mercoledì 19 novembre 2014

Giorgio Warda. I salmi di Maria
Colei che ha partorito il datore della vita
          Giorgio Warda è uno dei principali innografi della tradizione ecclesiale e liturgica siro orientale, vissuto tra a fine del XII e l’inizio del XIII secolo ad Arbela, nell’attuale Iraq. Il nome Warda (che significa rosa in siriaco) è un soprannome legato alla raccolta delle sue composizioni poetiche presenti nei libri liturgici siro orientali. Si tratta di poemi teologici molto spesso in forma di omelie metriche per le feste liturgiche del Signore, della Mare di Dio e dei Santi. Presentiamo un frammento di uno degli inni di Giorgio dedicati a Maria, inno che contiene una serie di versetti in cui il poeta teologo fa una lettura in chiave mariologia e soprattutto cristologica di alcuni salmi o versetti dei salmi, presentandone un’esegesi assai originale. Si tratta quasi soltanto di una lista senza commento di ventidue versetti salmici che l’autore applica a Maria, e costituisce quasi un unicum nell’esegesi siro orientale di testi veterotestamentari.
          Il poeta elenca i salmi o i versetti salmici nell’ordine del salterio stesso, visto come un libro biblico che nel suo insieme va letto, pregato ed interpretato in chiave cristologica e cristiana. Maria come modello di speranza e di fiducia. “Ventidue salmi cantati da Davide, è a lei (Maria) che convengono. Il primo indica tutta sua perfezione e la sua purezza: «Beato l'uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori… ma nella legge del Signore trova la sua gioia…». Il terzo sulla la sua persecuzione: « Signore, quanti sono i miei avversari! Molti contro di me insorgono »; ed il quarto la sua pace: «…perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare. ». Il quinto (tratta) della sua calunnia: «Non c'è sincerità sulla loro bocca, … la loro lingua seduce…», ed il quindici della sua giustizia: «Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sulla tua santa montagna?»”.
          L’autore quindi applica i versetti salmici alla vita stessa di Maria, presentata soprattutto come modello di ogni cristiano che vive nella sua vita, quasi incarnandoli, i versetti stessi dei salmi. Sono dei salmi che si adattano a Maria, al cristiano e alla Chiesa stessa. “Il sedicesimo sulla sua perseveranza: «Ho detto al Signore: Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. », il diciassettesimo la sua limpidezza: «Saggia il mio cuore, scrutalo nella notte, provami al fuoco: non troverai malizia… Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine. », e la lode che segue a questo fu cantata per lei da suo padre giusto”.
          Con un altro gruppo di salmi, Giorgio mette in luce la cura e la provvidenza di Dio verso Maria: è colui che la guida, la custodisce e la protegge: “E ancora il ventitreesimo sulla sua crescita con la provvidenza (di Dio): «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare…», ed un altro, il ventiseiesimo sulla sua bellezza senza peccato: «Signore: nell'integrità ho camminato, confido nel Signore, non potrò vacillare… La tua bontà è davanti ai miei occhi, nella tua verità ho camminato…». E quell’altro che dice: «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, e contro di me si sono alzati falsi testimoni che soffiano violenza» (salmo 27), e assieme al il trentaquattro (ambedue hanno annunciato) che il Signore l’ha benedetta e l’ha custodita sulla terra. E quell’altro, il quarantaseiesimo, (la proclama) trono di Colui che tutto santifica: «Un fiume e i suoi canali rallegrano la città di Dio, la più santa delle dimore dell'Altissimo. Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare… nostro baluardo è il Dio di Giacobbe.», ed ancora il quarantottesimo dichiara che è tempio del Figlio dell’Altissimo.”
Altri salmi portano l’autore ad esaltare la piena fiducia e dedizione di Maria nei confronti di Dio, dedizione che si manifesta con l’immagine dell’abitare nel tempio e, quindi, nel diventare tempio stesso di Dio, nell’incarnazione del Verbo nel suo grembo: “E il sessantunesimo (parla) del suo nascondimento: «Per me sei diventato un rifugio… Vorrei abitare nella tua tenda per sempre, vorrei rifugiarmi all'ombra delle tue ali», e la sua liberazione nei due (salmi) che seguono. E nell’ottantaseiesimo (si dice) che il Figlio dell’Altissimo ha abitato in lei: «Si dirà di Sion: “l'uno e l'altro in essa sono nati e lui, l'Altissimo, la mantiene salda». E il salmo novantunesimo (parla) degli angeli che custodiscono il suo corpo: «Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie», e il salmo centouno (annuncia) che (il Figlio) è apparso nel mondo per mezzo suo.”
Giorgio applica tutto il salmo 118 a Maria; la meditazione della legge di Dio diventa per l’autore contemplazione del mistero di Maria come modello della Chiesa stessa e di ogni cristiano: “E quello (più) grande (salmo 118) (parla) sulla perfezione, salmo che per intero segue le lettere (dell’alfabeto) e che non contiene separazioni ma tutto il mistero della perfezione; le sue sentenze cento diciotto e sette altre si addicono a Maria. E il centotrentasette che loda il Signore con la bocca e con la mente. Il centotrentotto che (vede) la destra del Signore che la adombrata: «Se prendo le ali dell'aurora per abitare all'estremità del mare, anche là mi guida la tua mano…». E benché tutti (i salmi) parlino dei giusti, tutti pero possono essere collegati a lei e (parlano) su di lei.”
          Infine l’autore aggiunge ai testi salmici anche Ezechiele, Cantico e Matteo, quasi a completare e mettere in risalto l’insieme della Bibbia nell’esegesi cristologica, mariologica ed ecclesiologica, coronandola con il riferimento all’incarnazione del Verbo di Dio nel grembo verginale di Maria: “È colei che non ha conosciuto uomo, ed è la terra che soltanto il Signore ha seminato. Lei è la porta di cui parla il Signore per mezzo del profeta Bar Buzi (Ezechiele): «Sarà chiusa e nessuno vi entrerà, perché (soltanto) il Signore entrerà e ne uscirà». Lei è la fonte sigillata da cui tutto il mondo è dissetato. Lei è il tesoro intatto, da cui si arricchiscono tutti gli uomini. È colei in cui abitò Dio, e da lei risplendette il Figlio di Dio. Lei è la discendenza di Eva, per mezzo di cui fu cancellata la maledizione di Eva. Lei ha portato Colui che porta l’altezza e la profondità, e in lui si radunano. Lei ha partorito il datore di vita, Dio e uomo al di sopra della natura”.

          Il poema di Giorgio Warda, seguendo la tradizione dei testi liturgici delle diverse tradizioni orientali per le feste della Madre di Dio, ci offre una lettura dei testi salmici che si inserisce nella grande ed unica tradizione di lettura cristologica della raccolta del Salterio.


venerdì 12 settembre 2014

Romano il Melodo per l’Esaltazione della Santa Croce
L’albero dell’Eden è trapiantato nel Golgota
          Romano il Melodo (+555) ha due inni liturgici dedicati alla Croce. Il secondo, per la festa dell’Esaltazione della Croce, è formato da 24 strofe, divise tematicamente in due parti: dalla 1 alla 13 in cui Romano dà voce al buon ladrone, crocefisso con Cristo sul Golgota; quindi dalla 14 alla 24 dove l’innografo mette in bocca del diavolo l’amarezza di fronte alla redenzione che Cristo porta nel mondo.
          Romano già dalla strofa 1 introduce quello che sarà il filo conduttore di tutto il poema: la centralità della croce come unico albero, presente nell’Eden e presente sul Golgota, ignorato da Adamo, riconosciuto e confessato dal ladrone: “Il legno tre volte beato, dono di vita, fu piantato dall’Altissimo nel mezzo del paradiso… affinché Adamo potesse ottenere la vita eterna e immortale. Ma lui non riconobbe la vita, la smarrì e scoprì la morte. Il ladrone invece che vide come questo albero dell’Eden era trapiantato sul Golgota, riconobbe in esso la vita…”. Romano sottolinea come la croce diventa l’altalena da dove il ladrone vede già l’Eden: “Quando (il ladrone) fu innalzato sul legno… gli occhi del suo cuore si aprirono ed egli contemplò le gioie dell’Eden… appeso alla croce scorgeva la vita sul legno… ma provava afflizione per Adamo sofferente”. L’innografo, in altre due strofe mette in bocca di Cristo stesso il tema paolino del primo e del secondo Adamo: “Cristo gli disse (al ladrone): «Non compiangere Adamo tuo progenitore, perché io sono il secondo e vero Adamo e per mia volontà sono venuto a salvare l’Adamo che mi appartiene»”. E prosegue col tema della redenzione del genere umano adoperata da Cristo stesso, per mezzo della sua incarnazione e la sua croce: “Nel mio amore per il genere umano sono sceso per lui dall’alto dei cieli… e sono diventato maledizione perché da essa voglio liberare Adamo. Per un legno la trasgressione penetrò nel tuo progenitore… ma entrerà di nuovo nel paradiso per il legno della vita”. La croce quindi diventa la chiave che apre di nuovo il paradiso ad Adamo e alla sua discendenza, tema comune alla letteratura cristiana orientale sia siriaca che bizantina: “Quando i primo creato fu scacciato dal paradiso, i cherubini ne sbarrarono la strada, ma tu prendi la mia croce sulle spalle e va in fretta all’Eden”.
          Dalla strofa 6 alla 10 Romano mette in bocca del ladrone camminante verso il paradiso, il cantico nuovo dei redenti, un vero e proprio salmo inneggiante la croce di Cristo: “…il ladrone prese sulle spalle l’emblema della grazia, come aveva detto colui che è in tutto misericordioso, e si mise in cammino benedicendo il dono della croce, cantando un cantico nuovo: «Tu sei l’innesto per le anime sterili, tu sei l’aratro… tu sei la buona radice della vita risuscitata, sei la verga del castigo…». Il ladrone inoltre si serve di bellissime immagini per parlare della croce: “Tu sei il bastone che accompagna verso la vita i peccatori che sperano in te… tu sei il vaglio che sull’aia separa la paglia dal raccolto. Tu sei il timone divino della barca della Chiesa di Cristo per dirigere i giusti ed i credenti verso il paradiso”. All’arrivo in paradiso il cantico del ladrone introduce il tema paolino della partecipazione del cristiano alla croce e alle sofferenze di Cristo: “Vedo la terra santa dei padri, che apparteneva al mio progenitore… e se l’esterno è pieno di luce, grandi davvero saranno i tesori all’interno. Occhio non vide, né orecchio udì, né cuore conobbe quello che il Signore ha preparato per i suoi amici, crocifissi con lui…”. Quindi il paradiso, grazie alla croce, viene ridato al ladrone; i cherubini ne furono custodi per un tempo, ma dopo il Golgota Adamo ne ridiventa padrone: “E i cherubini dissero: «Vieni ladrone ritorna in possesso dei diritti di tuo padre… a noi il paradiso non fu dato come se fossimo padroni: esso venne assegnato da Dio al primo uomo… Tu, o ladrone, ci hai rivelato che Adamo è stato richiamato dall’esilio…».
          Nella seconda parte del poema, Romano mette in bocca del diavolo tutta l’amarezza della sua sconfitta. Con delle belle immagini fortemente contrastanti, l’innografo mette in parallelo i “due furti” che amareggiano il diavolo: “E il diavolo, vedendo il ladrone nell’Eden, esclamò piangendo: «Terribile è questo che mi è accaduto! Un ladrone giustificato che ha aperto il paradiso. E mentre io cerco di rubare Pietro, proprio a me, che sono ladro, è stato rubato il ladrone! Mentre mi prendo gioco del discepolo impazzito, del traditore di Cristo, sono stato preso in gioco dal ladro che per la sua fede è corso in paradiso». Il diavolo, cercando di rubare discepoli a Cristo, è derubato dal ladrone, suo strumento. E conclude ancora il rimpianto del diavolo con un riferimento sempre ai discepoli di Cristo: “Se avessi visto Giuda guadagnare il paradiso, non avrei sofferto troppo a causa sua, perché non era mio discepolo ma di Cristo. Il ladrone invece era mio fedele discepolo, eppure mi ha abbandonato per correre da Gesù, mi ha odiato e, quel che è peggio, a causa del legno è diventato anche custode del paradiso”.
          Romano conclude nella strofa 24 con una preghiera a Cristo: “Sei diventato figlio di Maia, o Figlio di Dio e Salvatore nostro; alla croce sei stato inchiodato, tu che sei Dio incarnato, per salvare ed avere pietà dei peccatori… Insieme al ladrone gridiamo a te, come fossimo sulla croce: «Ricordati di noi nel tuo Regno»… noi che abbiamo ricevuto il sigillo della tua croce che ci fa una sola cosa in paradiso”.



lunedì 8 settembre 2014

Inni di Giorgio Warda per la celebrazione della beata Vergine Maria.
Oggi nasce l’albero dal frutto meraviglioso…
          Giorgio Warda è uno dei principali innografi della tradizione ecclesiale e liturgica siro orientale, vissuto tra a fine del XII e l’inizio del XIII secolo ad Arbela, nell’attuale Iraq. Il nome Warda (che significa rosa in siriaco) è un soprannome legato alla raccolta delle sue composizioni poetiche presenti nei libri liturgici siro orientali. Si tratta di poemi teologici molto spesso in forma di omelie metriche per le feste liturgiche del Signore, della Mare di Dio e dei Santi. Presentiamo per la festa della Natività della Madre di Dio due dei suoi inni dedicati a Maria. Queste righe vogliono essere anche una forma di preghiera e di vicinanza umana e cristiana a tanti cristiani della tradizione siro orientale e delle altre tradizioni cristiane sofferenti e martirizzati nel Prossimo oriente cristiano.
          I due inni a Maria che presentiamo si trovano, per intero oppure frammentari, nei libri liturgici siro orientali nelle feste di Maria. Giorgio Warda inizia questi due inni riconoscendo la propria indegnità per lodare sia Cristo sia sua Mare; Giorgio è consapevole che lodando Maria loda Colui che da Lei è nato: “Eccomi sommerso dai flutti in fondo ad un mare di iniquità…ma come Pietro, o Gesù, io ti supplico… spalma sugli occhi della mia mente la salva pura della tua bocca vivificante… Chi racconterà i prodigi del Signore? Chi può narrare di questa castissima e pura, di questa santa e santificata, abitacolo, tempio e tabernacolo, torre, palazzo e trono del Dio sempre vivo?”.
          In primo luogo Giorgio passa in rassegna i nomi dati a Maria nei testi veterotestamentari; e propone una lettura della Scrittura in chiave cristologica o soteriologica. È notevole tutto l’accostamento che Giorgio fa tra i primi capitoli della Genesi con Adamo ed Eva nel paradiso e l’inizio della redenzione in Maria: “Adamo è nato dalla terra e alla terra è ritornato; da Maria nacque il Signore di Adamo e divenne per amore figlio di Adamo… La potrei paragonare al giardino dei quattro fiumi? Ma da Maria è zampillata una fonte che quattro bocche hanno sparso, la quale inebriò tutta la terra… Lei è l’albero stupendo che produsse il frutto meraviglioso… Lei è l’arca fatta di carne in cui riposò il vero Noè… Lei è la roccia senza fessura… Lei è il roveto che era arso dal fuoco, dove abitò per nove mesi il fuoco incandescente…”.
          I testi dei profeti, specialmente Isaia e Ezechiele offrono all'autore delle immagini che lui, seguendo tutta la tradizione esegetica dei Padri, applica a Maria: “Lei è la vergine che Isaia predisse come Madre del Signore, il Figlio dell’Altissimo…Lei è la radice di Iesse… Lei è quella porta del Signore, attraverso la quale nessun mortale entrò e per la quale entra ed esce solo il Signore…”. Giorgio procede poi facendo un ritratto quasi fisico di Maria, lodandone i diversi sensi e collegandoli al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio: “O seno che nessun uomo conobbe… diventato tempio per il Figlio… I suoi occhi quanto semplici perché guardavano il Sole degli angeli… Orecchie beate che udirono le parole dell’arcangelo… O labbra dolcissime che baciarono la carne del Verbo… O sacro petto dove il Figlio dell’Altissimo attingeva il cibo… O mani e ginocchia fatte di carne invidiate dai serafini e dai carri dei cherubini…”. E riprendendo l’immagine di Mt 13,45 del mercante di perle preziose, conclude Giorgio il suo primo inno: “O commerciante poverissima, e povera ricchissima, che hai comperato la Perla che ha arricchito tutta la creazione”.
          Nel secondo degli inni Giorgio riprende il parallelo tra i primi capitoli della Genesi e Maria, incentrandolo questa volta con la figura di Eva di cui Maria diventa la vera e propria plenitudine: “Il frutto che Eva non ha trovato, Maria l’ha portato e nutrito; per mezzo del frutto desiderato Maria trovò il frutto e lo donò a tutti. Eva non potò trovare il frutto che Maria trovò in se stessa… Eva non seppe fuggire il male ed attirò la maledizione… Maria fu esenta dalla colpa e meritò la liberazione per il mondo intero…”. E l’autore prosegue, proponendo un’esegesi assai originale, con la lista che quasi enumera senza commento di ventidue versetti salmici che lui applica a Maria. Ne diamo qua soltanto un campione, ma si tratta sicuramente quasi di un unicum nell'esegesi siro orientale di testi veterotestamentari: “A lei convengono i ventidue salmi cantati da Davide. Il primo canta la sua perfezione e la sua purezza; il terzo la sua persecuzione; il quarto la sua pace… il quarantaseiesimo la proclama abitacolo di colui che tutto santifica, ed il quarantottesimo tempio del Figlio dell’Altissimo… il novantunesimo parla della veglia degli angeli sul suo corpo… poi il lungo salmo centodiciottesimo che, descrivendo le vie di perfezione con la divisione alfabetica è tipo della scala della perfezione… tutti versetti che si applicano a Maria… Tutti questi salmi, benché trattino dei giusti, possono essere applicati a lei e cantando di lei e su di lei”.
          Ai nostri fratelli cristiani, siriaci orientali ed occidentali, copti, armeni, melchiti, maroniti, latini, martiri perseguitati per la loro fede, ma che fedeli a questa fede canteranno la Natività della Vergine Maria. A loro la nostra preghiera e la nostra vicinanza sempre.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco
Roma



lunedì 1 settembre 2014

Il canto liturgico nella tradizione bizantina greca
La voce che canta la Parola
Le celebrazioni liturgiche delle Chiese cristiane, siano esse di tradizione orientale che occidentale, hanno una componente musicale, strumentale o vocale, che le caratterizza in modo particolare. La musica liturgica in Oriente si è sviluppata soprattutto dal punto di vista vocale, cioè sono le voci dei cantori, e tante volte di tutto il popolo, che segnano lo svolgersi della liturgia stessa; sia nel canto dei testi biblici e liturgici, sia nelle risposte del popolo alle invocazioni e preghiere del sacerdote o del diacono.
Non vogliamo in questo momento presentare uno studio storico della musica e del canto liturgico nelle tradizioni cristiane orientali e in quella bizantina in modo particolare, bensì fare un accenno al canto, alla musica oggi nelle Chiese soprattutto di tradizione bizantina greca. Testimonianze del canto liturgico o se si vuol della liturgia cantata ne abbiamo già nei testi dei Padri dal IV secolo in poi; basti citare le composizioni innografiche di sant’Efrem il Siro (+373) con delle indicazioni –non notazioni bensì di una semplice frase- di carattere musicale per noi di carattere oggi indecifrabile; testi innografici assai lunghi che venivano cantati o dall’assemblea oppure da un cantore con un ritornello fatto dal popolo. Questo ruolo centrale della voce nel canto liturgico proviene da un punto di partenza o meglio di espansione costantinopolitana che non ne ha però l’originalità, che invece conviene cercare nella tradizione antiochena e in collegamento stretto con le tradizioni siriache orientali ed occidentali anche odierne. Fino al IX secolo non troviamo delle notazioni musicali, soprattutto dopo la crisi iconoclasta.
La liturgia bizantina greca, celebrata oggi in tanti paesi dal Mediterraneo, dal prossimo Oriente alla Calabria e la Sicilia italiane, ha delle tradizioni mellurgiche proprie, ma ha anche delle caratteristiche che le accomunano. Sono delle composizioni musicali di carattere monodico, cioè cantate a voce e senza strumenti musicali da una persona, o da diverse secondo i casi, ma senza la polifonia che si è sviluppata soprattutto nelle liturgie di tradizione bizantina slava. Non esistono appunto strumenti musicali; è la voce umana l’unico strumento nella lode di Dio e nella proclamazione della Parola. In qualche modo si può dire che la tradizione bizantina greca sfrutta la voce ed il canto come modo di esprimere la preghiera liturgica.
Quale è il ruolo del cantore e soprattutto della voce nella liturgia bizantina greca? In primo luogo, il canto dei testi liturgici lo troviamo strutturato a partire dall’oktoechos, cioè l’insieme di otto toni musicali diversi, collegati all’insieme di testi poetici previsti per un ciclo anch’esso di otto settimane, testi risalenti tra il V ed il IX secolo, opere di teologia poetica di autori anonimi o di grandi innografi come Romano il Melodo e Giovanni Damasceno per fare qualche nome. Questi otto toni musicali vengono applicati ai diversi testi liturgici bizantini lungo l’anno liturgico. Questi testi vengono cantati solitamente dal coro del monastero, della chiesa o del seminario che si tratti. In secondo luogo, il ruolo della voce singola per la recita dei salmi o dei versetti salmici; per la recita e la preghiera dei salmi interi –ed il Salterio ha un ruolo importante nella tradizione bizantina soprattutto nella prassi monastica-, questi vengono recitati da un lettore, lettura che spesso non è una semplice recita quasi “privata”, ma con un’intonazione vocale che permette non soltanto di seguire il testo, ma anche e soprattutto di pregare con il salmista. Per quanto riguarda i singoli versetti salmici, di solito intercalati alle composizioni poetiche sopra accennate, vengono eseguiti da un cantore al tono indicato dal periodo dell’anno liturgico in cui si celebra. In terzo luogo il canto del lettore, cioè la proclamazione cantata delle letture della Sacra Scrittura, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, e soprattutto il Vangelo. In questo caso il canto sottolinea la dimensione di annuncio e di proclamazione che nella Divina Liturgia ha il Vangelo, come momento centrale nella liturgia dei catecumeni o della Parola. In tutte le liturgie cristiane, da Oriente ad Occidente il Vangelo viene cantato dal diacono, per annunciare attraverso la bellezza e la forza del canto e della melodia, che mai sacrifica anzi valuta così il senso del testo, la bellezza e la forza della Parola di Colui che la liturgia proclama come “il più bello tra i figli degli uomini” (salmo 44,7). In quarto luogo le voci o i toni melodiosi e del vescovo o del sacerdote celebrante nelle preghiere lungo la liturgia e soprattutto nell’anafora, cantata anch’essa a partire dagli otto toni accennati già prima, e del diacono nel canto delle diverse litanie lungo la liturgia. Infine, per ultimo, le melodie per i testi speciali o propri lungo l’anno liturgico, melodie che spesso sono entrate nell’anima del popolo fedele che le canta, diventando così veramente concelebrante della liturgia che si celebra, specialmente durante la liturgia della Settimana Santa. Uno di questi casi particolari è il canto degli Enkomia nel mattutino del Sabato Santo, la cui melodia è diventata patrimonio scolpito nel cuore dei credenti bizantini. Si tratta dell'elogio funebre di Gesù formato da 176 strofe divise in tre stanze o gruppi; composto tra il XII e il XIV sec. Il canto degli Enkomia viene fatto di fronte alla tomba di Cristo, messa nel bel mezzo della chiesa, e le strofe vengono cantane alternate a due cori e delle volte intrecciate coi versetti del salmo 118. La musica, il canto forte e veramente vissuto di queste strofe fanno del popolo fedele il vero celebrante, incarnando veramente i diversi personaggi del poema, assumendo il dolore, il pianto, la gioia.
Il ruolo del canto, della voce melodiosa nella tradizione bizantina, voce sia maschile che femminile, nei monasteri, nelle cattedrali, nelle chiesette di campagna, diventa fondamentale sì per la sua bellezza anche in se stessa, ma soprattutto per la forza dell’annunzio della Parola e per la celebrazione della lode al Dio che è Padre, che si è rivelato pienamente nel Figlio e ci santifica nello Spirito Santo.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco
Roma.




sabato 16 agosto 2014

Assieme alle Chiese siriache, per la Dormizione della Madre di Dio
Benvenuta la mensa benedetta che offre il pane della vita.
         La festa della Pasqua della Madre di Dio, il giorno 15 agosto, la sua morte e la sua piena glorificazione, è celebrata nelle Chiese orientali con grande solennità; festa preceduta anche di un periodo quaresimale di preparazione come avviene per la Pasqua di Cristo. Vogliamo in queste righe soffermarci, a modo di testimonianza, di comunione e di preghiera con e per i nostri fratelli cristiani in Iraq e nel prossimo oriente, sui testi liturgici delle due tradizioni siriache, quella occidentale e quella orientale, testi che verranno cantati e pregati in questa festa, ma allo stesso tempo testi che in tante chiese in Iraq e nel prossimo oriente, non verranno più cantati né pregati. Si tratta di testi liturgici in cui viene sottolineata ripetutamente la gioia di tutta la creazione nell’accorrere alla celebrazione del transito di Maria; testi che mettono in evidenza la presenza, in questa celebrazione gloriosa e festiva, degli angeli, degli apostoli, di tutta la Chiesa; testi infine che ripetutamente invocano Maria come colei che intercede per il popolo. Diamo semplicemente la traduzione di alcuni brani appartenenti alla tradizione siro occidentale per prima, e a quella siro orientale in secondo luogo. Testi, la cui attribuzione ai grandi padri di queste Chiese: Efrem, Giacomo, Isacco, ci porta alla comunione con tutti i cristiani che per duemila anni hanno invocato il Signore nella lingua con cui ci insegnò ad invocare Dio come Padre.
         Della tradizione siro occidentale, diamo la traduzione di alcuni testi del vespro della festa. La liturgia di questo giorno sottolinea in modo speciale la dimensione ecclesiale della festa nella presenza attorno a Maria di tutte le schiere degli angeli e degli uomini: “Facci degni, o Cristo Dio, di celebrare con animo puro e corpo senza peccato, assieme alle schiere degli angeli e ai cori degli uomini giusti e degli apostoli, questo giorno festivo di tua Madre benedetta. Conservaci per le sue preghiere e per le sue suppliche liberaci da ogni male nel corpo e nell’anima… Nel giorno del transito della vergine, gli apostoli ne celebrano la liturgia sacra; le schiere degli esseri di fuoco e di spirito, con le anime dei giusti, dispongono la processione verso la sua sepoltura, …e onorano il giorno del transito della vergine Maria, figlia di Davide, la Madre che ha generato Dio… La pace sia con te, figlia di Davide, vergine piena di grazia, santa e piena di bellezza… Angeli e uomini sono stupiti e meravigliati per il tuo transito da questo mondo verso il tuo Figlio…”. E ancora nel vespro della festa uno dei testi di una bellezza e profondità teologica unica nel suo genere: “Lode a Te, Cristo Dio nostro, grande e allo stesso tempo velato, che sei disceso per abitare nel grembo della vergine Madre tua ignara di nozze. Tu ti sei fatto simile a noi eccetto il peccato; e noi, tuoi servitori sulla terra, nella memoria di tua Mare ci accingiamo a lodarla: «Tu sei la sposa perfetta e la Madre pura e ignara di nozze, sorgente di benefici… Tu sei il lievito della vita mescolato alle tre misure di frumento, il Cristo… Tu sei il vanto dei cristiani. Nel giorno del tuo transito tu hai riempito il mondo di meraviglia; le schiere degli angeli sono accorsi per onorarti e unirsi agli apostoli, radunati per onorare la tua morte… e seppellire il tuo bellissimo corpo. Essi ti videro distesa sul letto e avvolta di gloria ineffabile, aperti i cieli e gli eserciti degli esseri luminosi volavano e scendevano per onorarti». O giorno grande e felice in cui la Madre è andata a raggiungere il suo Unigenito. Pietro, il capo degli apostoli, porta il letto funebre, e Gabriele, il capo degli angeli, canta: «Benvenuta sei, o Madre benedetta e sposa pura! Lode a te, dimora dello Spirito Santo e camera nuziale del Re celeste, vigna fertile che diede il grappolo della gioia, il cui vino ubriaca tutta la creazione. Benvenuta sei, vergine piena di grazia, rosa desiderabile e giglio pieno di profumo, figlia benedetta che hai liberato Adamo tuo padre dalla schiavitù del peccato… Benvenuta sei, mensa benedetta, che hai offerto il pane della vita alle anime che erano morte per il peccato, pane che diventa cibo spirituale per la vita nuova».
         Della tradizione siro orientale diamo alcuni brani della liturgia: “Beata te, o vergine, fidanzata ma non conosciuta da uomo. Beata te, che hai un Figlio, ma la tua verginità non è stata conosciuta da uomo. Beata te, mare senza pare, il tuo fidanzato è il tuo Figlio prediletto. Beata te, o terra nella quale fu formato il Signore di Adamo e nella carne vi abitò. Beata te, albero prodigioso che porti il frutto pieno di meraviglia. Beata te, roveto straordinario, non consumato dalla fiamma. Beata te, scettro del figlio di Aronne, che germogliò le mandorle senza essere stata piantata; nel tuo grembo lui si è fatto uomo… Per il corpo puro che aveva portato il Figlio di Dio era giunto il momento di bere il calice che Adamo aveva riempito per i suoi figli. Il Signore ordinò agli angeli del cielo di rendere onore al corpo di sua Madre. Essi la scortarono con solennità e onore, come era stato loro comandato. Gloria a Colui che ha esaltato il giorno della sua assunzione”.
Ambedue le tradizioni invocano Maria come colei che intercede presso Cristo, il suo Figlio. Invocazioni che facciamo nostre in questo giorno di festa, in comunione coi nostri fratelli iracheni e nel prossimo oriente, che canteranno nella loro liturgia questi testi benedetti, o che forse potranno soltanto viverli nella liturgia di testimonianza martoriale delle loro vite: “Cristo, Dio nostro, che accetti le domande dei peccatori e ascolti i pianti di coloro che sono afflitti, che rendi onore alla memoria dell’assunzione di tua Mare, la Vergine pura, accogli ora il profumo della nostra preghiera, perdona le nostre colpe e rimetti i nostri peccati per la sua intercessione. Nella tua immensa misericordia, accetta in nome della tua Chiesa le offerte e i doni che ti offrono i suoi figli fedeli in onore di tua Madre, regina degli aneli e dei santi…”. “O Cristo, nostro Salvatore… rendici oggi degni della tua clemenza, per gioire e godere con Maria nella vita che non tramonta…”.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco

Roma


Miniatura siriaca, Mor Gabriel, Tur Abdin. XIII secolo


mercoledì 30 luglio 2014

Il martirio dell’indifferenza.
Quella pergamena scritta col sangue.
I monasteri benedettini della congregazione di Subiaco, e in modo speciale il monastero di Monserrat nella Catalogna in Spagna, e Belloc in Francia, ebbero lungo il XX secolo un rapporto speciale con l’oriente cristiano di tradizione siriaca. Specialmente P. Bonaventura Ubach, monaco di Montserrat, di cui scade il cinquantesimo della morte, spese tutta la sua lunga vita nel prossimo Oriente, nello studio della lingua siriaca, delle tradizioni delle Chiese cristiane che da duemila anni si trovavano in quelle terre benedette; Terra Santa, Libano, Siria, la Mesopotamia, furono a lungo peregrinate da questo monaco che amò e fece conoscere le ricchezze letterarie, liturgiche e soprattutto umane di queste Chiese. Inserito in questa tradizione “orientale” di Montserrat, e in occasione della mia ordinazione sacerdotale, un amico monaco eremita mi fece il regalo di una bella edizione della Bibbia di Mosul. Si trattava di una ristampa del 1950 curata dai padri domenicani di questa città irachena, e che riproduceva quell’edizione del 1888-1892, che a sua volta riprendeva edizioni anteriori e le completava. La grande edizione di Mosul della Bibbia secondo la Peshitta, edita dal metropolita siro-cattolico di Damasco Mor Clemens Joseph David, e con una prefazione del metropolita caldeo di Amid (Diyarbakir), Jirjis ‘Abdisho‘ Khayyat, è infatti un testo biblico importante che include anche alcuni libri biblici che non si trovano nella versione della Bibbia ebrea. Il dono di questa edizione della Bibbia di Mosul mi fece piacere non soltanto per il pensiero dell’amico monaco, ma anche perché si trattava di un’edizione della Bibbia molto utile per qualsiasi studioso delle tradizioni cristiane siriache a livello biblico, patristico e liturgico. Oggi che la vita dei cristiani a Mosul e in tutta quella regione della Mesopotamia viene calpestata, perseguitata, violentata, quell’edizione biblica acquista un valore quasi di testimonianza di fronte al martirio di quei cristiani che da quasi duemila anni confessano l’unico Dio, Padre Figlio e Spirito Santo, e lo fanno nella lingua che fu quella del Verbo di Dio incarnato.
Mosul, città custode e possiamo dirlo apostolo della Parola di Dio, oggi è diventata custode del sangue dei martiri. Bruciate le case, bruciate le biblioteche, bruciata e distrutta una tradizione cristiana di quasi due millenni. Zone cristiane, tutto il Prossimo Oriente, popolate da monaci e monache, da cristiani di tante confessioni ecclesiali cattoliche ed ortodosse: siro orientali, siro occidentali, armeni, latini… che in duemila anni hanno imparato a vivere insieme e condividere una vita cristiana semplice, povera, non facile, ma sempre segnata dalla tolleranza, la riconciliazione, la vera fratellanza. Fratelli nostri cristiani che ultimamente non soltanto subiscono persecuzione a causa del nome di Cristo, ma che lì in quei luoghi che sono loro da duemila anni, non ci sono più. La voce dei pastori delle Chiese cristiane in quei luoghi non soltanto ci allertano ma ci dicono che i cristiani a Mosul e nelle vicinanze non ci sono più.
In questi giorni il patriarca siro cattolico Ignazio Giuseppe III Younan ha fatto una forte denuncia dei fatti che lì accadono in questi termini: “Non esiste assolutamente nessuna ragione per attaccare innocenti cristiani e altre minoranze a Mosul e altrove. Non c’è nemmeno una ragione per distruggere luoghi di culto, chiese, vescovadi, parrocchie, nel nome di una cosiddetta organizzazione terrorista che non ascolta la ragione e non bada alla coscienza. Noi con rammarico diciamo che il nostro arcivescovado a Mosul è stato bruciato totalmente: manoscritti, biblioteca; E hanno già minacciato che, se non si convertiranno all'islam, tutti i cristiani saranno ammazzati. È terribile! Questa è una vergogna per la comunità internazionale”. Inoltre il patriarca caldeo Louis Raphael I Sako e tutti i vescovi caldei, siro cattolici, siro ortodossi e armeni del nord dell’Iraq radunati ad Ankawa, alla periferia di Erbil, chiedono la tutela necessaria verso i cristiani e le altre minoranze perseguitate. Inoltre invitano ad evitare la distruzione di chiese, monasteri, manoscritti, reliquie e tutta l’eredità cristiana, patrimoni iracheno e di tutta l’umanità.
Distrutte biblioteche, distrutte chiese, distrutte icone, distrutti tanti volumi scritti sulla pergamena, quella pelle di pecora asciugata, stirata, lavorata, dove gli antichi monaci in quelle terre benedette trascrivevano la Parola di Dio, i testi dei Padri, i canti di lode delle chiese cristiane; quelle pelli benedette che contenevano la lode del popolo di Dio sono ormai perse, distrutte, bruciate; viene quasi da dire che rimane soltanto la pelle dei cristiani, lavata, unta e alimentata dal battesimo, dall’unzione col crisma e dalla santa Eucaristia, pronta perché vi si scriva non più in caratteri di inchiostro ma in caratteri di sangue.
Un nuovo massacro cristiano oggi in Iraq, in Siria, in tutto il Prossimo Oriente. Maaloula e Saydnaia in Siria mesi fa persero i loro tesori di chiese, monasteri, biblioteche, icone… e soprattutto persero tante delle vere icone del Signore che sono i cristiani. Oggi a Mosul, e in tanti altri posti in Iraq, le popolazioni vengono derubate, schernite, lasciate nel bel mezzo del deserto quello fisico, arido e senz’acqua, quasi ad echeggiare il salmo, e soprattutto quello spirituale creato attorno a loro dal silenzio, dall’indifferenza di tanti e tanti, magari anche cristiani, che tacciono, che non possono, non osano o non vogliono far sentire la loro voce. La voce delle Chiese cristiane e dei loro pastori, da quella di Roma e del suo vescovo che presiede nella carità e oggi anche presiede nella sofferenza le Chiese sorelle, fino a quelle Chiese e dei pastori presenti in quei luoghi dove i cristiani testimoniano e annunciano il vangelo della riconciliazione e della pace, questa voce unisona si alza nella preghiera, nel grido forte al non oblio, alla non omissione, alla denuncia di una sofferenza e di una persecuzione palese agli occhi di tutti gli uomini. Voce dolente ed angosciata di pastori delle Chiese che vedono i loro figli scappare, soffrire e morire per il fatto di portare il nome di Cristo e vivere come cristiani.
         Nei primi secoli della Chiesa, uomini e donne andavano nel deserto, per trovare lì la vita vera che essi cercavano, nell’incontro con l’Unigenito nella loro solitudine e nella comunione all’interno delle Chiese cristiane. Oggi tanti cristiani, uomini, donne, anziani e bambini, vengono non portati ma gettati nel deserto per morire lì; un deserto dove nella fedeltà alla loro confessione di fede, trovano il vero testimone, il vero martire, Colui che dalla croce perdonò i suoi persecutori. Di nuovo, alla soglia del centenario del martirio di milioni di cristiani armeni, siro orientali e siro occidentali, di nuovo la fede cristiana viene messa alla prova.
         “È proprio una vergogna!” ammonisce ancora il patriarca siro cattolico. “Chiediamo alla comunità internazionale di essere fedele ai principi dei diritti umani, della libertà religiosa, della libertà della coscienza. Noi siamo in Iraq, in Siria e in Libano: noi cristiani non siamo stati importati, siamo qui da millenni e, quindi, noi abbiamo il diritto di essere trattati come esseri umani e cittadini di questi Paesi…”. Facciamo nostra questa voce dolente ed angosciata di pastori delle Chiese che vedono i loro figli fuggire, soffrire e morire per il fatto di portare il nome di Cristo.

P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco

Roma