In piena fiducia e parresia. A partire dal salmo 87.
Delle volte capita che un salmo lo reciti quasi a
memoria, lo reciti giorno dopo giorno -settimana dopo settimana oppure mese
dopo mese-, e una mattina o una sera quel salmo ti colpisce, ti penetra come
una freccia, quasi si illuminasse per e nella tua propria vita, oppure per e
nella vita del mondo che ti circonda. Questa mattina proprio il salmo 87 del
mattutino è diventato la mia preghiera forte, esigente, difficile, ma anche
libera di fronte a Dio, al cospetto del Signore che ci ascolta, che accoglie le
nostre parole povere, insufficienti, e le accoglie per mezzo di queste
preghiere antiche e allo stesso tempo vive ed attuali che sono i Salmi. Come se
i versetti del salmo 87 diventassero pietre preziose nelle nostre mani, oppure
dei dardi e delle frecce; pietre preziose che ho accolto stamane nella sua
bellezza e la sua forza e la sua durezza, ma che in me sono diventate appunto
dei dardi taglienti e delle frecce che ho gettato contro/al cospetto del
Signore, quasi volessi ferirlo, che ho gettato contro Colui stesso che ogni
giorno me ne fa dono di queste parole, che le mette nelle mie mani e nella mia
bocca.
Il salmo 87 è un salmo forte, difficile, di
preghiera nell’angoscia. Potremmo dire che è un salmo nel tempo della pandemia?
Nel tempo della fragilità, della sprovvedutezza, dell’inabilità? Un salmo di
non facile comprensione e che lo stesso Sant’Agostino nelle sue Enarrationes
in Psalmos dirà che alcuni versetti neppure lui riesce a commentarli bene
al suo gregge. Mi azzardo non dico a commentare ma semplicemente a sottolineare
qualche versetto diventato per me, nella bocca e nel cuore, allo stesso tempo
pietra preziosa e dardo tagliente. Riporto il testo intero del salmo, in
grassetto i versetti che voglio sottolineare ed in caratteri blu nel mio commento.
Salmo 87. Signore,
Dio della mia salvezza, di giorno ho gridato e di notte davanti a te. Entri la
mia preghiera al tuo cospetto, piega il tuo orecchio alla mia supplica.
Perché è stata colmata di mali l’anima mia, e la mia vita si è avvicinata
all’ade. È un salmo che mostra una grande
libertà, una grande fiducia da parte di chi lo prega: “Signore,
Dio della mia salvezza…”. Tutti noi
cristiani ci sappiamo salvati, amati e redenti dal Signore. Il nostro non è un
Dio lontano, ma è il Dio che si è fatto uno di noi. È Colui che cammina con noi
ogni giorno, accanto a noi, è Colui che ci fa uomini nuovi in sé stesso, in
Cristo Signore. Questo nostro sentirci amati e salvati dal Signore, ci dà una
totale parresia, una totale libertà e fiducia nella nostra preghiera: “…di
giorno ho gridato e di notte davanti a te. Entri la mia preghiera al tuo
cospetto, piega il tuo orecchio alla mia supplica”. Colpiscono i verbi forti adoperati dal salmista –“entri…”,
“piega il tuo orecchio”…, “ho gridato…”-, quasi volessimo piegare
l’udito e il cuore di Dio alla nostra supplica. Non si tratta di un semplice “ascolta”
ma un “piégati, vieni fino a me, fino al mio abisso e fino alla mia povertà”.
La mia preghiera, la mia supplica, di giorno e di notte, ogni giorno ed ogni
notte, è insistente, è martellante. Come se osassimo dire, quasi sfiorando
l’irriverenza: “Insomma, io ci sto, io ti prego, giorno e notte, sempre…, e
Tu, Signore ché fai?”. Una delle cose per cui il Salterio è stato sempre
preghiera dei monaci è sicuramente questa dimensione di “libertà, di parresia,
di fiducia” del monaco, del salmista verso il suo Signore. Perché “è
stata colmata di mali l’anima mia, e la mia vita si è avvicinata all’ade”. La mia anima e la mia vita colmate di mali, ed anche
l’anima e la vita della nostra umanità, colmata di mali, sprofondata nell’ade
della pandemia, della malattia, della sofferenza, delle privazioni, delle
chiusure, dei limiti, dell’incertezza, della morte… Per mesi e mesi sono state
cose che ci hanno sprofondato nell’ade, in un silenzio quasi impotente. Un ade,
uno sprofondamento a cui Lui stesso, il Signore, potrà un giorno scendervi di
nuovo, quasi un nuovo Sabato Grande e Santo, per tirarcene fuori “fra
i morti libero”.
Sono
stato annoverato tra quelli che scendono nella fossa, sono divenuto come un
uomo senza aiuto, fra i morti libero; come gli uccisi che dormono nella
tomba, di cui non ti sei più ricordato, e che dalla tua mano sono stati
respinti. Mi hanno posto in una fossa profondissima, in luoghi tenebrosi e
nell’ombra di morte. Su di me si è addensato il tuo sdegno, su di me tutte le
tue tempeste hai rovesciato. Hai allontanato da me i miei conoscenti, mi hanno
reso un abominio per loro; sono stato consegnato e non ne uscivo. I miei
occhi si sono estenuati per la povertà. Ho gridato a te, Signore, tutto il
giorno; a te ho teso le mie mani. La stanchezza -i
Padri direbbero l’accidia-, nel nostro quotidiano cammino di preghiera viene
messa in primo piano: “I miei occhi si sono estenuati… Ho gridato…,
a te ho teso le mani…”. Quasi a dire al Signore: “Ché
altro ancora devo fare? Cos’altro vuoi ancora?”. Scrivo queste parole nella
parresia della fede ed anche facendomi voce di tanti fedeli cristiani che
vivono questi momenti nello scoraggiamento, nella debolezza, nella fragilità,
“…estenuati
per la povertà”. Farai
forse meraviglie per i morti? Oppure i morti risusciteranno e ti confesseranno?
Forse qualcuno racconterà nella tomba la tua misericordia, e la tua verità
nella perdizione? Saranno forse conosciute nelle tenebre le tue meraviglie, e
la tua giustizia in una terra dimenticata? Eppure, io a te, Signore, ho
gridato, e al mattino ti preverrà la mia preghiera. Perché, Signore, respingi
la mia anima, distogli da me il tuo volto? Povero sono io e nelle fatiche fin
dalla giovinezza; sono stato innalzato e poi umiliato, e sono rimasto smarrito.
Come cristiani, come uomini di buona volontà siamo perseveranti
nella preghiera, fatta da questo miscuglio di parresia e di angoscia, di
fiducia e di fatica, di paura e di speranza, una speranza che ci fa insistenti,
quasi testardi nella nostra preghiera: “Eppure, io a te, Signore,
ho gridato, e al mattino ti preverrà la mia preghiera”, e questo “eppure… -κἀγὼ πρὸς σέ, Κύριε-” diventa quasi disarmante, come dire al Signore che ogni
mattina non soltanto preghiamo ma siamo costanti, quasi testardi potremmo dire,
nel nostro far pervenire a Lui la nostra supplica. Accennavo alla parresia,
alla fiducia, alla libertà, che ci porta a dire non nella disperazione ma sì nella
povertà e nella spogliazione che viviamo: “Perché, Signore, respingi
la mia anima, distogli da me il tuo volto?”, quasi Lui si nascondesse da noi, ci mettesse da parte,
specialmente in questi nostri giorni.
Su di me
sono passate le tue ire, i tuoi terrori mi hanno sconvolto. Mi hanno circondato
come acqua, tutto il giorno insieme mi hanno accerchiato. Hai allontanato da
me amico e vicino, i miei conoscenti dalla mia sventura. Come se il Signore ci lasciasse da soli, senza amici,
senza vicini… Quasi Lui ci mettesse in quarantena. Lui permette che facciamo
l’esperienza della solitudine, dell’abbandono. Sapendo, nella fede, che tante
volte è fragile come un vaso di creta, che Lui cammina accanto a noi pronto a
sorreggerci, ma lasciandoci camminare liberi, e ripetendo ogni mattina
testardamente nella preghiera dei salmi: “Signore,
Dio della mia salvezza, di giorno ho gridato e di notte davanti a te.” Ricordo il dialogo
tra Cristo e Sant’Antonio il Grande, quando dopo le prove e tentazioni
terribili che costui soffrì, disse al Signore, quasi rimproverandolo: “Dov’eri,
Signore, mentre lottavo ed ero tentato?”. Ed il Signore gli rispose: “Ero
accanto a te, per sorreggerti se cadevi”.
Signore,
Dio della mia salvezza, di giorno ho gridato e di notte davanti a te. Entri la
mia preghiera al tuo cospetto, piega il tuo orecchio alla mia supplica. I salmi delle ore nella tradizione bizantina, alla fine
di ognuno di essi, ripetono, quasi martellante volesse diventare la nostra
preghiera, dei versetti che diventano però quelle pietre preziose che
illuminano il nostro cammino, quei dardi che vogliamo feriscano il cuore del
Signore, il nostro Dio, Colui che abbassa il suo orecchio alle nostre
preghiere, che sorregge i nostri passi, che scende nel nostro ade quotidiano
per tirarcene fuori e farci risorgere con Lui.
Il salmo 87 ha dato sfogo alla mia voglia di
scrivere che sento in questi giorni. Sento il bisogno di scrivere, benché non
sappia proprio né cosa né come. Come se sentissi la voglia di partorire
qualcosa, mi si permetta la metafora, ma qualcosa che non è ancora pronta.
Scrivo semplicemente le idee che mi vengono in mente, senza una argomentazione
ordinata. Vedendo le notizie di questi giorni, ritrovo le parole: «Amare la Chiesa
significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo
sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi». Sono parole di Benedetto XVI nell’ultima udienza
generale, quella del congedo, il 27 febbraio 2013. Parole che diventano anche
preghiera e consolazione in momenti bui come i nostri.
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