mercoledì 14 settembre 2016

L’Esaltazione della Santa Croce nell’innografia di Romano il Melodo.
Oggi la croce riapre ad Adamo il paradiso.
          La tradizione innografica dell’Oriente cristiano adopera spesso il genere letterario del “dialogo” o della “disputa”, cioè la composizione poetica in cui due personaggi o delle volte due luoghi sviluppano lungo un numero variabile di strofe un tema di carattere teologico, servendosi appunto del dialogo/disputa come genere letterario. Efrem (+373) in ambito siriaco e Romano il Melodo (+555) in ambito greco sono due esempi notevoli di innografi che si servono di questo genere letterario. Di Romano abbiamo due inni dedicati alla Croce di Cristo, di cui il primo presenta appunto la discussione tra l’Ade ed il diavolo presentato sotto la forma del serpente. È un testo che sviluppa, lungo ventun strofe, il tema della redenzione di Cristo per mezzo della sua croce; è un poema che in alcune delle strofe raggiunge una profondità e una bellezza uniche nel suo genere. Il filo conduttore del testo è il ritorno di Adamo in paradiso grazie alla croce di Cristo, che ne diventa la chiave per la sua riapertura. I tre primi tropari introducono e situano tutto il poema: “La spada di fuoco non custodisce più la porta dell’Eden, perché al suo posto è sopraggiunto il lego della croce. Il pungiglione della morte e la vittoria dell’Ade sono stati inchiodati… Ed in essa inchiodato tu ci hai redenti, o Cristo Dio nostro… Le creature celesti e terrestri gioiscono con Adamo, perché è stato chiamato di nuovo nel paradiso”. La prima delle strofe, che è poi entrata nella tradizione bizantina come kontakion in alcuni giorni dell’anno liturgico, descrive quasi fisicamente il Golgota e l’Ade che è sconfitto dalla croce di Cristo: “Tre croci piantò Pilato sul Golgota, due per i ladroni e una per il Datore di vita; l’Ade la vide e disse a quelli di laggiù: «O miei ministri e miei eserciti, chi ha conficcato un chiodo nel mio cuore? Una lancia di legno mi ha trafitto all’improvviso… e sono costretto a rigettare Adamo e i nati da lui che a me mediante un albero erano stati dati: un albero li introduce di nuovo nel paradiso»”.


         La disputa tra l’Ade ed il diavolo/serpente inizia dalla strofa seconda, con il rimprovero di costui all’Ade che si accorge di essere sconfitto dalla croce, rimprovero originato dalla cecità del serpente di fronte alla forza della croce di Cristo: “Ade che hai? Perché piangi a vuoto? Ho architettato io lassù per il figlio di Maria questo legno che ti ha spaventato… E’ la croce sulla quale ho fatto inchiodare Cristo, perché con un legno voglio distruggere il secondo Adamo. Non ti turbare, continua a tenere stretti i tuoi prigionieri”. E la risposta dell’Ade rimproverato che diventa quasi una professione di fede nella redenzione avvenuta nella croce: “Corri ed apri bene i tuoi occhi, e guarda la radice del legno dentro la mia anima: mi è scesa fin nel profondo per portare in alto Adamo ed essere ricondotto in paradiso”. Lungo quattro strofe l’innografo prosegue con i rimproveri tra l’Ade ed il diavolo, descritti dal poeta come orbo l’uno e cieco l’altro. L’Ade presenta al serpente la forza della croce di Cristo: “L’ora presente ti mostrerà la potenza della croce e la grande autorità del Crocifisso. Per te la croce è stoltezza, ma da tutto il creato è ammirata come un trono, inchiodato sul quale Gesù ascolta il ladrone e gli dice: «Oggi, povero uomo, con me entrerai di nuovo nel paradiso»”. La promessa fatta da Cristo al ladrone fa reagire ed aprire gli occhi al diavolo cieco che confessa la sua sconfitta; e l’autore sottolinea il legame tra audizione e visione nella confessione del diavolo: “Il serpente vide quel che aveva udito: il ladrone rendere testimonianza a Cristo che testimoniava per lui… E (il diavolo) sbigottito e battendosi il petto diceva: «Parla con un ladrone e non risponde agli accusatori? Neanche di una parola ha degnato Pilato, ed adesso si rivolge ad un assassino?»”. Sconfitto il diavolo cerca rifugio presso l’Ade e nella sua disfatta descrive la salvezza che sgorga dalla croce di Cristo, il luogo della vittoria per mezzo del suo sangue e luogo della vita che sgorga dall’acqua del costato di Cristo. Romano fa parlare ancora il diabolo: “Accoglimi, Ade: presso di te è il mio rifugio! Ho visto anch’io il legno che ti ha spaventato, e arrossato di sangue ed acqua… L’uno prova l’uccisione di Gesù, l’altro prova che egli è vivo, poiché la vita è sgorgata dal suo fianco… ed è stato il secondo Adamo a far rifiorire Eva, la madre dei viventi, di nuovo nel paradiso”. Lungo tutto il testo troviamo delle immagini di una profondità poetica e teologica ineguagliabili: “«Aspetta, Ade sciagurato», disse piangendo il demonio, «taci, sopporta. Sento una voce annunciatrice di gioia, un sussurro mi è giunto che porta buone notizie, un brusio come di foglie dall’albero della croce. Sul punto di morire Cristo ha detto: “Padre, pedona loro… non sanno quel che fanno”. Noi però sappiamo che colui che soffre è il Signore della gloria, che vuol riportare Adamo di nuovo nel paradiso»”. La croce quindi diventa luogo di conversione, non più albero di condanna, vigna dai tralci amari, bensì luogo della dolcezza e della vita: “Piangiamo ora, o Ade, vedendo l’albero che avevamo piantato trasformato in un tronco sacro! Ai suoi piedi hanno preso dimora e fra i suoi rami hanno nidificato briganti e assassini, esattori e meretrici, per cogliere il frutto della dolcezza da quello che pareva un albero secco. Abbracciano la croce come pianta della vita, si aggrappano ad essa per compiere a nuoto la traversata col suo aiuto e approdare di nuovo nel paradiso!”. Romano verso la fine mette in bocca all’Ade il tema del “furto” del ladrone che nella croce “ruba” la sua salvezza: “Nessuno di noi dovrà più far violenza alla stirpe di Adamo, perché è stata segnata dal sigillo della croce, come un tesoro che dentro un fragile scrigno ha una perla inviolabile, che l’accorto ladrone sulla croce è riuscito a sottrarre… e per questo furto è stato chiamato di nuovo nel paradiso!”. L’inno di Romano finisce con una preghiera che rinchiude tutta la teologia della salvezza che viene per mezzo della croce: “Altissimo e glorioso, Dio dei padri e dei fanciulli… la tua croce è la gloria di noi tutti… La nave di Tarsis una volta recava oro a Salomone: a noi il tuo legno procura ogni giorno e ogni momento ricchezza incalcolabile, perché conduce tutti di nuovo nel paradiso".


martedì 6 settembre 2016

XII Symposium Syriacum, Roma agosto 2016
          Nei giorni dal 19 al 24 agosto si sono svolti a Roma il XII Symposium Syriacum, dal 19 al 21, ed in concomitanza con esso il X Congresso Internazionale di Studi Arabo-Cristiani, dal 22 al 24. Arrivato alla sua dodicesima edizione, con una scadenza quadriennale, il Symposium Syriacum questa vota tornava alla sua sede iniziale. Infatti il primo di questi simposi si svolse a Roma, dal 26 al 31 ottobre 1972, nella sede del Pontificio Istituto Orientale che ne era l’organizzatore anche questa dodicesima volta. Il ritorno a Roma del Symposium quest’anno ha voluto indicare in qualche modo quasi l’inizio delle celebrazioni centenarie della fondazione dell’Istituto Orientale a Roma da parte di papa Benedetto XV nel 1917. Il I Symposium del 1972 supponeva l’inizio di una serie di incontri di studiosi della letteratura, della teologia, della patrologia, della filologia, della storiografia di tradizione siriaca, che lungo gli anni avrebbero anche a loro volta dato inizi a incontri di carattere regionale e nazionale di studiosi siriacisti: Libano, Italia, Stati Uniti. Quando le grandi collane di testi siriaci nate e sviluppatesi nel XX secolo arrivarono alla loro maturità, a un numero notevolissimo di testi editi e tradotti (pensiamo a Patrologia Orientalis, Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Anaphorae Syriacae), allora i simposi siriaci, ogni quattro anni, hanno voluto radunare gli studiosi della tradizione siriaca da ogni parte del mondo, dai grandi nomi che hanno segnato le edizioni, le traduzioni e i commenti dei testi antichi siriaci: R. Lavenant, L. Leloir, E. Beck, A. de Halleux, S.P. Brock, P. Bettiolo. Grandi nomi che hanno segnato e continuano a segnare il percorso degli studi siriaci dal punto di vista filologico a quello teologico, liturgico e spirituale. Grandi nomi che hanno contribuito con i loro interventi lungo i simposi a mettere le basi per i futuri studi e approfondimenti nella letteratura siriaca, e hanno spinto -questo è anche un altro dei frutti dei simposi- giovani generazioni di studiosi mettendo nelle loro mani gli strumenti e i fondi da editare e studiare.
          Il XII Symposium Syriacum si è svolto nella sede del Collegio Internazionale San Lorenzo da Brindisi a Roma, ed è stato aperto, dopo i saluti iniziali, dalla lectio magistralis del prof. S.P. Brock dal titolo Melkite Writings in Syriac: A Neglected Field, in cui ha messo in luce l’importanza del fondo di testi conservati in siriaco provenienti dalla tradizione melchita. Nei due giorni e mezzo di studio, gli interventi sono stati distribuiti in diverse aree di studio: dal Nuovo Testamento al cristianesimo in India, dalla tradizione patristica (Efrem, Giacomo di Sarug, Giovanni di Apamea, Narsai) e monastica siriaca, all’agiografia e ai temi di carattere filologico. Una sezione propria l’ha avuta anche l’applicazione dell’informatica agli studi di tradizione siriaca.

          Il X Congresso di studi Arabo-Cristiani si è svolto dal 22 al 24 agosto nella stessa sede. Dopo la lectio magistralis del P. Samir Samir Khalil, dal tema Situation actuelle de la recherche dans le domaine arabe chrétien: projets communs souhaitables, il congresso per due giorni ha visto gli interventi di diversi studiosi che hanno messo in luce l’importanza della letteratura cristiana in lingua araba, dal punto di vista filologico e teologico.

La Natività della Madre di Dio
Oggi nasce il libro del Verbo della vita.
Due grandi feste della Madre di Dio aprono e chiudono l’anno liturgico nella tradizione bizantina: la Natività della Madre di Dio il giorno 8 settembre e la sua Dormizione il 15 agosto. Due feste che ricongiungono il ciclo liturgico in un unico mistero, quello di Cristo, quello di Maria e quello della Chiesa stessa che nasce, come Maria, voluta e amata dal Signore, che percorre con il Signore i grandi momenti della salvezza, e che come Maria è glorificata pienamente in cielo dal Signore che l’accoglie nella gloria. La tradizione bizantina inoltre, nelle grandi feste dell’anno liturgico, legge al vespro tre letture bibliche prese normalmente dall’Antico Testamento, testi scelti in una chiave di lettura allegorica per farne un’esegesi cristologica, mariologica ed ecclesiologica nelle diverse feste. Nelle celebrazioni della Madre di Dio una delle letture sempre utilizzate è Ezechiele 43-44: la descrizione del tempio, con la porta chiusa che guarda ad oriente, e che viene aperta e varcata soltanto dal Signore. Questa lettura cristologica e mariologica dei testi biblici è molto presente nella tradizione bizantina, e nella festa dell’8 settembre, la Natività della Madre di Dio, la troviamo in tre testi letti al vespro: Gen 28: la visione notturna di Giacobbe con l’immagine della scala che sale in cielo; Pr 9: la sapienza che si costruisce una casa; ed infine Ez 44. I testi dell’ufficiatura inoltre adoperano altri testi profetici, come Isaia e Daniele. Testi biblici letti in una chiave cristologica e mariologica, e che sono un bell’esempio di come la liturgia diventa luogo di professione di fede, e luogo di esegesi cristiana dei testi veterotestamentari nella scia dei Padri sia orientali che occidentali.
A partire del testo di Ezechiele 44, la liturgia presenta con delle immagini quasi opposte e contrastanti da una parte la sterilità di Anna, e dall’altra la verginità di Maria. Essa è la porta che guarda all’oriente e, nell’incarnazione del Verbo di Dio diventa il libro in cui la Parola viene scritta nella carne umana: “Questo è il giorno del Signore, esultate, popoli: poiché ecco, il talamo della luce, il libro del Verbo della vita, è uscito dal grembo; la porta che guarda a oriente è stata generata, e attende l’ingresso del sommo sacerdote, lei che in­tro­duce nel mondo, sola, il solo Cristo, per la salvezza delle anime nostre”. La porta di cui parla Ezechiele è presentata e cantata dalla liturgia come immagine dell’incarnazione del Figlio di Dio, unica porta per cui Lui entra nel mondo: “Anche se, per divino volere, famose donne sterili hanno generato, pure, al di sopra di tutti i loro figli, divinamente risplende Maria, poiché, prodigiosamente partorita da madre sterile, ha partorito nella carne il Dio dell’universo, da grembo senza seme, oltre la natura: unica porta dell’Uni­ge­nito Figlio di Dio, che attraver­sandola l’ha custodita chiu­sa, e tutto dispo­nen­do con sapien­za come egli sa, per tut­ti gli uomini ha operato la salvezza”. I testi liturgici, servendosi della stessa immagine della porta, dopo il contrasto, la utilizzano per mettere in parallelo sterilità e verginità, di Anna e di Maria: “Oggi le porte sterili si aprono e ne esce la divina por­ta ver­ginale. Oggi la grazia comincia a dare i suoi frutti, ma­nifestando al mondo la Madre di Dio, per la quale le cose ter­restri si uniscono a quelle celesti, a salvezza delle anime nostre”.
Il testo di Ezechiele è usato ancora dai testi dell’ufficiatura della festa con una lettura collegata sia alla verginità di Maria sia all’incarnazione del Verbo di Dio: “Il profeta ha chiamato la santa Vergine porta invalicabile, custodita per il solo Dio nostro: per essa è passato il Signore, da essa procede l’Altissimo e la lascia sigillata, liberando la nostra vita dalla corruzione. Il nesso stretto tra liturgia e professione di fede lo troviamo in uno dei testi del vespro che con delle immagini poetiche di straordinaria bellezza canta Maria come luogo dell’incarnazione del Verbo, luogo della congiunzione delle due nature in Cristo:“Venite, fedeli tutti, corriamo verso la Vergine, per­ché ec­co, nasce colei che prima di essere concepita in seno è stata predestinata ad essere Madre del nostro Dio; il tesoro della verginità, la verga fiorita di Aron­ne, che spunta dalla radice di Iesse, l’annuncio dei profeti, il germoglio dei giusti Gioacchino e Anna nasce, e il mondo con lei si rin­nova. Essa è partorita, e la Chiesa si riveste del proprio de­co­ro. Il tempio santo, il ricettacolo della Divinità, lo stru­mento verginale, il talamo regale nel quale è stato portato a compimento lo straordinario mistero della ineffabile unione delle nature che si congiungono in Cristo: adorando lui, celebriamo l’immacolata nascita della Vergine.
I testi della liturgia odierna inoltre sottolineano sia la preghiera di Gioacchino ed Anna nell’angoscia per la loro mancanza di discendenza, sia la grande gioia per la nascita di Maria: “Sterile, senza prole, Anna batta oggi gioiosa le mani, si rivestano di splendore le cose della terra, esultino i re, si allie­tino i sacerdoti tra le benedizioni, sia in festa il mondo intero: perché ecco, la regina, l’immacolata sposa del Padre, è germogliata dalla radice di Iesse. Non partoriranno più figli nel dolore le donne, perché è fiorita la gioia, e la vita degli uomini abita nel mon­do. Non saranno più rifiutati i doni di Gioacchino, perché il lamento di Anna si è mutato in gioia ed essa dice: Rallegratevi con me, tutti voi del po­polo eletto Israele: poiché ecco, il Signore mi ha donato la reggia vivente della sua divina gloria, per la comune letizia, gioia e salvezza delle anime nostre. La festa della Natività di Maria mette in luce sia la preghiera e il gemito di Gioachino ed Anna ascoltati dal Signore, sia anche l’inizio della salvezza che ci viene da colei che porta il frutto vivificante per i cristiani, Cristo Verbo di Dio incarnato.