mercoledì 12 giugno 2024

 


Sant’Efrem. Inni di Nisibi.

…per raccogliere da sotto i tavoli le briciole piene di vita.

          Gli Inni di sant’Efrem di Nisibi (+373) rappresentano una delle raccolte più importanti e più abbondanti di questo genere letterario che troviamo spesso tra i Padri della Chiesa sia in Oriente che in Occidente, cioè la poesia teologica o la teologia poetica, come la si voglia denominare. Cito qua come esempi Ambrogio di Milano nell’Occidente di tradizione latina; Gregorio di Nazianzo, Romano il Melodo e Giovanni Damasceno nell’Oriente di tradizione greca; Efrem di Nisibi nell’Oriente di tradizione siriaca. Tra le raccolte del santo diacono siriaco, voglio soffermarmi in questo lavoro molto brevemente nei suoi Carmina Nisibena, cioè gli Inni di Nisibi, e in questa raccolta che è una tra le più abbondanti di Efrem, fare una lettura rapida con qualche annotazione di alcune strofe degli inni dal XIII al XVI, soffermandomi specialmente nell’inno XV. Indico tra parentesi in alcuni casi il termine siriaco originale.

 

          Negli inni XIII e XIV Efrem presenta la figura dei tre vescovi di Nisibi a cui lui ha servito come diacono: Giacomo, Babu e Vologeso. In diverse delle strofe di questi due inni, Efrem li enumera di seguito facendogli susseguire nell’ordine da primo a terzo, ed indica le virtù e i fatti portati a termine da questi tre vescovi. Mi soffermo nelle strofe 2 a 4 dell’inno XIV.

          2.Il buon lavoro (ascesi, ܥܡܠܐ) del primo ha arato (lavorato, preparato) la terra col suo sforzo (afflizione, ܐܘܠܨܢܐ). Il pane ed il vino di quello di mezzo (il secondo nella lista) hanno riparato (sanato, guarito) la città (fortificata) nella sua rovina. Nell’afflizione, il discorso dolce dell’ultimo (il terzo) ha addolcito la nostra amarezza.

          3.Il primo ha lavorato la terra col suo sforzo e ne ha sradicato spine e rovi. Quello di mezzo l’ha circondata con la sua chiusura (mura) e coi riscattati l’ha circondata. L’ultimo ha aperto il granaio del suo Signore e ha seminato in essa le parole del suo Signore.

          4.Il primo sacerdote (pontefice, ܟܗܢܐ) per mezzo del digiuno aveva chiuso le porte delle bocche. Il secondo sacerdote, per mezzo dei riscattati ha aperto le bocche chiuse. L’ultimo ha forato le orecchie per appenderci un ornamento vivente.

          Notiamo in queste strofe, e si ritrova anche in altre degli stessi inni, la presentazione di seguito in ordine cronologico dei fatti avvenuti nel governo dei tre vescovi accennati. Il primo, Giacomo, che ha arato, preparato la terra, la Chiesa col suo lavoro, la sua ascesi (ambedue le parole sono sinonime in siriaco). Il secondo, Babu, che ha dovuto agire da medico e guaritore per le ferite del suo popolo. Infine, il terzo, Vologeso, che con la sua parola ed il suo modo di agire ha alimentato e abbellito il suo popolo: “L’ultimo ha forato le orecchie per appenderci un ornamento vivente”.

 

Negli inni XV e XVI Efrem si trattiene nella terza figura dei vescovi di cui ha parlato: Vologeso, e si serve per parlare di lui di due immagini, cioè il capo del corpo -si potrebbe tradurre anche la “testa”- e lo specchio. Presenta Vologeso come un vescovo celibe, buon predicatore e intellettualmente ben preparato, uomo di buon carattere, equilibrato e piuttosto tollerante, fatto che conduce il diacono poeta all’interessante ultima strofa, quella 22, che tramando alla fine.

 

          In questa mia lettura, che è soltanto un primo approccio a questi inni efremiani, mi soffermo soltanto nell’inno XV. Efrem parla del vescovo come il “capo/testa (ܪܝܫܐ)” del corpo di cui tutti sono e debbono sentirsi membra, cioè la Chiesa. Il vescovo, il capo del corpo (ed il termine “membra (ܗܕܡܐ)” verrà usato letteralmente o sottinteso molte volte da Efrem in questi testi), deve dare a tutti il segno della rettitudine, deve essere per loro un esempio.

1.Se il capo non è dritto, le membra si mettono a mormorare; a causa di un capo che è storto, ne soffre il percorso delle membra, e costoro ne danno la causa al capo.

Efrem mette giustamente il vescovo come punto di riferimento ed anche, come ripeterà diverse volte negli inni e capita anche nella vita reale di ogni luogo e di ogni tempo, come una sorta di “punto di scarica” delle gioie e dei lamenti e difetti delle membra di questo corpo, della Chiesa.

 

2.E benché ora (nei nostri giorni) lui sia a posto, noi scarichiamo su di lui (il capo) le nostre brutte abitudini; e quanto di più se costui (il capo) fosse proprio riprovevole! Dio stesso è sempre soave, ma gli amareggiati si lamentano con Lui.

Efrem fa un’analisi molto chiara della situazione di qualsiasi comunità le cui membra sono sotto la guida di qualcuno che ne debba essere ed agire come loro capo. Anche se il capo del corpo è o riga dritto, le membra scaricano su di lui le loro amarezze, ed anche su Dio, che è sempre benevolo, svuotano le loro lamentele.

 

Dopo aver messo in guardia le membra sul come comportarsi verso colui che è il loro capo, Efrem ne elenca le virtù. Il testo stesso dell’inno è chiaro nel suo significato, nel suo contenuto:

3.Voi che siete membra, imitate il capo: acquistate la serenità (quiete ܫܠܝܘܬܐ) dalla sua purezza (ܫܦܝܘܬܐ), la benignità dalla sua dolcezza (mansuetudine), la purezza dalla sua santità (ܩܕܝܫܘܬܐ), e l’insegnamento (ܝܘܠܦܢܐ) dalle sue istruzioni.

4.Acquistate il buon senso (ܛܥܡܐ) dalla sua longanimità, la sobrietà dalla sua ponderazione, e il distacco (solitudine ܫܘܘܚܕܐ) dalla sua povertà (ܡܣܟܢܘܬܐ). Lui risplende nella sua pienezza, risplendiamo assieme a lui tutti noi.

5.Vedete: le sue parole ed i suoi atti sono misurati e ponderati. E guardate che anche i suoi passi hanno acquisito una andatura serena. Possiede un controllo totale su sé stesso.

Per Efrem il vescovo, il capo del corpo, è anche il maestro, colui che istruisce le sue membra ed esse a loro volta debbono imparare, istruirsi, quasi abbeverarsi da lui. Le virtù che le membra vedono nel capo, nel vescovo, virtù che lui ha già adesso, non virtù che dovrebbe avere ma che per Efrem veramente lui possiede già, essi le membra debbono acquisirle, accoglierle come esempio ed insegnamento dato a loro, ed il diacono poeta ne fornisce una bella lista. Il vescovo possiede la purezza (e qui dobbiamo indicare che il termine siriaco può indicare anche la bellezza, l’agire in modo bello ed onesto, la sincerità si potrebbe anche tradurre); la santità, termine sinonimo anche di castità, e la saggezza che abbiamo tradotto come istruzione, capacità di insegnare. Inoltre, il vescovo deve avere la longanimità, la ponderazione e la povertà. Da queste virtù del vescovo, le membra del corpo debbono acquistare le altre virtù che da quelle del vescovo sgorgano, sono adatte per loro: la serenità, come sinonimo anche di quiete, la benignità, la purezza come sinonimo anche di castità, la buona disposizione ad imparare. Avere anche il buon senso, la sobrietà, la capacità di distacco, e questo è un termine sinonimo di solitudine, quasi fosse il saper guardare a distanza le cose, il distacco dalle cose. Le membra del corpo risplendono quindi non di propria luce ma dallo splendore che viene loro dal capo di questo corpo. Infine, Efrem nella strofa 5 indica come l’agire del vescovo in parole ed in opera è anche misurato e ponderato, addirittura nel suo camminare; lui è qualcuno che, prendendo la parola del diacono: “possiede un controllo totale su sé stesso”.

 

Nelle strofe 8-9 Efrem continua a non tanto a tessere la lode del suo vescovo, bensì a dipingerne l’icona.

8. È stato illustre tra i predicatori, dotto tra i lettori, eloquente tra i saggi, casto (sobrio, modesto ܢܟܦܐ) tra i suoi fratelli ed onorato tra i suoi cari.

9.In due modi (di vita ܥܘܡܪܝܢ) lui è stato solitario (monaco ܝܚܝܕܝܐ) durante i suoi giorni: santo (casto ܩܕܝܫܐ) nel suo corpo e solitario nella sua casa. In segreto ed in pubblico è stato casto.

          Efrem sottolinea come il vescovo è il pastore che sa predicare, che sa insegnare, che sa leggere (e qua il leggere sicuramente può andare anche oltre alla formale lettura dei testi). La dimensione di vita nel celibato del vescovo fa che Efrem lo presenti come una figura quasi monastica nella sua castità, nella sua vita come solitario, come monaco. Inoltre, la prima frase della strofa 9 che abbiamo tradotto come: “In due modi (di vita ܒܬܪܝܢ ܥܘܡܪܝܢ)…”, corrisponde a dei termini siriaci che si potrebbero anche tradurre come: “cella, abitazione monastica”, e la stessa frase prosegue presentando i due luoghi dove il vescovo è stato o ha abitato come monaco, come solitario: nella santità/castità del suo corpo e nella vita solitaria (monastica) nella sua casa: “santo nel suo corpo e solitario nella sua casa”.

           Concludo con due testi presi ancora da questa raccolta efremiana. Il primo raccoglie due strofe prese dall’inno XIV, che sono due preghiere molto personali di Efrem, di una bellezza e profondità teologica veramente uniche. Ve ne do qua semplicemente la traduzione.

          25. Ed io che sono peccatore ed anche lavoratore, istruito da loro tre (i tre vescovi), quando vedranno il Terzo (Triduano, Colui dai tre giorni, Cristo, ܬܠܝܬܝܐ) che chiude la porta della sala delle nozze, tutti e tre chiederanno (intercederanno) per me affinché Lui apra un pochino per me la sua porta.

          26.E il peccatore, allo stesso tempo gioioso e timoroso, si accosterà per spingere ed entrare per guardare (sbirciare ܡܚܪ). E i tre maestri chiameranno con bontà l’unico discepolo, che raccoglierà da sotto i tavoli le briciole piene di vita.

 

          Il secondo testo è l’ultima strofa dell’inno XVI,22 che non ha bisogno di molto commento. Efrem ci dà quasi una fotografia, diciamo meglio una icona, della situazione in cui si trovava il suo vescovo Vologeso nel IV secolo, si trovano e ci troviamo a vivere tanti chiamati ad essere il capo del corpo che è la Chiesa, che è ogni Chiesa cristiana, da Oriente ad Occidente, dal IV al XXI secolo. Lascio il testo a voi affinché ne cogliate l’acutezza, la sagacia e allo stesso tempo la profondità spirituale, psicologica ed ecclesiologica del diacono poeta del IV secolo.

 

22.Siamo noi stessi nel mettere in subbuglio (turbare, mettere confusione) la successione (delle cose) ed il buon ordine, perché nel tempo della moderazione (mansuetudine, longanimità, prudenza), ecco pretendiamo (vogliamo) una severità (durezza d’animo) che ci rimproveri (increpi fortemente) come se fossimo bambini!

 

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico

Vescovo titolare di Carcabia

 


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