«Capisci quello che stai leggendo?»
«E come lo potrei, se nessuno mi
istruisce?».
La
lettura continua del libro degli Atti degli Apostoli durante il periodo
pasquale ci ha fatto ritrovare tante pericopi del testo sacro che ci riportano
agli inizi della Chiesa, ai primi passi degli apostoli -i Dodici, Paolo ed i
suoi discepoli- nell’annuncio del Vangelo di Cristo. Una delle pericopi lette è
l’incontro, la missione vera e propria, di Filippo verso l’eunuco etiopico che
troviamo in Atti 8,26-40. È un testo che sempre mi è apparso come uno dei più
bei esempi di mistagogia nella Sacra Scrittura, una mistagogia breve e succinta
riassunta in questa frase: “…gli
annunziò la buona novella di Gesù…”. Parlo della mistagogia intesa
come quella guida, introduzione di qualcuno a qualcun’altro e verso qualcosa,
quasi guidandolo per mano. Mistagogia, pedagogia anche se si vuole, due parole
che ci riportano a quel “sapiente guidare alla conoscenza, alla comprensione”
da parte di un maestro verso un suo discepolo non per forza ignorante ma sì
desideroso di imparare, di comprendere. Un imparare ed un comprendere -e quindi
anche un vivere- che per i cristiani è il mistero allo stesso tempo manifesto e
nascosto, reale e celato nelle pagine della Sacra Scrittura: il Verbo eterno di
Dio incarnato, nato, patito, morto e risorto.
Questo è
il mistero -ripeto nascosto e celato nel testo sacro- con cui l’eunuco etiopico
si imbatte e alla cui comprensione viene portato per mano da Filippo, il suo
mistagogo. L’eunuco non chiede grandi delucidazioni, ma porge semplicemente una
domanda: “Ti prego, di quale persona il
profeta dice questo?”. E Atti
conclude: “(Filippo) gli annunziò la buona novella di Gesù”.
Inizio queste
mie riflessioni con un aneddoto personale che mi è capitato nel mese di
febbraio 2022 a Roma, nella commemorazione del XXV anniversario dell’Istruzione
per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle
Chiese Orientali, pubblicata appunto 25 anni fa dalla Congregazione per le
Chiese Orientali. Nella tavola rotonda in cui si commemorava, si discuteva, si
analizzava il testo della suddetta Istruzione, un vescovo, capo e padre
di una delle Chiese Orientali Cattoliche presenti nel convegno romano, fecce un
intervento che non soltanto destò in me una vera e propria sorpresa, ma davvero
mi preoccupò -per non dire che mi mise in agitazione-, un intervento in cui,
riassumendone il contenuto, colui che dovrebbe essere il padre, il pastore, il
liturgo di una Chiesa sui iuris, una Chiesa vera e propria, faceva
questa affermazione: “La gente ormai non capisce più le nostre liturgie,
perché hanno un linguaggio incomprensibile, sono estremamente lunghe e senza un
legame con il popolo. Dobbiamo creare un qualcosa di nuovo a livello liturgico,
che abbia un linguaggio facile, ed uno svolgimento (celebrativo si intende!)
che non stanchi e annoi la gente… Una liturgia che sia anche comprensibile ed
accettabile dall’islam (come potete capire si faceva riferimento a una
Chiesa che vive in un contesto fortemente islamico!). L’intervento in
questione proseguì ancora, ma fu il paragrafo citato che provocò in me l’agitazione
di cui sopra, e con tutto il rispetto verso quel padre e pastore di una Chiesa
cristiana orientale, ma con la parresia anche con cui da fratello a fratello
dovremo sempre parlarci e rapportarci tra di noi almeno i vescovi, risposi a
quel intervento dicendo: “Eminenza e caro fratello, ho ascoltato il Suo
intervento con interesse all’inizio e con vera preoccupazione poi, e vorrei
semplicemente dirLe questo: se nel IV secolo tutti i testi liturgici delle
Chiese cristiane, tutte le celebrazioni, tutti i simboli e segni liturgici,
fossero stati chiari e comprensibili a tutti, oggi non avremo nelle nostre mani
le magnifiche catechesi mistagogiche di Cirillo di Gerusalemme, di Teodoro di
Mopsuestia… Il nostro problema oggi -dico nostro e non vostro, perché ci siamo tutti
di mezzo!- non è che i testi liturgici siano più o meno comprensibili, più o
meno difficili, più o meno lunghi, ma il problema oggi è la nostra rinuncia a
fare per i nostri fedeli, che sono il nostro gregge, una vera e propria
mistagogia, e coprirci le spalle con quel troppo facile: “…la gente non
capisce, la gente si stanca…”. La domanda di Filippo e la risposta
dell’eunuco diventano più reali e valide che mai: «Capisci quello che stai leggendo?». «E
come lo potrei, se nessuno mi istruisce?».
La
necessità vitale della mistagogia nelle Chiese cristiane, ed anche la povertà
della non mistagogia o della mancanza assoluta di essa tra di noi, mi si è
presentata in modo molto reale in diversi incontri con i miei fedeli, con i
miei studenti, con tanti pastori e fedeli delle Chiese cristiane, specialmente
durante il periodo della pandemia, un tema che si ripropone in queste ultime
settimane in cui, lentamente, stiamo riprendendo una vita che alcuni qualificano
come “normale”, che altri chiamano “già senza limiti”, e che altri con uno
spunto anche direi di pigrizia umana e spirituale, semplicemente bollano con un
“tornare com’era prima” (prima della pandemia si intende). E il fatto che mi fa
pensare è che, trovandoci di fronte ad un momento, un kairòs direi che
ci viene offerto, che chiede da noi e quasi ci esige l’opportunità di ripensare
tante cose, come le facevamo, come dobbiamo farle, se dobbiamo farle…, di
fronte a questo kairòs -non oso parlare di “dono” del covid ma si “a
causa sua”- dobbiamo in qualche modo dare una risposta.
Siamo
di fronte al grande problema che le Chiese cristiane tutte di Oriente e di
Occidente -e già da alcuni decenni- abbiamo sul nostro tavolo, cioè: fare o non
fare una vera e propria mistagogia ai fedeli. L’aneddoto di febbraio 2022
citato sopra -ed uso la parola aneddoto per non usare un termine più forte- ci
riporta a un fatto che è centrale per tutti noi: le nostre liturgie, i testi
proclamati in esse -biblici e patristici-, i simboli ed i segni presenti in
esse, e il cui significato non è sempre evidente ad un primo sguardo, ad una
prima lettura, parlano a noi, certamente, ma soprattutto parlano di Lui! “…gli annunziò la buona novella di Gesù…”,
leggiamo in Atti 8. E qui entra in gioco il nostro ruolo come
mistagoghi. La mistagogia certamente è impegnativa, e deve trovarci preparati, suppone
un’abitudine ad una lectio divina della Sacra Scrittura, dei Padri della
Chiesa, ma la mistagogia è necessaria, è vitale per noi e per le nostre Chiese.
Se si rinuncia a fare una mistagogia, se i pastori delle Chiese rinunciamo oggi
ad essere in primo luogo mistagoghi verso e per il nostro popolo, allora non ci
resta altro da fare che -permettetemi l’espressione- la “potatura”, oppure il “taglio
netto” dei testi sacri e liturgici delle nostre tradizioni ecclesiali -e la
sorte del Salterio nella tradizione latina dopo l’ultima riforma della Liturgia
delle Ore ne è l’esempio più tragico.
Torniamo
al testo di Atti 8. Si tratta di uno degli esempi più belli di una mistagogia
agli albori della Chiesa. Non farò una lectio del testo per intero. Soltanto
sottolineo alcuni punti che mi sembrano notevoli e mi servono per questa mia
riflessione:
-Filippo
è chiamato dal Signore a raggiungere l’etiopico che legge la Sacra Scrittura. Filippo,
ed anche colui che è chiamato oggi a fare una mistagogia, riceve la chiamata
dal Signore. Chiamata a che cosa? A raggiungere l’etiopico, cioè colui/coloro
che legge/leggono/pregano la Sacra Scrittura. Una chiamata alla mistagogia, a
guidare ai misteri, chiamata che riceviamo tutti noi i vescovi, i preti, i
diaconi, i maestri -professori di teologia o insegnanti che siano- tutto coloro
che abbiamo un ministero didascalico nella Chiesa.
-Il
luogo, il cammino descritto negli Atti è deserto, solitario, e non ha possiamo
dire punti di appoggio, soltanto ci sono il lettore, il carro su cui è seduto, il
rotolo del testo sacro e Filippo che vi raggiunge: “αὕτη ἐστὶν ἔρημος… il luogo era deserto”. L’incontro dell’uomo con il Signore attraverso
la sua Parola è sempre un luogo, una esperienza di deserto, Dio e l’uomo seduto
sul carro da soli. Anche per questo l’incontro con la Parola, la sua comprensione
può essere, è infatti, tante volte arida, forse anche incomprensibile. Ma
l’eunuco, di fronte alle difficoltà, non butta via il rotolo, persevera nella
sua lettura anche senza capirne il senso.
-Filippo trova l’eunuco che legge il profeta Isaia
-Atti degli Apostoli ci indica in modo preciso il passo di cui si tratta, non
rimane vago, indeterminato, ma ci situa in un testo concreto e importante-, e
Filippo viene spinto dallo Spirito a raggiungere il lettore, ed anche sale sul
carro.
-Filippo corre, raggiunge l’uomo, ascolta cosa
legge -la lettura ad alta o mezza voce nell’antichità è un fatto importante,
che coinvolge possiamo dire corpo e anima di colui che legge-, e li porge quella
domanda e riceve quella risposta che sono il nocciolo del testo di Atti: “gli disse (Filippo): «Capisci quello che
stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?»”. Filippo corre all’incontro, non rifiuta
l’incontro con quell’uomo non ignorante ma sì sprovveduto e sprovvisto, e
ascolta, chiede e ascolta di nuovo.
-Atti degli Apostoli ci dice chiaramente
di che testo si tratta: “Come una pecora fu condotto al macello e come un
agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca.
Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, ma la sua posterità chi
potrà mai descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. Avremo
potuto aspettarci che la domanda dell’eunuco fosse stata: “…ma non ci capisco
niente di quanto il testo dice: … pecora… macello… agnello muto… reciso dalla
terra… Cosa è questo linguaggio duro, strano, quasi tragico?”. Ma guardate
che la domanda dell’eunuco è semplicemente: «Ti prego, di quale persona il
profeta dice questo? Di sé stesso o di qualcun altro?». Chiede
semplicemente di sapere di chi parla il testo, ha capito che più che comprendere
il senso del testo, deve sapere, vedere, capire a chi va attribuito, di chi
parla.
-Filippo “…prendendo a parlare e partendo
da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù”. La
spiegazione del “chi”, la mistagogia di Filippo la troviamo nella frase: “…gli
annunziò la buona novella di Gesù”. Il testo sacro infine prosegue col
battesimo dell’eunuco, chiesto da lui stesso e l’accoglienza del dono dello
Spirito Santo. La mistagogia di Filippo si conclude con il battesimo
dell’eunuco.
Si tratta di un brano chiaro e diafano che
ci mette di fronte a quelle cose che potevano capitare e proprio non sono capitate,
vale a dire: Filippo è mandato, inviato, ma poteva anche rifiutarsi, poteva
trovare anche lui delle scuse. Filippo inoltre, dopo aver sentito, ascoltato di
ché brano si trattava, poteva dire all’eunuco: “…sei proprio sfortunato…,
ti sei imbattuto, hai scelto, un testo proprio difficile… il linguaggio del
sacrificio ormai non lo si capisce più… Lascia che ti mostro io altri testi più
belli e più facili. L’eunuco da parte sua dall’inizio delle difficoltà poteva
anche lui buttare via il rotolo di Isaia bisbigliando tra sé e sé: “…ma chi
li capisce questi testi antichi! Non abbiamo altro più poetico, più moderno, più
confortante, meno aggressivo?”.
Ma no, né l’uno né l’altro reagiscono così.
Filippo raggiunge l’eunuco e diventa per lui un vero e proprio mistagogo.
L’eunuco da parte sua non butta via il rotolo, ma chiede sì una spiegazione ma
soprattutto chiede di sapere, di comprendere di chi il testo parla, a chi fa
riferimento. E “Filippo, prendendo a parlare e partendo da quel passo della
Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù”.
Tornando
all’inizio della mia riflessione, e in questo momento in cui lentamente
torniamo alla “normalità” a livello delle celebrazioni liturgiche nelle Chiese
cristiane, vorrei dare una risposta a una domanda che mi è stata posta da
parecchi sacerdoti ed anche vescovi: “in questo momento, cosa e soprattutto
come dobbiamo fare?”. E qui ribatto il chiodo centrale di queste mie
pagine: fare/essere dei veri e propri mistagoghi. Mai e poi mai rinunciare ad
esserlo, altrimenti ci imbattiamo col destino tragico di tanti testi sacri e
liturgici delle nostre tradizioni. «E come lo
potrei, se nessuno mi istruisce?», risuona di
nuovo la risposta dell’eunuco.
Faccio
due esempi che vengono a galla molto spesso in queste nostre settimane di
“ripresa” post pandèmica a livello ecclesiale e liturgico, in Oriente ma
soprattutto in Occidente, e cioè: la ricezione della comunione ai Santi Doni
nella mano o sulla bocca. Poi lo scambio/abbraccio di pace tra i fedeli. Riguardo
al primo punto, la comunione data sotto le due specie, Corpo e Sangue di Cristo
per intinzione e data sulla bocca, come tradizione nelle Chiese Orientali, risolve
qualsiasi problema ci fosse a livello diciamo polemico sul come si riceve la
comunione. Invece, se la comunione si dà soltanto sotto la specie del pane,
essa si riceve sulla bocca, oppure se si decide di darla sulla mano, bisogna evitare
la polemica e spiegare che la si riceve con la mano destra stesa sulla
sinistra, come testimoniato in diversi testi patristici dei primi secoli
cristiani, un fatto, un atteggiamento che sottolinea quell’aspetto che è il più
fondamentale, cioè: la comunione è un dono che si riceve, ci viene dato dalla
Chiesa attraverso il vescovo o il sacerdote che celebra la liturgia, e non è un
qualcosa “a cui avrei diritto” e che mi prendo da solo quasi si trattasse -e
consentitemi l’espressione- di un “self service” liturgico con il Corpo di
Cristo preso da una patena o una pisside che si passa dall’uno all’altro,
oppure che “piglio” con due dita, quasi fossero una pinza, da qualcuno che la
distribuisce. Torniamo al tema centrale di queste pagine: in questo momento
della vita ecclesiale, bisogna fare il mistagogo e spiegare ai fedeli di nuovo cos’è
l’eucaristia, il grande dono del Signore agli uomini, dono che per riceverlo,
liturgicamente e fisicamente, ci alziamo, facciamo una processione, camminiamo all’incontro
con Lui, il Signore e lo riceviamo appunto come dono. «E come lo potrei, se nessuno mi
istruisce?», potrebbe
ancora risuonare la risposta dell’eunuco.
Il
secondo esempio a cui vorrei accennare è lo scambio/abbraccio di pace che avviene
nelle liturgie cristiane. Soppresso durante la pandemia, alcune Chiese lo
stanno ripristinando lentamente. Anche su questo punto bisognerà indossare i
panni del mistagogo e spiegare ai fedeli cosa è, cosa significa questo momento
della liturgia delle Chiese cristiane. Per quanto riguarda le Chiese orientali,
nella tradizione bizantina un vero e proprio scambio di pace è rimasto soltanto
tra il vescovo ed i sacerdoti che concelebrano con lui prima della recita del Credo.
In altre Chiese orientali -penso alle Chiese siriache per esempio- il vescovo o
il sacerdote celebrante dopo aver baciato e toccato con la mano l’altare,
congiunge le sue mani con quelle del diacono, il quale, scendendo dall’altare
passa attraverso i banchi dei fedeli congiungendo le sue mani con quelle del primo
dei fedeli di ogni banco o sedie. Cioè quella pace che ci si scambia è la pace
di Cristo, che viene dall’altare, dal sepolcro di Cristo, dal luogo della sua
risurrezione. È la pace di Cristo che ci si scambia tra i fedeli, e lo si fa con
queste parole: “Cristo è in mezzo a noi. Lo è e lo sarà”, oppure in
periodo pasquale: “Cristo è risorto” Veramente è risorto”. E siamo di fronte,
e di nuovo, al ruolo del mistagogo nello spiegare, anche in questo nostro kairòs
post pandemico, cosa è questo momento liturgico, chi è l’origine e il datore di
questa pace nel momento liturgico in cui esso avviene. Spiegare che non è il
momento per salutare amichevolmente o meno il vicino di banco nella chiesa,
quasi fosse una rimpatriata tra amici. Neanche, nel rito romano, il momento
liturgico che con un suo canto proprio magari debba sostituire quell’altro
momento importante che è il canto, l’acclamazione dell’ Agnus Dei che
accompagna la frazione del Corpo di Cristo.
Fare ed
essere dei veri e propri mistagoghi, mai e poi mai rinunciare ad esserlo. «E come lo potrei, se nessuno mi
istruisce?»…. Ci va non
dico la sopravvivenza della nostra Chiesa e della liturgia che in essa si
celebra, perché ambedue sono dono del Signore, nati dalla sua santa
risurrezione e dal dono dello Spirito Santo, da Lui vivificati ogni giorno, ma
ci va la comprensione del mistero della nostra fede da parte di molti e molti
dei nostri fedeli.
Ho voluto
fare, per modo di dire, una lectio del testo di Atti 8. Ho lasciato
semplicemente risuonare tra le righe della mia riflessione la risposta dell’eunuco
e che possiamo dire mette le dita sulla piaga: “…gli disse
(Filippo): «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo
potrei, se nessuno mi istruisce?»”. L’eunuco
etiopico diventa voce di tanti e tanti fedeli cristiani, orientali e
occidentali, che non buttano via il rotolo biblico, che rimangono perseveranti
nella sua lettura, rispettandone la forma ed il contenuto, ma che ci mettono di
fronte al dialogo che avviene su quel carro che scende da Gerusalemme:
«Capisci…?», «…e come lo potrei, se nessuno mi istruisce?»”. Ho accennato
soltanto due volte al carro su cui siede l’eunuco e a cui sale Filippo per fare
la sua mistagogia. Cos’è il carro da viaggio di cui parla Atti? Rimango fedele
all’esegesi dei Padri, e propongo di vedere in esso la Chiesa che scende da
Gerusalemme dopo la Pasqua del Signore. In essa mistagogo e fedele vivono e
celebrano la Pasqua del Signore.
Filippo è
mandato, raggiunge l’eunuco che legge e “…prendendo
a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona
novella di Gesù”. Mistagogia
di Filippo che raggiunge la sua pienezza alla fine della pericope col battesimo
dell’eunuco. Il passo degli Atti degli Apostoli mi ha portato a proporvi queste
brevi riflessioni attorno a uno dei ministeri più importanti e fondamentali a
cui siamo chiamati e di cui mai e poi mai possiamo e dobbiamo scusarci o
rinunciare: e “…e
partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù”.
+P. Manuel Nin
Esarca Apostolico