è il mio sangue..." del loro e nostro Signore, ce l'hanno, i cristiani assiri e caldei, non scritto nei libri ma nella loro vita, nella loro testimonianza martiriale.