venerdì 27 marzo 2015

La domenica delle Palme nelle omelie cattedrali di Severo di Antiochia
Siede sull’asinello, riposa sui santi
Il corpus delle 125 Omelie Cattedrali di Severo di Antiochia, patriarca della sede sul fiume Oronte dal 513 al 518, ne contiene soltanto una per la domenica delle Palme, predicata il 31 marzo 513. Si tratta di un testo tipicamente severiano, dove il vescovo predica spiegando la celebrazione domenicale delle Palme, messa quasi senza soluzione di continuità col giorno precedente della risurrezione di Lazzaro e con i giorni santi della passione, morte e risurrezione di Cristo, il Verbo di Dio incarnato: “Quando il nostro Signore e Dio Gesù Cristo stava per essere consegnato volontariamente alla croce salvatrice… e farsi umile fino alla morte… Dopo essere sceso fino a Betania, risuscitò Lazzaro, che era stato messo nella tomba da quattro giorni, spaccando la forza della morte che lui stesso doveva uccidere completamente quando discese lui stesso nello sceol e liberare le anime ivi rinchiuse. Per questo disse: «Lazzaro, il nostro amico, dorme e vado a svegliarlo»”. Quasi che dall’inizio dell’omelia, Severo volesse riassumere tutto il cammino delle celebrazioni liturgiche, dal sabato di Lazzaro, passando per l’ingresso a Gerusalemme, fino alla croce e alla discesa di Cristo negli inferi. L’ingresso di Gesù nella città santa è per l’autore una manifestazione della sua divinità ed una prefigurazione della sua seconda venuta: “E Gesù, che sapeva quello che doveva capitare, cioè che i bambini e la folla gli andavano all’incontro, fece in modo che fosse un ingresso degno di Dio e allo stesso tempo simbolico, poiché diventava per noi prefigurazione della sua seconda venuta nella gloria… e così rivelava la sua divinità…”. E l’esegesi di Severo, in questo caso ed in altri passi del vangelo, mette fortemente in evidenza la manifestazione della vera divino umanità di Cristo.
Seguendo i diversi momenti della pericope evangelica dell’ingresso trionfale di Gesù, Severo fa una lettura cristologica ed ecclesiologica del puledro d’asina su cui Cristo siede entrando a Gerusalemme. L’asino, tipo delle nazioni pagane chiamate alla fede, riceve su di se i mantelli (le dottrine) degli apostoli e su di essi Cristo siede; quasi Severo volesse mettere in evidenza la predicazione di Cristo fondata sempre sulla parola degli apostoli: “I discepoli di Cristo slegarono facilmente l’asinello e lo portarono al loro Signore, dopo aver messo su di lui i loro mantelli… E vedendo Gesù che questo era stato fatto, lui che è veramente il Dio dei grandi misteri, si assise sopra… Infatti quando i credenti si sono rivestiti delle virtù apostoliche come se fossero dei vestiti, come l’asinello stesso, e così tra di loro sono sorti dei dottori e dei martiri…, allora la grazia di Gesù o piuttosto Gesù stesso si è assiso su di loro, ha abitato in essi ed ha riposato su di essi, come anche siede sui cherubini, lui che è Santo e riposa sui santi”.
Quindi il vescovo si trattiene a commentare il significato dei rami di ulivo tagliati dalla folla esultante, ed oltre ad indicare il fatto evidente della presenza di questi alberi nel monte che porta il loro nome, degli ulivi, Severo vi vede dei significati simbolici che commenta al suo uditorio: “Seduto (Cristo) sull’asinello, tipo dei popoli dei gentili che doveva credere in lui, una folla lo accompagnava… gettando al suo passaggio rami di ulivo e i loro vestiti, fatti che indicavano dei grandi misteri”. E, dopo un non breve excursus sul significato della parola «osanna» in ebraico e greco e sulla sua spiegazione cristologica cioè come acclamazione a Cristo vero Dio, Severo prosegue ancora: “La pianta dell’ulivo indica la riconciliazione che viene da Dio, e la sua carità verso di noi che elargisce non a causa della nostra giustizia bensì a causa della sua misericordia. Allo stesso modo una colomba con un ramo di ulivo nel becco indicò la fine del diluvio nei giorni di Noè”.
Severo commenta ancora l’aggiunta del vangelo di Giovanni: «Quando udirono che Gesù arrivava a Gerusalemme, presero rami di palma e uscirono al suo incontro», e la vede come una particolarità giovannea piena di significati. Ed in un lungo paragrafo l’autore fa un commento simbolico dello stesso albero della palma, rigoglioso nella parte alta, slanciato verso l’alto, rude però nel tronco: “La palma ci fa vedere che veniva dal cielo Colui che era osannato. È un albero infatti la cui parte superiore ha dei rami abbondanti e bianchi, mentre nella sua parte media ed inferiore è rude ed spinoso… slanciandosi sempre in alto. Così anche colui che si avvia alla conoscenza di Cristo troverà un cammino rude e difficile, ma quando arriverà all’altezza, in quanto è possibile agli uomini, troverà la luce della teologia e la rivelazione di cose ineffabili, come i rami di palma che sono bianchi. Per questo ancora la sposa del Cantico dei Cantici, che è la Chiesa di coloro che hanno creduto in Cristo, dice: «Io ho detto: Salirò sulla palma, afferrerò i rami più alti »”. L’albero della palma quindi presentato come tipo del cammino del cristiano nella conoscenza di Cristo. Quindi l’autore si avvia alla conclusione dell’omelia commentando il brano del vangelo di Matteo dell’espulsione dei trafficanti del tempio; il luogo santo come casa di preghiera sottolineato dai testi veterotestamentari, assieme al gesto profetico di Cristo, mettono in evidenza l’unità dei due testamenti. E aggiunge ancora un commento alla citazione che le pericopi evangeliche fanno del salmo 8: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra! Con la bocca di bambini e di lattanti: hai posto una difesa contro i tuoi avversari»; la lode dei bambini all’ingresso di Cristo a Gerusalemme è una professione di fede in Colui che essendo grande ed eccelso si è umiliato e fatto piccolo.

Il paragrafo conclusivo dell’omelia, breve ed incisivo, ha un sapore chiaramente crisostomiano quasi di applicazione pratica di tutto il testo commentato: “E’ arrivato il momento di finire l’omelia, per non annoiarvi… Ma voi onorate il balbettio del parlare teologico dei bambini, non trascinandoli ai teatri o alle corse di cavalli, ma portandogli in chiesa e dicendo a Cristo, che è Dio e creatore di tutto: Anche dalla bocca dei nostri bambini ti offriamo la nostra lode”.


lunedì 23 marzo 2015

L’Annunciazione nell’innografia di Efrem il Siro
Oggi esultano la preghiera ed il Vangelo
La festa dell’Annunciazione della Santissima Madre di Dio e sempre vergine Maria, è una delle poche feste che troviamo lungo la Quaresima nelle tradizioni liturgiche orientali. Si tratta di una delle antiche feste cristiane, e ne abbiamo testimonianze nei testi patristici e liturgici orientali. Allo sviluppo di questa festa contribuirono le omelie patristiche di tendenza antiariana che cercavano di sottolineare, accanto all’umanità di Cristo, anche la sua divinità eternamente sussistente in Dio; ed anche l’omiletica di origine siriaca.
Efrem il Siro commenta la pericope dell’annunciazione dell’incarnazione del Verbo di Dio del vangelo di Luca sia nel Commento al Diatessaron, sia anche nella raccolta di inni sulla Natività del Signore. Di questa raccolta appunto vorrei soffermarmi nel secondo degli inni, un testo di ventitré strofe, dove il poeta siriaco canta il mistero dell’incarnazione del Signore e dell’annuncio fatto da Gabriele a Maria. Già nella prima strofa del poema, la parola di Efrem è una lode, unita a quella delle schiere celesti, per il mistero del Verbo che nell’incarnazione redime il genere umano: “Della schiera celeste inviata per la lode, del tempo illustre segnato per la redenzione… me ne rendo anch’io partecipe nell’amore e mi allieto. Voglio lodarlo con canti puri… rendere gloria a quel bimbo che ci ha redenti”. Le profezie veterotestamentarie Efrem le vede applicate a Cristo stesso che nella sua incarnazione si manifesta come re, sacerdote ed agnello; inoltre troviamo anche dei riferimenti molto evidenti di carattere sacramentale al battesimo, al perdono dei peccati e all’eucaristia.: “La cetra dei profeti che l’annunciarono… l’issopo dei sacerdoti che lo amarono… il diadema dei re… sono di quel Signore dei vergini, la cui madre è anch’essa vergine. Poiché è re, ha dato a tutti la regalità; poiché è sacerdote, ha dato a tutti il perdono; poiché è l’agnello, distribuisce a tutti il cibo”. E in questa strofa Efrem collega la forma maschile e femminile del termine siriaco “vergine” in riferimento e a Maria, e a quei uomini e donne che nella verginità erano consacrati al Signore.
Diverse volte lungo l’inno Efrem farà riferimento alla vera divinità e vera umanità di Cristo con l’immagine della paternità divina e la maternità umana: “Degna di memoria la madre che l’ha generato, degno di benedizioni il seno che l’ha portato, come pure Giuseppe, per grazia chiamato padre del Figlio vero –il cui Padre è glorificato…”. In due strofe Efrem mette la parola nelle labbra di Maria stessa per cantare nella prima il mistero dell’incarnazione del Verbo: “Mi ha fatto gioire perché io l’ho concepito; mi ha magnificato poiché io l’ho generato. Nel suo paradiso vivente io sto per entrare e dargli lode nel luogo dove Eva fallì… Di me si è compiaciuto, al punto da essergli madre, poiché l’ha voluto, e da essermi figlio, poiché gli è piaciuto”. E quindi, in un’altra strofa, Efrem pone sempre in bocca di Maria, la lode della madre che è anche la lode della Chiesa: “Con la bocca dei miei martiri io rendo grazie per aver accolto il bimbo, figlio dell’Invisibile uscito alla visibilità. Su una cima eccelsa mi sollevi con i miei santi, per rendere gloria… a colui che si chinò e si fece piccolo nella mangiatoia”.
Efrem presenta ancora il tema della buona novella, l’annuncio fatto dagli angeli agli uomini, e lo fa con l’immagine dell’unica sorgente che è Cristo stesso e delle dodici sorgenti che ad essa attingono e che sono gli apostoli annunciatori del vangelo: “Voci celesti ti hanno annunciato ai terrestri; orecchie celesti ti hanno bevuto nel buon annuncio. Sorgente nuova che i celesti hanno aperto per i terrestri assetati di vita… Oh fonte non gustata da Adamo! Dodici sorgenti parlanti essa ha aperto, che hanno riempito di vita il mondo”. Efrem accosta le immagini di Cristo nuovo Adamo nato dalla vergine ad il primo Adamo fatto dalla terra vergine; e ritorna al tema della doppia consustanzialità del Verbo di Dio incarnato: “Tu, mio Signore, spiegami come e perché ti sia piaciuto levarti per noi da un grembo vergine. È stato forse come il tipo del puro Adamo, che da una terra vergine, non ancora lavorata, fu formato?... Egli (Cristo) fu così figlio per Giuseppe senza seme, come fu figlio per sua madre, senza uomo”.

Nella seconda parte dell’inno Efrem introduce già il tema dell’annunciazione, e si sofferma nell’atteggiamento di preghiera con cui Maria accoglie l’annuncio di Gabriele, e mette in risalto il legame tra la preghiera e la gioia dell’accoglienza della buona novella: “Cosa faceva, colei che era casta, nel momento in cui Gabriele, il messaggero, volando discese presso di lei? Lo vide nel momento della preghiera, perché anche Daniele aveva visto Gabriele durante la preghiera. Preghiera e buona novella, sua parente, è giusto che esultino vicendevolmente, come Maria ed Elisabetta sua parente”. Ed Efrem presenta una serie di esempi biblici di questo rapporto tra preghiera ed annuncio di salvezza: la fine del diluvio, la preghiera di Abramo, la preghiera del centurione. Quindi anche quella che è la più grande delle notizie –ed Efrem la chiamerà “la notizia delle notizie”-, trova Maria orante: “Tutte le buone notizie giungono al porto della preghiera. La notizia delle notizie, causa di tutte le gioie, trovò Maria in preghiera”. E quasi per pudore dell’incontro di Gabriele con Maria, presenta l’arcangelo come un vegliardo il cui aspetto non doveva turbare Maria: “Gabriele, come un vecchio nobile e grave entrò e la salutò, affinché lei non tremasse, affinché la giovane modesta, alla vista di un volto giovane, non si rabbuiasse”. Infine Efrem, con delle immagini molto belle, presenta i tre personaggi a cui Gabriele viene mandato: Daniele, Elisabetta e Maria: “A due casti vegliardi e alla vergine, solo ad essi fu mandato Gabriele con le buone notizie… Uno generò la rivelazione della parola di Dio, l’altra la voce del deserto e la vergine il Verbo dell’Altissimo”. L’inno si conclude con la ripresa del tema della kenosi del Verbo di Dio nella sua incarnazione: Colui che riempie l’universo si fa piccolo fino a essere contenuto nel grembo di Maria: “…restrinse se stesso fino a riempire il piccolo grembo di Maria. Poi come un seme nel nostro giardino e un piccolo raggio per la nostra pupilla, sorse, si diffuse e riempì il mondo”.


martedì 3 marzo 2015

Senza il racconto dell'istituzione, diventati corpo e sangue del Signore.
Le notizie che ci arrivano in questi giorni dei fatti accaduti a nord della Siria, con le violenze ed il sequestro di tanti cristiani di tradizione siriaca, soprattutto assiri e caldei, e la distruzione totale delle loro chiese, le loro case, le loro vite, ci porta senz'altro a pregare per questi nostri fratelli cristiani, a piangere con loro perché di sofferenza fino alle lacrime si tratta, a confessare la fede con loro perché di martirio si tratta ancora. E dinunciando senza sosta questi fatti inqualificabili che capitano nel medio Oriente e in tante regioni della terra, e deplorando ancora una volta quell'indifferenza se non altro apparente ad Occidente; leggendo queste notizie appunto non possiamo non pensare ed evocare oggi una delle venerabilissime tradizioni cristiane di lingua siriaca, quella siro orientale, quei cristiani che nella loro preghiera dicono "Abba" al Padre celeste, e che nella loro speranza gridano "Maran atha" al Signore che aspettano che torni nella gloria. La Chiesa siro orientale, rimasta nella seconda metà del IV secolo, oserei dire suo malgrado, tagliata fuori dalla frontiera dell’impero e dalla comunione fraterna con le altre Chiese cristiane, e dalla prima metà del V secolo, dopo il concilio di Efeso nel 431, rimasta fedele alla sua arcaica professione di fede radicata in quella sede patriarcale di Antiochia, dove i cristiani ebbero il più grande degli onori, cioè essere chiamati col nome di Colui che fu appeso alla croce.
         Queste Chiese con una spinta missionaria esemplare arrivarono fino in India, Cina e Mongolia. In questi due ultimi paesi quei cristiani vi rimasero fiorenti fino al medioevo, arrivando nel XIII secolo ad eleggere patriarca e precisamente a Bagdad uno dei loro vescovi proveniente dalla Mongolia; una Chiesa che nei nostri giorni lì, in Cina ed in Mongolia non esiste più, e ci ha lasciate pochissime tracce, qualche raro reperto archeologico, quasi soltanto il ricordo di quei cristiani, conosciuti col nome del grande patriarca costantinopolitano malaugurato a Efeso, di cui loro presero per tanti secoli la denominazione appunto di “cristiani nestoriani”. In India, queste furono Chiese che arrivarono lì portate dalla fede e la predicazione di Tommaso apostolo, Chiese oggi viventi e forti nella loro confessione di fede, nel loro annuncio del Vangelo.
Queste Chiese, conosciute oggi coi nomi di Chiesa Assira e Chiesa Caldea, hanno usato ed usano fino ai nostri giorni il siriaco come lingua liturgica, e nella celebrazione dei Santi Misteri adoperano una delle anafore più arcaiche nella tradizione delle preghiere eucaristiche cristiane, quella conosciuta col nome di Addai e Mari, una anafora che fino ai nostri giorni non ha tramandato la narrazione dell’istituzione dell’eucaristia. Queste Chiese cristiane però, hanno celebrato e celebrano i Santi Misteri invocando il dono dello Spirito Santo per la santificazione di quel pane e quel vino che è stato ed è il Corpo ed il Sangue del Signore, fedeli alla loro tradizione teologica e liturgica, e a quel fermento santo che nella celebrazione liturgica viene mescolato alla farina, mescolato alle loro vite e che li riporta alla fede degli apostoli e a quel momento in cui il Signore diede ai discepoli il suo Corpo ed il suo Sangue affinché loro lo tramandassero alle sue Chiese sparse da Oriente a Occidente.
Cristiani assiri e caldei nel nord della Siria e in Iraq, oggi non hanno non già le parole del Signore all'ultima cena, ma neanche hanno più le loro chiese dove celebrare la fede, dove ascoltare la sua Parola, non hanno più le loro case dove abitare in quella terra che è la loro terra da quasi duemila anni. Chiese e monasteri che erano testimonianze di una architettura antichissima, arcaica, con una iconografia precedente la crisi iconoclasta che lacerò il mondo bizantino lungo l'ottavo e il nono secolo. Erano e sono testimonianze di un cristianesimo non dico differente ma sì fiero della sua diversità. Cristiani assiri a caldei che subirono delle persecuzioni già all'inizio del XX secolo assieme a cristiani armeni e siro antiocheni; assiri e caldei che cercarono rifugio in occidente e oltre l'oceano, oggi di nuovo sono assediati, rapiti, perseguitati, martiri che vivono come se portassero scritte nella propria pelle quelle parole del Salvatore ai suoi discepoli: “questo è il mio corpo… ed il mio sangue…”.
E ancora una volta, la voce del vescovo di Roma si è levata per far memoria di questi fratelli cristiani, voce spinta dalle notizie “drammatiche che giungono dalla Siria e dall’Iraq, relative a violenze, sequestri di persona e soprusi a danno di cristiani e di altri gruppi”. E papa Francesco vuol ancora una volta “assicurare a quanti sono coinvolti in queste situazioni che non li dimentichiamo, ma siamo loro vicini e preghiamo insistentemente perché al più presto si ponga fine all’intollerabile brutalità di cui sono vittime... e allo stesso tempo chiedo a tutti, secondo le loro possibilità, di adoperarsi per alleviare le sofferenze di quanti sono nella prova, spesso solo a causa della fede che professano. Preghiamo per questi fratelli e queste sorelle che soffrono per la fede in Siria e in Iraq”.
Oggi quel "prendete e mangiate... prendete e bevete... questo è il mio corpo... questo è il mio sangue..." del loro e nostro Signore, ce l'hanno, i cristiani assiri e caldei, non scritto nei libri ma nella loro vita, nella loro testimonianza martiriale.



martedì 24 febbraio 2015

Il profeta Elia nell’innografia di Efrem il Siro
…per poter salire a vederlo in cielo…
Il corpus innografico di sant’Efrem il Siro contiene parecchie strofe con dei riferimenti al profeta Elia, a partire dalla sua vita e degli eventi miracolosi adoperati dal profeta fino alla sua ascensione in cielo. Efrem presenta Elia come uomo dell’ascesi, del digiuno, della preghiera, profeta che prefigura Cristo stesso dalla sua incarnazione, e la sua ascensione in cielo. Lungo la sua vita Elia diventa il prototipo di Cristo stesso: “Il Signore fece dell’aria come il proprio carro, e il suo corpo fu per esso come il cocchiere. Come un carro l’aria farà volare i giusti incontro al suo Signore. Discese un carro su Elia: si librava scendendo senza cocchiere. Cavalli di fuoco vi erano aggiogati, che erano a se stessi anche cocchieri. E anche di quel carro dei cherubini il cocchiere è il silenzio invisibile”. Efrem collega il carro di Elia col carro dei cherubini della visione di Ezechiele, fino all’ascensione “silente” di Cristo in cielo. Con un’esegesi chiaramente cristologica, l’ascensione di Elia è vista da Efrem in rapporto all’incarnazione e ascensione di Cristo: “Elia fendette l’aria con il suo carro. I vigilanti gli si affrettarono incontro vedendo per la prima volta un corpo nelle loro dimore. E come il terrestre (Elia) salì con un carro, vestito di splendore, così il Signore discese con bontà, vestendo un corpo. Cavalcò le nubi e salì, avendo preso a regnare in alto e in basso”.
Elia inoltre è presentato da Efrem come modello di vita verginale. La sua verginità diventa la chiave di tuta la sua vita come profeta e taumaturgo, ed anche la porta del suo ingresso in paradiso: “Poiché Elia aveva represso le passioni del corpo, poté togliere la pioggia agli adulteri… Poiché non lo dominava il fuoco segreto della passione corporale, gli obbedì il fuoco dall’alto. E poiché aveva vinto sulla terra la passione carnale, se ne salì là dove dimora in pace la santità”. La tradizione monastica siriaca posteriore a Efrem, si servirà della figura di Elia come modello di verginità, monaci e monache. In uno degli inni sulla città Nisibi, in cui Efrem fa la lode dei diversi vescovi da lui conosciuti, e cantando la figura del vescovo Abramo, presenta Elia ed Eliseo che diventano modelli per il vescovo stesso: “La tua castità, come quella di Eliseo; la tua verginità, quella di Elia; fedele al patto come Giobbe; compassionevole come Davide; la tua dolcezza, quella degli apostoli…”.
La verginità di Elia lo porta corpo ed anima in paradiso. Ancora in due strofe degli inni su Nisibi, troviamo riassunta tutta la sua antropologia: “L’ascensione di Elia istruisce i credenti: tutti e due, corpo ed anima, sono saliti sul carro, verso la dimora di lassù. Elia non si è spogliato dal corpo gettandolo da qualche parte… E’ salito in alto anche col corpo che era stato santificato… Il mantello di Elia, invece, da cui si è separato ci mostra che era qualcosa di provvisorio… Rapito col corpo ci fa vedere che questa è la vera veste che accompagnerà coloro che ne sono rivestiti. Il mantello si stacca e cade, il corpo vola e si innalza”. L’antropologia di Efrem in questi versetti presenta il corpodel profeta e dei battezzati come una realtà salvata e redenta da Cristo nella sua incarnazione. Elia inoltre precede Cristo nel suo innalzarsi in paradiso, ma sempre come suo tipo e figura: “Lode a Te, che sei il primo, nella tua divinità e nella tua umanità! Benchè Elia salì per primo, non era prima di Colui da cui fu innalzato…”. Per Efrem il profeta Elia è la figura veterotestamentaria che più chiaramente è tipo di Cristo nella sua risurrezione ed ascensione al cielo; la sua stessa vita è presentata come una ricerca e un desiderio della visione del Figlio di Dio; la sua ascesa in cielo è un incontro col Signore: “Lui Elia bramava, e poiché non vide il Figlio sulla terra, credette e continuò a purificarsi per poter salire a vederlo in cielo… Essi rappresentarono il simbolo della sua venuta. Mosè fu tipo dei morti ed Elia tipo dei vivi, che voleranno incontro a lui nella sua venuta…”. E sempre prendendo Elia come tipo e modello, Efrem accosta il paradiso alla Chiesa dei redenti: “Elia è stato portato a questo giardino della vita… ed i perfetti hanno bisogno di questo giardino, dove si trova l’albero della vita, simbolo del Figlio di Do vivente… Elia doveva entrare in paradiso, lui che a misura che cresceva, si faceva umile…”.
Il miracolo di Elia con la farina e l’olio della vedova, diventa tipo della misericordia del Signore verso la sua Chiesa: “L’olio che aveva moltiplicato Elia era nutrimento per la bocca; il corno della vedova, infatti, non era quell’ dell’unzione. L’olio del nostro Signore nel corno non è cibo per la bocca: del peccatore, esternamente lupo, fa un agnello del gregge. L’olio del Mite e dell’Umile trasforma i duri, facendoli simili al suo Signore. I popoli erano lupi e temevano il duro bastone di Mosè. Ecco, l’olio segna e fa dei lupi un regge di pecore”. I riferimenti efremiani all’olio in questa e in altre strofe vanno visti chiaramente in un contesto battesimale. L’acqua e l’olio mescolati nel battesimo diventano per Efrem sacramento della misericordia di Dio: “La veemenza di Dio, che non potevano sostenere né Mosè né Elia… né i cherubini che si nascondono il volto… l’ha mitigata la misericordia, mescolandosi con acqua ed olio, affinché la debole umanità potesse stare di fronte a Lui… avvoltasi con acqua e olio”.
L’esegesi in chiave simbolica e cristologica che Efrem fa dei testi profetici veterotestamentari è ben palese in diversi passi degli inni sulla Pasqua del poeta siriaco: “La pietra che Daniele aveva visto riempì di sé tutta la terra. La nube che Elia aveva visto si allargò e divenne tipo del Vangelo che si dispiegò e si distese su tutti i popoli. Cosparse i suoi flutti copiosi e gocce capaci di placare la sete dei popoli. Benedetto Colui che è servito in ogni luogo!”.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco
Roma



martedì 17 febbraio 2015

Il sangue dei martiri, sacramento di comunione.
La forza del Nome di Gesù
         Un pomeriggio romano, facendo una passeggiata per le vie dell’Urbe, cercavo delle bancarelle di fiorai. Da sempre ho un interesse personale, quasi un amore oserei dire, verso i cactus, queste piante grasse, belle, sobrie, portate alla vita quasi ascetica tra la sabbia del deserto, piante austere anche nella loro fioritura: rari e pochissimi fiori ma di una bellezza unica. La mia ricerca romana mi portò, non tanto tempo fa, quasi per caso, a trovare un fioraio dai tratti medio orientali. Tra le spine dei cactus mi accorsi che il fioraio portava tatuata sul dorso della mano piccola crocetta e li chiesi se era cristiano. Mi disse che era copto ortodosso e, chiedendogli il nome, mi rispose: Scenute.
         In questi giorni, di fronte al martirio dei cristiani copti in Libia, con delle accorate parole papa Francesco alzava la sua voce ancora una volta per annunciare, quasi fosse una professione di fede, quell’ecumenismo del sangue: “Dicevano solamente: ‘Gesù aiutami’. Sono stati assassinati per il solo fatto di essere cristiani. Lei, fratello, nel suo discorso ha fatto riferimento a quello che succede nella terra di Gesù. Il sangue dei nostri fratelli cristiani è una testimonianza che grida. Siano cattolici, ortodossi, copti, luterani non importa: sono cristiani! E il sangue è lo stesso. Il sangue testimonia Cristo. Ricordando questi fratelli che sono morti per il solo fatto di testimoniare Cristo, chiedo di incoraggiarci l’uno con l’altro ad andare avanti con questo ecumenismo, che sta incoraggiando l’ecumenismo del sangue. I martiri sono di tutti i cristiani”.
Con il riferimento all’ecumenismo del sangue, Francesco riproponeva quel cammino dei cristiani delle diverse confessioni, non ancora attorno all’unico Pane e all’unico Calice, ma già attorno all’unico Sangue versato per Cristo, per rendere testimonianza dell’unico Signore, Gesù Cristo. E Francesco ricorda come l’unica parola uscita dalla bocca dei martiri copti è stata quel “Gesù, aiutami”; quasi una eco della preghiera del cuore, la preghiera di Gesù, di tanti e tanti cristiani che invocano l’unico Nome in cui abbiamo la salvezza. La preghiera dei martiri copti, nel momento di rendere testimonianza della loro fede, in comunione con quell’invocazione del Nome di Cristo Gesù, quella preghiera che lungo i secoli è stata ed è l’invocazione quotidiana e continua di tanti uomini e donne cristiani, monaci e monache, pellegrini, martiri che lo invocano con fede: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”. L’invocazione del Nome che nelle labbra dei martiri copti, di tanti martiri cristiani dei nostri giorni, si riduce all’essenziale, a Colui che dà loro la forza: “Gesù, aiutami”.
         La Chiesa Copta, che dal II secolo in poi ha dato vita a una letteratura crisiana importante, a una linfa, una vita cristiana, che si esprime in quella lingua degli antichi egiziani diventata lingua cristiana, il copto, lingua di milioni di cristiani in Egitto, copti ortodossi e cattolici, che lungo i secoli fino ai nostri giorni hanno lodato il Signore. Monaci e monache, padri e madri del deserto, padri e madri dei martiri, che nel deserto asciutto dell’Egitto hanno cercato il Solo, l’Unico, nella comunione con gli uomini. Uomini e donne che lungo il Nilo hanno vissuto e vivono –fino a quando!- nella comunione con i Signore e con i fratelli. La Chiesa Copta, nata e cresciuta attorno ai monaci e agli asceti, nella scia di Antonio, Pacomio, Scenute… E nella scia di tanti martiri fino ai nostri giorni: uomini, donne, bambini, in Egitto, Libia… Uomini e donne inermi sicuramente, ma fermi unicamente nella forza del Nome di Gesù.
         Una nota di agenzia faceva i nomi dei martiri copti della Libia; c’erano dei Milad, Youssif, Kirillos, Tawadros, Giorgios, Bishoi e tanti altri fino a 22 i conosciuti. Nomi legati a dei santi martiri e vescovi della Chiesa Copta delle origini, nomi della Chiesa Copta oggi, nomi del martirologio del sangue comune a tutte le Chiese cristiane ieri ed oggi. Papa Francesco, alla fine del suo intervento a braccio, faceva di nuovo appello all’ecumenismo del sangue. I martiri come patrimonio, forza e vanto di tutti i cristiani. Leggendo i sinassari, i martirologi di tutte le Chiese cristiane ci si accorge come i santi martiri dei primi secoli cristiani sono patrimonio comune a tutte le Chiese cristiane, senza distinzione di origine e di vicende storiche diverse. Pure i nuovi martiri, dall’Iraq e la Siria fino all’Egitto e la Libia, all’Asia e all’Africa, essi, i nuovi martiri, scrivono col sangue il loro nome nel sinassario, nel martirologio di tutti coloro che invocano il Nome del Signore Gesù Cristo, vita e salvezza dei martiri.

Stamane, finito il mattutino quaresimale in Collegio Greco, sono andato a trovare il fioraio Scenute, per dirgli che condividevo con lui l’ecumenismo del sangue, con le parole di papa Francesco: “… il sangue è lo stesso. Il sangue testimonia Cristo”.


giovedì 29 gennaio 2015

La festa dell’Ingresso del Signore nel tempio negli inni di Efrem il Siro
Oggi Simeone raccoglie il frutto dell’albero della vita
Efrem il Siro canta la pericope evangelica della presentazione di Gesù nel tempio di Lc 2,22ss in alcuni dei suoi inni della raccolta sulla Natività di Cristo. Ci soffermiamo in due inni di questa collezione, il XXV ed il VI. Nel primo il poeta teologo canta la Chiesa come luogo dell’adunanza dei fedeli per la celebrazione del mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio. Lungo tutto il poema Efrem mette in parallelo Maria e la Chiesa; quanto è prefigurato e profetizzato dell’una avviene anche nella vita dell’altra. Tutte le strofe del poema iniziano con la frase: “Beata sei tu, o Chiesa…”, e nelle due prime troviamo quasi una presentazione della situazione liturgico architettonico della celebrazione: “Beata sei tu, o Chiesa, poiché risuona in te la grande festa, la solennità del Re… Beate le tue porte, aperte ma non piene; i tuoi atri, spaziosi ma non sufficienti alla folla… Beata sei tu, o Chiesa, poiché nelle tue solennità i vigilanti gioiscono in mezzo alle tue feste… per tutta la notte i vigilanti danno gloria… Beati i tuoi canti, seminati, mietuti e raccolti nei granai del cielo. La tua bocca è un incensiere e i tuoi canti aromi esalanti nelle solennità”. L’accenno ai vigilanti nel contesto del vangelo di Luca è riferito ai pastori senz’altro, ma anche ai cristiani veglianti nella preghiera.
         La profezia di Is 7,14, Efrem la applica a Maria nella concezione del Verbo di Dio nel suo grembo, e anche alla Chiesa in cui avviene pienamente anche il significato salvifico del nome “Emmanuel” –Dio è con noi. Cristo concepito nel grembo di Maria, e concepito anche nel cuore della Chiesa; i fedeli in essa vengono mescolati, fatti partecipi della natura divina di Cristo: “Beata sei tu, o Chiesa: di te gioisce Isaia con la sua profezia: «Ecco, la vergine concepirà e partorirà» un bimbo, il cui nome è un grande simbolo. Oh il significato svelato nella Chiesa! Due nomi mescolati che divengono uno: «Emmanuel». «El» è sempre con te, poiché ti ha mescolata alle sue membra”. Poi in diverse delle strofe Efrem continua la lettura ecclesiologica di alcune profezie veterotestamentarie. Fa inoltre un parallelo tra Betlemme e la Chiesa; la prima significa “casa del pane”, la seconda custodisce la parola, ed i sacramenti: “Beata sei tu, o Chiesa… Beati i tuoi montoni marchiati col tuo marchio, le tue pecore custodite dalla sua parola. Tu, o Chiesa, sei la perenne Betlemme, poiché in te c’è il pane della vita”. Infine le profezie di Daniele ed i salmi di Davide trovano nella Chiesa il loro compimento: “Beata sei tu, o Chiesa: ecco gioisce di te Daniele che aveva indicato che il Cristo glorioso sarebbe stato ucciso… Beata sei tu, o Chiesa: sulla propria cetra canta di te il re Davide”.
         La Chiesa ancora viene presentata come luogo e ricettacolo delle Sacre Scritture ed anche il luogo dove esse vengono interpretate: “Beata sei tu, o Chiesa… In te i profeti stanchi hanno trovato riposo… Beati i suoi libri, dispiegati nei tuoi templi, e le solennità sfavillanti nei tuoi santuari…”. Dopo le profezie dell’Antico Testamento, la Chiesa viene presentata come luogo della pienezza delle beatitudini evangeliche; Efrem ne enumera dieci, facendo un’aggregazione tra Mt 5 e Lc 6: “Beata sei tu, o Chiesa, per le dieci beatitudini, donate dal nostro Signore. Simbolo pieno: al dieci sono infatti appesi tutti i numeri, perciò le dieci beatitudini ti hanno resa perfetta… O beata, da ogni beatitudine coronata, anche su di me lancia una beatitudine!”. Betlemme e Maria, piccole ed umili, diventano abitazione e dimora del Signore per la sua incarnazione e la sua nascita: “Beata sei tu, Betlemme: fortezze e potenti città ti hanno invidiato. Maria come te l’hanno invidiata donne e vergini figlie di nobili. Beata la fanciulla degna di essere la sua abitazione, e il borgo degno di essere sua dimora. Una fanciulla indigente ed un piccolo borgo lui si è scelto per farsi umile”. E quasi senza soluzione di continuità troviamo nella strofa 13 il fulcro di tutta la cristologia di Efrem: il Figlio eterno del Padre che nasce nel tempo: “Beata sei tu, Betlemme: in te ebbe inizio il figlio che è nel Padre dall’eternità… Colui che in te si è sottomesso al tempo, è prima del tempo… In te cominciò a belare l’agnello di Dio, che in te ha saltellato e nella tua mangiatoia è stato piccolo, pur distendendosi su tutte le creature ed adorato in ogni direzione”. Nella penultima delle strofe troviamo il riferimento a Lc 2, 22ss nell’anziano Simeone, che è chiamato beato per il suo portare, offrire Cristo al Padre: “Beato il sacerdote che, nel santuario, ha offerto al Padre il figlio del Padre; frutto raccolto dal nostro albero, pur provenendo direttamente dalla divina maestà”. Efrem vede il portare da parte di Simeone del bambino Gesù come un raccogliere il frutto dall’albero, visto costui come luogo dell’umanità di Cristo. Il tempio dove Cristo entra è il tempio dal velo strappato nella crocifissione da Cristo stesso: “Nel tempio lo Spirito attendeva con ardore il suo ingresso e quando fu crocifisso uscì, strappando il velo”.
         Nell’inno VI della stessa collezione, Efrem dedica tre strofe ai due anziani, Simeone ed Anna, che ricevono Cristo nel tempio e gli cantano delle nenie che diventano, ambedue, vere e proprie confessioni di fede: “Nel tempio santo Simeone lo portava cantandogli una nenia: «Sei venuto, o clemente, tu che hai clemenza della mia vecchiaia e fai entrare le mie ossa in pace nello sheol. Grazie a te risusciterò dal sepolcro al paradiso»”. Efrem quindi presenta Anna che bacia in bocca il bambino, come Isaia fu toccato sulle labbra dal carbone ardente: “Lo abbracciò Anna e lo baciò sulle sue labbra. E lo Spirito si posò sulle sue labbra come fu con Isaia… E Anna cantò una nenia: «O figlio di condizione regale, figlio di condizione vile, in silenzio ascolti, invisibile vedi, nascosto intendi. Dio figlio d’uomo sia gloria al tuo nome»”.



sabato 3 gennaio 2015

L’Epifania del Signore in un’omelia siriaca anonima del VI secolo
Oggi il Giordano avvolge il Signore Onnipotente
         Una raccolta di omelie siriache anonime risalenti al VI secolo, contiene tre discorsi, due più lunghi ed uno più breve, sulla festa dell’Epifania Il secondo di questi testi, partendo della vicinanza tra il Natale e l’Epifania, “Da una festa all’altra, il Signore conduce il suo gregge spirituale…”., racchiude quasi una raccolta di bellissime immagini parallele delle due feste accennate. In primo luogo l’autore propone ambedue feste viste come nascite e come manifestazioni del Verbo di Dio incarnato: “Nella prima festa, la creazione ha ricevuto il Creatore dal seno della Vergine, e nella festa odierna la sposa riceve lo sposo dal seno del battesimo… Nella prima nascita, è stato generato dalla Vergine, e nella festa odierna è stato generato dal battesimo”. Il battesimo di Cristo quindi viene messo in parallelo alla sua nascita da Maria. E il testo prosegue con delle immagini che costituiscono una vera e propria captatio benevolentiae dell’uditorio: “Al posto delle braccia della Vergine, ecco i flutti del Giordano lo abbracciano; al posto delle ginocchia, oggi lo portano le onde del fiume; al posto dei panni, le acque lo avvolgono… Oggi lui apre il battistero per santificare i nuovi nati”. Per l’autore dell’omelia nel Natale Cristo si presenta piccolo, debole neonato, mentre nella festa odierna si presenta come uomo maturo: “Dalla grotta dove è nato, oggi il Giordano riceve il Signore onnipotente; dalla mangiatoia che lo ha ricevuto neonato, oggi il Giordano lo riceve nella forza dell’età adulta”. E troviamo anche un bel parallelo tra i personaggi presenti sia a Natale –Giuseppe e gli angeli che lo vedono neonato-, che al Battesimo –Giovanni e la voce del Padre che lo manifestano Signore e Figlio di Dio: “Quando è nato (il Signore), c’era Giuseppe che aveva cura della sua piccolezza, qua Giovanni figlio di Zaccaria sta alla sua presenza con timore. Lì, gli angeli glorificavano la sua nascita; qua il Padre che dal cielo dice: «Costui è mio Figlio»”. E ancora vediamo altri personaggi che nel parallelo presentato dall’autore mettono in risalto la vera umanità di Cristo nella sua nascita, e la vera divinità manifestata nel suo battesimo: “Lì, Anna la profetessa annunciava la salvezza ai figli di Gerusalemme; qua lo Spirito Santo che lo dichiara al mondo come «Figlio dell’Altissimo». Lì i pastori cercavano il luogo della sua nascita; qua la moltitudine che si domanda: chi è costui davanti al quale Giovanni si fa piccolo?”.
         L’autore introduce poi il tema della santificazione delle acque adoperata da Cristo nel suo battesimo, in vista al battesimo dei cristiani stessi; e il testo dell’omelia riecheggia quasi il testo liturgico della consacrazione dell’acqua che il giorno dell’Epifania si celebra nelle liturgie orientali: “Oggi nel Giordano appare l’Unigenito di Dio; oggi il Santo è venuto a santificare per noi le acque del perdono; oggi è venuto a preparare il grembo in vista a una rinascita della creazione che ne ha bisogno… Le acque, grazie al battesimo del nostro Salvatore, hanno ricevuto il dono di purificare corpo e anima”.
         L’omelia prosegue con il rapporto tra il battesimo e il mistero stesso della redenzione: Cristo viene al battesimo per essere tra gli uomini, in mezzo a loro: “Il Santo è venuto al battesimo senza averne bisogno; è venuto al Giordano, per essere in mezzo alla folla dei peccatori. Dio in mezzo agli uomini e non lontano da loro; il Giusto tra i peccatori; l’Altissimo in mezzo agli orgogliosi e non separato da loro”. E il testo prosegue elencando tutta una serie di fatti voluti dal Signore, presentati quasi in forma liturgica, parallela al testo della benedizione delle acque: “Tutto quello che (il Signore) vuole, lo ha fatto in cielo ed in terra: ha abitato in mezzo alle assemblee celesti… è disceso per abitare nel seno della Vergine e nato uomo… neonato, bambino, adolescente, sottomesso ai genitori… sceso nelle acque per santificare i peccatori… camminato sulle acque che lo sorreggono… Il raggio dell’essenza del Padre oggi è sceso nel grembo delle acque…”. E l’autore enumera, quasi contrapponendoli, una lunga serie di fatti che portano alla lode ed alla meraviglia di fronte a loro: “Di che cosa meravigliarsi? Del fatto che il Dio onnipotente nasca piccolo bambino, o del fatto che il Figlio dell’Altissimo sia annoverato tra i peccatori? Del fatto che abbia rivestito le membra (umane) nel seno della Vergine, o che oggi le onde del Giordano l’abbiano avvolto? Del fatto che i panni l’abbiano avvolto, oppure che oggi sia sceso nudo nelle acque?”. L’Epifania quindi come manifestazione della piena divinità di Cristo, corroborata dalla voce del Padre: “Fino ad oggi lui appariva schiavo della legge; oggi si manifesta come colui che scrisse la legge; oggi la voce del Padre lo proclama non schiavo ma libero… oggi si manifesta Figlio del Re”. L’autore infine paragona la discesa di Cristo nelle acque del Giordano al lavoro di una fonderia del ferro: “Lui è venuto a istallare una fonderia nelle acque, per mescolare lì e fondere lo Spirito col fuoco, ed impegnarsi a togliere la ruggine dei vecchi utensili, e rifondere in essi l’immagine che si era insudiciata… E per rinnovare quest’immagine Gesù mette la fornace nelle acque, e mescola lo Spirito ed il fuoco nel seno delle acque; il fuoco per purificare, lo Spirito per rafforzare”.