martedì 3 novembre 2020


In piena fiducia e parresia. A partire dal salmo 87.

Delle volte capita che un salmo lo reciti quasi a memoria, lo reciti giorno dopo giorno -settimana dopo settimana oppure mese dopo mese-, e una mattina o una sera quel salmo ti colpisce, ti penetra come una freccia, quasi si illuminasse per e nella tua propria vita, oppure per e nella vita del mondo che ti circonda. Questa mattina proprio il salmo 87 del mattutino è diventato la mia preghiera forte, esigente, difficile, ma anche libera di fronte a Dio, al cospetto del Signore che ci ascolta, che accoglie le nostre parole povere, insufficienti, e le accoglie per mezzo di queste preghiere antiche e allo stesso tempo vive ed attuali che sono i Salmi. Come se i versetti del salmo 87 diventassero pietre preziose nelle nostre mani, oppure dei dardi e delle frecce; pietre preziose che ho accolto stamane nella sua bellezza e la sua forza e la sua durezza, ma che in me sono diventate appunto dei dardi taglienti e delle frecce che ho gettato contro/al cospetto del Signore, quasi volessi ferirlo, che ho gettato contro Colui stesso che ogni giorno me ne fa dono di queste parole, che le mette nelle mie mani e nella mia bocca.

Il salmo 87 è un salmo forte, difficile, di preghiera nell’angoscia. Potremmo dire che è un salmo nel tempo della pandemia? Nel tempo della fragilità, della sprovvedutezza, dell’inabilità? Un salmo di non facile comprensione e che lo stesso Sant’Agostino nelle sue Enarrationes in Psalmos dirà che alcuni versetti neppure lui riesce a commentarli bene al suo gregge. Mi azzardo non dico a commentare ma semplicemente a sottolineare qualche versetto diventato per me, nella bocca e nel cuore, allo stesso tempo pietra preziosa e dardo tagliente. Riporto il testo intero del salmo, in grassetto i versetti che voglio sottolineare ed in caratteri blu nel mio commento.

Salmo 87. Signore, Dio della mia salvezza, di giorno ho gridato e di notte davanti a te. Entri la mia preghiera al tuo cospetto, piega il tuo orecchio alla mia supplica. Perché è stata colmata di mali l’anima mia, e la mia vita si è avvicinata all’ade. È un salmo che mostra una grande libertà, una grande fiducia da parte di chi lo prega: “Signore, Dio della mia salvezza…”. Tutti noi cristiani ci sappiamo salvati, amati e redenti dal Signore. Il nostro non è un Dio lontano, ma è il Dio che si è fatto uno di noi. È Colui che cammina con noi ogni giorno, accanto a noi, è Colui che ci fa uomini nuovi in sé stesso, in Cristo Signore. Questo nostro sentirci amati e salvati dal Signore, ci dà una totale parresia, una totale libertà e fiducia nella nostra preghiera: “…di giorno ho gridato e di notte davanti a te. Entri la mia preghiera al tuo cospetto, piega il tuo orecchio alla mia supplica”. Colpiscono i verbi forti adoperati dal salmista –“entri…”, “piega il tuo orecchio”…, “ho gridato…”-, quasi volessimo piegare l’udito e il cuore di Dio alla nostra supplica. Non si tratta di un semplice “ascolta” ma un “piégati, vieni fino a me, fino al mio abisso e fino alla mia povertà”. La mia preghiera, la mia supplica, di giorno e di notte, ogni giorno ed ogni notte, è insistente, è martellante. Come se osassimo dire, quasi sfiorando l’irriverenza: “Insomma, io ci sto, io ti prego, giorno e notte, sempre…, e Tu, Signore ché fai?”. Una delle cose per cui il Salterio è stato sempre preghiera dei monaci è sicuramente questa dimensione di “libertà, di parresia, di fiducia” del monaco, del salmista verso il suo Signore. Perché “è stata colmata di mali l’anima mia, e la mia vita si è avvicinata all’ade”. La mia anima e la mia vita colmate di mali, ed anche l’anima e la vita della nostra umanità, colmata di mali, sprofondata nell’ade della pandemia, della malattia, della sofferenza, delle privazioni, delle chiusure, dei limiti, dell’incertezza, della morte… Per mesi e mesi sono state cose che ci hanno sprofondato nell’ade, in un silenzio quasi impotente. Un ade, uno sprofondamento a cui Lui stesso, il Signore, potrà un giorno scendervi di nuovo, quasi un nuovo Sabato Grande e Santo, per tirarcene fuori “fra i morti libero”.

Sono stato annoverato tra quelli che scendono nella fossa, sono divenuto come un uomo senza aiuto, fra i morti libero; come gli uccisi che dormono nella tomba, di cui non ti sei più ricordato, e che dalla tua mano sono stati respinti. Mi hanno posto in una fossa profondissima, in luoghi tenebrosi e nell’ombra di morte. Su di me si è addensato il tuo sdegno, su di me tutte le tue tempeste hai rovesciato. Hai allontanato da me i miei conoscenti, mi hanno reso un abominio per loro; sono stato consegnato e non ne uscivo. I miei occhi si sono estenuati per la povertà. Ho grida­to a te, Signore, tutto il giorno; a te ho teso le mie mani. La stanchezza -i Padri direbbero l’accidia-, nel nostro quotidiano cammino di preghiera viene messa in primo piano: “I miei occhi si sono estenuati… Ho grida­to…, a te ho teso le mani…”. Quasi a dire al Signore: “Ché altro ancora devo fare? Cos’altro vuoi ancora?”. Scrivo queste parole nella parresia della fede ed anche facendomi voce di tanti fedeli cristiani che vivono questi momenti nello scoraggiamento, nella debolezza, nella fragilità, “…estenuati per la povertà”. Farai forse meraviglie per i morti? Oppure i morti risusciteranno e ti confesseranno? Forse qualcuno racconterà nella tomba la tua mi­se­ricordia, e la tua verità nella perdizione? Saranno forse conosciute nelle tenebre le tue mera­viglie, e la tua giustizia in una terra dimenticata? Eppure, io a te, Signore, ho gridato, e al mattino ti pre­verrà la mia preghiera. Perché, Signore, respingi la mia anima, distogli da me il tuo volto? Povero sono io e nelle fatiche fin dalla giovinezza; sono stato innalzato e poi umiliato, e sono rimasto smarrito. Come cristiani, come uomini di buona volontà siamo perseveranti nella preghiera, fatta da questo miscuglio di parresia e di angoscia, di fiducia e di fatica, di paura e di speranza, una speranza che ci fa insistenti, quasi testardi nella nostra preghiera: “Eppure, io a te, Signore, ho gridato, e al mattino ti pre­verrà la mia preghiera”, e questo “eppure… -κγ πρς σ, Κριε-” diventa quasi disarmante, come dire al Signore che ogni mattina non soltanto preghiamo ma siamo costanti, quasi testardi potremmo dire, nel nostro far pervenire a Lui la nostra supplica. Accennavo alla parresia, alla fiducia, alla libertà, che ci porta a dire non nella disperazione ma sì nella povertà e nella spogliazione che viviamo: “Perché, Signore, respingi la mia anima, distogli da me il tuo volto?”, quasi Lui si nascondesse da noi, ci mettesse da parte, specialmente in questi nostri giorni.

Su di me sono passate le tue ire, i tuoi terrori mi hanno sconvolto. Mi hanno circondato come acqua, tutto il giorno insieme mi hanno accerchiato. Hai allontanato da me amico e vicino, i miei cono­scenti dalla mia sventura. Come se il Signore ci lasciasse da soli, senza amici, senza vicini… Quasi Lui ci mettesse in quarantena. Lui permette che facciamo l’esperienza della solitudine, dell’abbandono. Sapendo, nella fede, che tante volte è fragile come un vaso di creta, che Lui cammina accanto a noi pronto a sorreggerci, ma lasciandoci camminare liberi, e ripetendo ogni mattina testardamente nella preghiera dei salmi: Signore, Dio della mia salvezza, di giorno ho gridato e di notte davanti a te.Ricordo il dialogo tra Cristo e Sant’Antonio il Grande, quando dopo le prove e tentazioni terribili che costui soffrì, disse al Signore, quasi rimproverandolo: “Dov’eri, Signore, mentre lottavo ed ero tentato?”. Ed il Signore gli rispose: “Ero accanto a te, per sorreggerti se cadevi”.

Signore, Dio della mia salvezza, di giorno ho gridato e di notte davanti a te. Entri la mia preghiera al tuo cospetto, piega il tuo orec­chio alla mia supplica. I salmi delle ore nella tradizione bizantina, alla fine di ognuno di essi, ripetono, quasi martellante volesse diventare la nostra preghiera, dei versetti che diventano però quelle pietre preziose che illuminano il nostro cammino, quei dardi che vogliamo feriscano il cuore del Signore, il nostro Dio, Colui che abbassa il suo orecchio alle nostre preghiere, che sorregge i nostri passi, che scende nel nostro ade quotidiano per tirarcene fuori e farci risorgere con Lui.

Il salmo 87 ha dato sfogo alla mia voglia di scrivere che sento in questi giorni. Sento il bisogno di scrivere, benché non sappia proprio né cosa né come. Come se sentissi la voglia di partorire qualcosa, mi si permetta la metafora, ma qualcosa che non è ancora pronta. Scrivo semplicemente le idee che mi vengono in mente, senza una argomentazione ordinata. Vedendo le notizie di questi giorni, ritrovo le parole: «Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi». Sono parole di Benedetto XVI nell’ultima udienza generale, quella del congedo, il 27 febbraio 2013. Parole che diventano anche preghiera e consolazione in momenti bui come i nostri. 


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