Incontro
dei vescovi orientali cattolici di Europa
Oradea
settembre 2024
“Rapporti
vescovo-sacerdoti. Il sacerdozio cristiano nella sua umanità”.
Introduzione.
Eccellenze,
cari padri, fratelli in Cristo. Il mio intervento che ha come titolo: “Rapporti
vescovo-sacerdoti. Il sacerdozio cristiano nella sua umanità”, vuole
soffermarsi soprattutto nel sottotitolo: Il sacerdozio cristiano nella sua umanità….
E i suggerimenti del mio intervento saranno fatti pensando soprattutto al
vescovo, benché li ritenga anche validi per i sacerdoti ed anche i diaconi.
E inizio il
mio intervento con una premessa. Cioè, dirvi che parlo da una parte come
<<<<monaco, con la libertà, la parresia che i monaci abbiamo avuto
sempre in tutta la storia della Chiesa da quasi duemila anni. Parlo con la
libertà che mi dà l’essere monaco, ed allo stesso tempo anche con la libertà
che mi dà l’essere vescovo in un incontro fraterno tra vescovi orientali
cattolici di Europa. Forse anche con la libertà di essere uno tra i più antichi
(non dico vecchi!) testimoni di questi nostri incontri, iniziati nel lontano
1997 a Nyíregyháza (a cui partecipai già) e continuati quasi ininterrottamente per
parecchi anni fino ad oggi. Monaco-vescovo può sembrare una contradizione, chi
lo sa…! La tradizione monastica ha ripetuto quella massima / proverbio che dice:
“…i monaci debbono fuggire sia le donne, che possono loro indurre in
tentazione, fargli cadere in peccato ed allontanarli dalla loro vita in
solitudine; sia fuggire anche i vescovi che, ordinando loro preti, possono
a loro volta anche allontanarli dalla loro solitudine”. Potete
chiedermi: “E cosa accade quando un monaco viene ordinato non soltanto prete
ma addirittura vescovo?” “Allora, cari miei…, vi posso assicurare che la
solitudine quella più vera e pungente, te la porti addosso con te, te la
ritrovi ogni giorno con te”.
Perché
ho fatto questa premessa? Perché l’anno scorso, concludendo il nostro incontro -posso
dire memorabile- a Nea Makri, ad Atene, quando si è trattato di scegliere prima
il luogo dell’incontro di quest’anno (e la scelta fu facile e ne siamo grati al
vescovo Virgilio e alla sua eparchia che ci accoglie!), e poi anche la scelta
del tema da trattare, quando è venuto fuori il tema piuttosto largo sui “Rapporti
vescovo-sacerdoti”, mi sono permesso di aggiungere al mio intervento il
sottotitolo “L’umanità del sacerdote”… oppure “Il sacerdozio
cristiano nella sua umanità”. Perché? Cosa intendo con questa “umanità del
sacerdote / del vescovo”? Con questo vivere e vedere “Il sacerdozio
cristiano nella sua umanità”? Cercherò di dare delle riflessioni a questa mia
domanda, e magari alla fine possiamo / potete arrivare a trovare una risposta /
delle risposte, qualche intuizione, qualche aiuto a partire da questo mio
intervento.
Propongo
quattro punti: due di riflessione e due lectio patristiche di due testi
di tradizione siriaca.
1. …pensum servitutis nostrae… …il peso, la carica,
della nostra servitù, del nostro servizio…
San
Benedetto nel capitolo 49 della sua Regola e in altri capitoli, parla del
“lavoro”, “dell’opera”, “dell’impegno” del monaco, come un …pensum
servitutis nostrae…. Come un peso, carica, lavoro, sforzo, un da fare… nel
nostro servire. Il nostro servizio come monaci, e lo allargo al nostro servizio
-la nostra diaconia- come preti, come vescovi, è un pensum, un peso, una
carica, quasi uno sforzo ascetico fatto però sempre come servizio che ci è
stato chiesto, dato, da un Altro. Il nostro è un servizio, una diaconia.
Quando il
2 febbraio 2016 fu pubblicata la mia nomina a vescovo ed Esarca apostolico in
Grecia, il compianto confratello Franghiskos Papamanolis (1936-2023), allora vescovo
emerito dell’isola di Syros nelle Cicladi in Grecia, ministero durato per ben
quarant’anni, ed in quel 2016 lui era tuttora Presidente della Conferenza
Episcopale Greca, mi chiamò per farmi gli auguri, assicurandomi la sua fraterna
vicinanza e la sua preghiera. E da subito mi consigliò di leggere nella
versione latina della Vulgata il testo paolino di 1 Tim 3,1: “…si quis
episcopatum desiderat, bonum opus desiderat…” (…se qualcuno
desidera l’episcopato, desidera un’opera…, una cosa buona…), e mi suggerì, allo stesso tempo “di
spostare la virgola”. E, tra sornione e serio l’anziano vescovo greco mi spiegò
cosa intendeva con questo gioco o movimento di parole o di virgole. Mi disse
che, se la virgola si sposta dal verbo “desiderat” all’aggettivo “bonum”,
la frase diventa: “…si quis episcopatum desiderat bonum, opus
desiderat…”, che si può tradurre come: “… se qualcuno desidera un
episcopato buono, desidera “un impegno, un lavoro, un’opera… (opus)”. Cioè,
“fare bene il vescovo” è un peso, un lavoro, un impegno non da poco. E il caro
vescovo Francesco concludeva la sua chiamata telefonica di augurio dicendomi: “…quindi,
desiderare un buon episcopato, desiderare di essere un bravo vescovo è un peso,
ti sarà una croce e dovrai darti da fare…”. Il nostro servizio, la nostra
diaconia è anche una croce.
Quindi fare il vescovo, essere un buon vescovo, o
almeno provarci, è un opus, un lavoro, una ascesi, un pensum, una
croce. e cosa intendo con questo? E torno al sottotitolo del mio intervento. “Il
sacerdozio cristiano nella sua umanità… L’umanità del sacerdozio cristiano”.
“L’umanità
del sacerdote / del vescovo… L’umanità su cui poggia il sacerdozio cristiano”.
Don Luigi Giussani, in un suo scritto degli anni 90’ del XX secolo (uno scritto
il cui contenuto è valido / validissimo tuttora oggi), affermava: “…nei
nostri giorni, la più grande difficoltà per noi cristiani non è annunciare,
predicare l’esistenza di Dio, bensì predicare, annunciare che il Verbo, il
Figlio di Dio si è incarnato”. Annunciare / predicare l’incarnazione. La
centralità dell’incarnazione, la realtà, la veracità dell’incarnazione del
Verbo di Dio è la colonna portante della nostra fede. Le grandi crisi trinitarie
e cristologiche dal IV secolo in poi, girano attorno a questo perno
fondamentale, e le affermazioni e le soluzioni (sempre conciliari!) delle
Chiese cristiane furono fatte attorno a questo aspetto / a questo asso
centrale, fondamentale della nostra fede. E questo fino all’Iconoclasmo, l’ultima
grande crisi cristologica (se veramente sia stata l’ultima!), crisi che si
muove attorno a questo tema: noi cristiani di Oriente e di Occidente veneriamo
le icone perché il Verbo di Dio veramente si è incarnato. Poi anche tutta la
teologia dei sacramenti e delle “mediazioni umane” che formano il pensiero
teologico, ecclesiologico ed antropologico delle Chiese cristiane, si
fondamenta nell’incarnazione. E per questa ragione il diacono, il sacerdote, il
vescovo siamo stati ordinati, toccando l’altare simbolo cristologico
fortissimo, è stato invocato su di noi lo Spirito Santo per farci, per
costituirci alter Christus. L’ordinazione episcopale ci fa veri vicari
di Cristo. Per ché? Perché il Verbo di Dio si è incarnato, si è fatto uno
di noi, e continua ad operare, a far presente la sua incarnazione
salvifica per mezzo di noi. Deboli, fragili, peccatori…, ma sempre vicari suoi.
Quindi,
tornando al nostro argomento, potete chiedermi: per ché il sottotitolo “Il
sacerdozio cristiano nella sua umanità?” Perché la nostra vita come
cristiani in genere, come battezzati, e specialmente come sacerdoti e come
vescovi, poggia su questa nostra umanità, che è anche, non lo dimentichiamo
mai, quella che è stata pienamente assunta, salvata, e redenta da Cristo
Signore. Quindi anche consapevoli che tutto quello che abbiamo vissuto, viviamo
e vivremo come vescovi, di grazia e di peccato, di amore e di mancanza di amore
(non dico di odio), di gioia e di sofferenza, di gaudio e di tristezza, Lui, il
Signore l’ha pienamente assunto e salvato, redento, ricreato come amavano
definirlo i Padri della Chiesa. Quindi un primo aspetto: questa nostra umanità
è stata assunta e redenta -ed è tuttora amata e redenta- dal Signore. Ed è
questa umanità, quell’umus, quella realtà, quella terra dove mette
radici il nostro essere, il nostro vivere, il nostro operare come vescovi. Siamo
uomini, siamo deboli, siamo peccatori… Siamo umanità redenta, salvata ed amata
dal Signore. Umanità di cui il Signore continua a servirsi.
2. L’umanità del sacerdote, nella
sua forza.
La
Chiesa come luogo della compassione e della misericordia di Dio sull’umanità,
certamente! Ma la Chiesa deve essere anche e soprattutto il luogo della
compassione e della misericordia di Dio sui propri figli e specialmente su
coloro che in essa, nella Chiesa, portiamo la croce, di Cristo e la nostra. E
quale è allora la forza di questa nostra umanità? Il nostro essere vicini,
accanto ai fedeli, certamente, ma soprattutto accanto ai sacerdoti, a coloro
che con noi portano anche il peso del nostro servizio.
Accanto
ai sacerdoti nell’ascoltarli, nell’essere loro vicini nella gioia e nelle
sofferenze. Sapendoci accorgere anche delle loro fragilità, delle loro
sofferenze, dei loro problemi, della loro solitudine. È bella la immagine del
vescovo che concelebra i Santi Misteri con il suo clero, ma è bella anche
l’immagine del vescovo che concelebra con il proprio clero quando costui ha dei
problemi, o quando costui ha delle gioie. La nostra umanità ci fa vicini sia
nelle sofferenze sia nelle gioie.
Delle volte ci
troviamo con una visione che può portarci a sottolineare che i vescovi dobbiamo
essere vicini al popolo di Dio, implicati magari in tutte le questioni delle
singole parrocchie. Questo non è possibile. Il primo compito del vescovo è essere pastore per
i propri sacerdoti, ascoltarli, aiutarli, comprenderli e sostenerli. Non è un
compito semplice ma è ciò a cui siamo tutti chiamati. Inoltre, l'impegno e
l'attenzione per le vocazioni sacerdotali è un altro compito importantissimo
per il vescovo, soprattutto in questo momento storico.
A
volte ci ritroviamo con dei pastori molto dediti ai gesti eclatanti ma sono riluttanti nei confronti del loro clero. Se si
presenta loro un sacerdote in difficoltà sono pronti a chiamare il Vicario: "Vai, vai dal vicario". Questo accade perché
il popolo di Dio, spesso, è molto
semplice e non porta problemi magari complessi come quelli che si ritrovano ad
affrontare i parroci, i preti. Accontentare la vecchietta in parrocchia è
molto più
semplice, basta un sorriso ed una pacca sulla spalla; comprendere
e aiutare il prete a volte per un vescovo diventa una vera e propria croce.
Questo dipende da come vive il proprio ministero e quanto si fa influenzare
dalle lotte e dalle divisioni nelle quali molto spesso vengono incasellati sia
i vescovi che i preti. Quando questo clima inizia a respirarsi i risultati si
vedono nell'assenza di vocazioni, nel clero diviso e scontento e nell'assenza
di attività comuni e di fraternità
che siano realmente sentimento del presbiterio e non imposizioni dall'alto che
giungono quasi come torture.
L’umanità
del sacerdozio cristiano nella sua forza si manifesta nella vicinanza -che non
è una pacca sulla spalla-, ma un camminare accanto, sì, ma soprattutto davanti
al gregge. Vorrà dire essere testimone del Vangelo che ci chiede di cercare la
pecora smarrita, e di caricarcela sulle spalle, non di bastonarla! Ci chiede di
annunciare e vivere il perdono fino a settanta volte sette. Essere uomini il
cui cuore è stato evangelizzato, in cui il Vangelo di Cristo è la linfa, il
sangue che scorre nelle sue vene.
E
potete dirmi: quant’è vero e bello tutto questo. Ma in pratica delle volte è
tanto difficile. Certamente, ma non dimentichiamo mai che è anche la nostra
forza, il poter essere accanto al sacerdote o al confratello sofferente in
momenti difficili, di scoraggiamento, di dura solitudine, di peccato anche, la
nostra umanità ci spinge al perdono, alla ricerca della pecora smarrita, che
smarrita lo è certamente, ma che la divino umanità del nostro ministero ci fa
vicari di Colui che fu il primo a perdonare e ad amare senza preclusioni, senza
limiti.
Vero,
ed arriviamo al punto seguente.
3. L’umanità del sacerdote, nella
sua fragilità.
Perché
questa nostra umanità è anche fragile? Direi soprattutto in due aspetti (ce ne
sono anche altri, tanti forse…): la solitudine ed il peccato.
La
solitudine. Ricordo qua la frase di san Paolo VI: “Il Papa è un uomo fragile, solo,
terribilmente solo…”. Lui si riferiva al suo ministero petrino
certamente, ma mi permetto di allargarla al nostro ministero come vescovi, come
pastori di una Chiesa, come capi e padri di un gregge. La solitudine in cui
tante volte ognuno di noi viene lasciato oppure vi ci chiudiamo, di fronte ai
problemi, alle decisioni. “Veda Lei, decida Lei, Lei è il vescovo…”. I
consigli diocesani, le assemblee…, servono certamente, ma delle volte servono per
sentirsi più soli nella decisione da prendere. Alla fine della sessione del
Sinodo dei Vescovi di 2023 mi domandavo quale sarebbe il nostro ruolo alla fine
dell’assemblea, magari quest’anno 2024, fra un mese? Cioè, l’eventuale successo
di questa assemblea ecclesiale sarà ad essa stessa attribuito; un eventuale
insuccesso o le cose “auspicate mediaticamente” che non verranno a gala o a
conclusione e quindi non applicate in definitiva, verranno a noi vescovi addebitate.
Durante le sedute sinodali, di fronte all’abbondanza e anche alla ricchezza di
tante presenze ed interventi, anche non episcopali nell’assemblea, mi veniva
alla mente quasi un ritornello: “sì, ma… il 1° novembre, chi ritornerà in
diocesi e chi riprenderà la croce dell’episcopato, saremo noi e soltanto noi”.
Il sacerdozio cristiano nella sua umanità tante volte fragile. Che porta a
situazioni spesso di depressione -con tutte le conseguenze e collegamenti vane
dipendenze che questa può generare nella vita del vescovo o del sacerdote con
qualche anno di ministero. Oppure le conseguenze immediate di paura, di rifiuto
di accettare, di caricare questa croce. Tutti conosciamo confratelli vescovi
nei primi mesi o anni di ministero caduti in situazioni di depressione, oppure di
rifiuto del ministero a poche settimane dell’ordinazione episcopale. Per far
fronte a questa solitudine, a questa vita del vescovo come fragilità? Non ho
soluzioni, ma sì dei suggerimenti: La preghiera. Specialmente la preghiera dei
e con i Salmi / La lectio divina / Amicizia / Interessi intellettuali ed
artistici.
Il peccato. Peccato
di omissione. Direi che questo secondo punto è una conseguenza del primo. Il
peccato di omissione è quel peccato che commettiamo quando di fronte a delle
situazioni non facili, complesse e soprattutto che toccano il cuore umano delle
nostre pecore -specialmente se queste sono preti- ci risparmiamo di
intervenire.
Per
paura? Ci sono sicuramente dei preti, delle figure in diocesi che forse
incutono timore. Paura di affrontare persone e situazioni che forse potrebbero
mettere in questione la nostra stessa situazione, la nostra stessa vita o modo
di vivere. La paura dello scontro, di quella stessa persona che incute o ci
incute timore, sicuramente più a livello psicologico ed emotivo che non reale.
Per
rispetto umano? Per rispettare la libertà e la coscienza dell’altro. Anche a
nome di un comodo “non invadere” lo spazio dell’altro.
Per
pigrizia? Sì, per pigrizia. Chi te lo fa fare? Oppure quel: “Vai dal vicario…”.
Questa è pigrizia malsana che ci porta a commettere il peccato di omissione. Pigrizia,
mancanza di pazienza e di sopportazione. C’è sempre il prete che sa soltanto
lamentarsi: dal “tutto va male…” al “io sono la vittima, non sono considerato
come si dovrebbe, non mi…”. Papa Francesco parlava del vizio del “chiacchiericcio”,
e vi propongo di introdurre forse come neologismo ma niente di nuovo il
“lamenticcio”.
Quindi il
peccato di omissione che ci fa in fondo complici di una situazione che non va o
non andrebbe omessa mai.
Quest’umanità
del nostro sacerdozio, che è l’umanità del Signore Gesù Cristo, che è l’umanità
di ognuno di noi, forte e debole, sicura nella/per la grazia e allo stesso
tempo fragile nel/per il peccato, che ci fa e porta a vivere il nostro servizio
come una donazione totale e allo stesso tempo come una croce, è l’umanità
rispecchiata nei testi e autori cristiani dal III al XXI secolo.
4. Ex cursus. Dadisho Qatraya.
“…e vedrà
che è un’opera bella…”.
Fare il
vescovo nel VII e nel XXI secolo.
La
chiamata del vescovo Francesco di cui sopra, mi è ritornata alla memoria con la
lettura del “Commento al Paradiso dei Padri” di Dadisho Qatraya, monaco
siro orientale vissuto nella seconda metà del VII secolo nel Beth Qatraya,
regione costiera ad ovest del Golfo Persico, zona molto importante per la
fioritura di monasteri, di figure e testi monastici di tradizione siriaca. Si
tratta della risposta che Dadisho dà ai suoi discepoli monaci su diverse
questioni sia ecclesiali, sia spirituali. Il testo riporta domande e risposte tra
i discepoli e Dadisho che porta al tema del sacerdozio e più concretamente
dell’episcopato, e alle sue difficoltà, al peso che suppone il ministero di “vegliare
sul gregge”, e quindi alla tentazione, reale e non letteraria, di fuggire
sia prima sia dopo l’accettazione di questo giogo, di questo peso, di questo opus,
di questa croce. Si tratta di un testo che ha un’attualità direi unica e
per questo mi permetto di trascriverne la traduzione e condividerlo.
Domanda
dei fratelli. Il beato (apostolo) Paolo afferma: “Colui che
desidera l’episcopato, desidera una opera buona” (1Tim 3,1), e il beato
Interprete (Teodoro di Mopsuestia), nel suo “Libro sul sacerdozio”, dà un
avvertimento al suo amico Ciriaco per convincerlo di rimanere nell’ordine
episcopale che aveva ricevuto. Come mai allora il santo uomo Paolo, vescovo
della città di Qentos in Italia e che fu collaboratore di Giovanni di Edessa,
dopo quindici giorni sul trono episcopale si accorse della moltitudine di
distrazioni e chiese a Dio di poter dimettersi dal suo ufficio, e Dio glielo
permise per mezzo di una rivelazione?
Risposta
di Dadisho. 1 Non c’è niente di più amato e prezioso
davanti a Dio della giustizia dei giusti. Essa è la causa di tutte le cose
buone che accadono sulla terra. Cioè, voglio dire il sacerdozio e tutti gli
altri doni che in cielo vengono dispensati dal grande Sacerdote della nostra
confessione di fede, nostro Signore Gesù Cristo. Infatti, san Paolo si
accorgeva che molti, mancati di saggezza e di una buona condotta, desideravano
di essere messi a capo (desideravano la preeminenza, il presiedere), a causa
della loro vanagloria, mentre che molti altri che avevano acquistato la
conoscenza con una condotta nobile, fuggivano l’essere messi a capo (la
preeminenza, il presiedere) a causa della loro umiltà. Siccome questi fatti
mettono inciampi all’insegnamento e alla pratica della fede cristiana, afferma:
“Colui che desidera l’episcopato, desidera una opera buona”, e con questo vuole
dire: “Io non metto impedimenti né spingo a ciò (all’episcopato). Infatti, se
io spingessi, tanti andrebbero di corsa verso il sacerdozio, anche gli stupidi
e i malvagi; ma, se io mettessi impedimenti, nessun saggio neppure virtuoso si
avvicinerebbe (all’episcopato)”.
2 E allora?
Colui che vuole essere vescovo, o sacerdote, o superiore o guida (di una
comunità), non deve guardare all’onore che viene dal sacerdozio e non deve
desiderarlo per ragioni di onore o di potere. Deve guardare invece all’opera
(lavoro, sforzo, opus…) del sacerdozio, cioè i duri e molteplici sforzi
(lavori) che sono ad esso collegati. Ha la saggezza naturale e si istruisce nei
libri Santi? È saldo nella fede e si impegna a mantenere la disciplina della
sua vita? In più acquista anche delle virtù che vanno oltre a quelle comuni,
cioè la bontà, la dolcezza, la serenità, l’umiltà, la misericordia, il perdono,
il discernimento e la comprensione? È stato scelto dalla grazia divina per i
lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio e che servono la volontà dello
spirito del sacerdozio, e non a causa delle passioni e per l’intervento di
adulatori? Che quest’uomo ne sia convinto, e vedrà che è un’opera bella.
3 Il beato
Interprete (Teodoro di Mopsuestia) diede un consiglio al suo amico Ciriaco per
convincerlo a rimanere fedele all’ordine sacerdotale e (diede) cinque ragioni.
Primo, perché l’aveva ricevuto da molto tempo. Secondo, perché era stato scelto
da tanti uomini timorosi di Dio. Terzo, a causa della sua saggezza e
conoscenza. Quarto, a causa della sua vita nella virtù. Quinto, a causa della
sua grande umiltà. Infatti, questa lo costringeva a rifiutare l’ordine non
soltanto all’inizio della sua elezione, ma anche dopo che era stato costretto
(ad accettare) per la forza, continuava a rifiutare con ardore.
4. Il beato
Paolo fu un uomo giusto e virtuoso, era umile e disprezzava sé stesso. Amava il
silenzio e la solitudine. Per questa ragione, né le distrazioni che venivano
dell’essere messo a capo, né i molteplici impegni, non gli giovavano. Quindi,
quando tantissime persone lo costrinsero (ad accettare) il sacerdozio, dopo
quindici giorni con lacrime e tanta sofferenza chiese al Signore di accettare
le sue dimissioni, per poterlo servire in un modo di cui fosse capace e gli
fosse di profitto, cioè un lavoro come manovale all’estero, nel disprezzo e
l’umiliazione. Nella sua bontà, il Signore, vedendo la sua umiltà, accettò e lo
fece per due ragioni: in primo luogo perché per lo stesso Paolo sarebbe stato di
profitto; in secondo luogo, per evitare che tanti stolti desiderassero accedere
al primo posto e quindi (evitare) le lotte che ne verrebbero fuori.
Annotazioni
al testo.
1.
Nel VII e nel XXI secolo, accettare l’episcopato, essere vescovo è una
croce che il Signore dà ad alcuni, dandoci anche, ne siamo certi, per Sua
misericordia e per Sua Grazia, la forza per portarla. Quel “episcopatum
bonum” sorto dallo spostamento della virgola nel testo paolino proposto dal
vescovo Papamanolis, sarà sempre Lui, il Signore, che è il primo ed unico grande
επίσκοπος della sua Chiesa, che ci darà di portarlo a
termine malgrado le nostre debolezze, le nostre imperfezioni, i nostri peccati,
sempre guarite e redente dalla Sua Divina Grazia. Come non ricordare qua il
testo di una delle più arcaiche preghiere di ordinazione in Oriente -preghiera
con cui siamo stati ordinati anche noi: “La Divina Grazia che sempre
guarisce ciò che è infermo e completa ciò che manca…”.
2.
Tra i Padri della Chiesa,
greci, latini, siriaci…, abbiamo esempi di figure che cercano di sfuggire o
addirittura fuggono l’ordinazione sia presbiterale sia episcopale. Addirittura,
abbiamo qualche esempio di “fuga, rifiuto, rinuncia…” avvenuta anche dopo
l’ordinazione. Il grande Isacco di Ninive (autore siriaco del VII secolo),
consacrato vescovo di Ninive, dopo cinque mesi di episcopato “per una
ragione che soltanto Dio conosce” -come afferma un suo biografo-, si ritirò
in un monastero dove si applicò allo studio della Sacra Scrittura e alla vita
solitaria. Quindi le risposte del nostro autore siriaco del VII hanno una
grande validità ed attualità, e se volete potete aggiungere quel “nihil
novum sub sole” per quanto ci tocca di vivere anche nei nostri giorni,
nella vita della Chiesa, quando leggiamo di confratelli che poco prima o poco
dopo l’ordinazione hanno rassegnato le loro dimissioni.
3.
La domanda fatta dai
discepoli a Dadisho nel nostro testo, parte dal confronto tra due affermazioni
autorevoli: da una parte san Paolo e Teodoro di Mopsuestia, che confermano
l’importanza e la bellezza del ministero episcopale ed incoraggiano ad accettare
e a perseverare chi vi si trova o chi vi sia chiamato, e dall’altra parte il
caso del vescovo Paolo a cui Dio concede di dimettersi dal ministero episcopale
dopo quindici giorni dal suo inizio.
4.
La risposta di Dadisho la
vediamo divisa in quattro punti. In primo luogo, il sacerdozio,
l’episcopato è un dono che viene dato da Cristo stesso, e che paradossalmente
può essere cercato o desiderato per vanagloria, oppure rifiutato per umiltà. E
l’autore aggiunge in modo molto perspicace il suo commento al testo paolino di
1Tim 3. Per Dadisho l’episcopato è “…una opera buona”, e con questa
affermazione né spinge alla sua ricerca, né mette impedimenti ad esso: “Io
non metto impedimenti né spingo a ciò… Infatti, se io spingessi, tanti
andrebbero di corsa verso il sacerdozio, anche gli stupidi e i malvagi; ma, se
io mettessi impedimenti, nessun saggio neppure virtuoso si avvicinerebbe”. In
secondo luogo, Dadisho descrive le virtù necessarie al vescovo e che gli
permettono di portare a termine questa opera, questo peso: deve essere
sapiente, istruito nei Libri Santi, saldo nella fede, ed avere quelle virtù che
“vanno oltre a quelle più communi”: bontà, dolcezza, serenità, umiltà,
misericordia, perdono, discernimento, comprensione. Notate che queste sono
delle virtù umane e cristiane e che spesso paradossalmente sono quelle a noi
vescovi più contestate. Da chi? Da un clero delle volte intransigente? Forse,
ma soprattutto da un mondo in cui “bontà, dolcezza, serenità, umiltà,
misericordia, perdono, discernimento, comprensione” non sono più non dico
già di moda, ma non sono neppure accettate e tollerate. Ed infine sottolinea
che la scelta viene da parte del Signore –“…dalla grazia Divina…”-, e
attraverso le mediazioni umane: “…È stato scelto dalla grazia divina per i
lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio…. Che quest’uomo ne sia
convinto e vedrà che è un’opera bella” (la parola siriaca potrebbe essere
tradotta anche come “splendente”). In terzo luogo, Dadisho riporta i
consigli dati da un uomo saggio ad un vescovo che era tentato di lasciare, di
dimettersi dal suo ministero, spingendolo alla perseveranza: “Primo, perché
l’aveva ricevuto da molto tempo. Secondo, perché era stato scelto da tanti
uomini timorosi di Dio. Terzo, a causa della sua saggezza e conoscenza. Quarto,
a causa della sua vita nella virtù. Quinto, a causa della sua grande umiltà”.
Tra queste cinque ragioni, mi piace sottolineare la seconda, cioè il ruolo
della Chiesa (e qua si può pensare al ruolo del sinodo) nella scelta del
vescovo: “…perché era stato scelto da tanti uomini timorosi di Dio” In
quarto luogo, Dadisho torna a parlare del vescovo Paolo, a chi il Signore
accetta le dimissioni dal ministero episcopale, affinché siano un esempio per
tanti, cioè da una parte la vita santa nella virtù dello stesso Paolo, e
dall’altra l’esempio che ne viene fuori per tanti: “Quindi, quando
tantissime persone lo costrinsero (ad accettare) il sacerdozio, dopo quindici
giorni con lacrime e tanta sofferenza chiese al Signore di accettare le sue
dimissioni… Nella sua bontà, il Signore, vedendo la sua umiltà, accettò e lo
fece per due ragioni: in primo luogo perché lo stesso Paolo ne avrebbe tratto
profitto; in secondo luogo, per evitare che tanti stolti desiderassero accedere
al primo posto e quindi (evitare) le lotte che ne verrebbero fuori”.
5.
Nel VII secolo, come nel
XXI secolo, di fronte al peso, alla responsabilità, all’opus che è
l’episcopato -un opus che ci confronta tante volte con la propria
solitudine nel ministero che ci viene affidato-, ed anche di fronte alla
propria fragilità, alla propria umanità direi, la tentazione del rifiuto, del
dire di no prima o dopo l’ordinazione episcopale, è molto reale e fino ai
nostri giorni è una notizia che continua a sorprenderci, a colpirci, e a
chiedercene il perché. Non ho la pretesa di avere delle soluzioni o dei rimedi,
semplicemente rimando a qualcosa che dovrebbe farci riflettere, cioè, avere
sempre presente l’umanità del sacerdote -vescovo, prete o diacono che sia-,
quell’umanità assunta e redenta dal Signore nella sua incarnazione e che
rimarrà povera, fragile, sola fino alla sua e nostra croce.
6.
L’episcopato come una
croce, un giogo, un peso, è quell’opus paolino. Durante le sedute del
Sinodo dei vescovi del 2023, ascoltando gli interventi di tanti e tanti membri
di quell’assemblea ecclesiale, uomini e donne da tante parti e Chiese del
mondo, percepivo in me un sentimento contrastante e riconosco non privo di
tensione, di perplessità: da una parte la ricchezza che poteva supporre
l’ascoltare la loro esperienza, i loro suggerimenti; dall’altra parte sentire
molto viva la consapevolezza, la certezza che alla fine delle sedute, saremo
noi ed unicamente noi i vescovi, i veri padri sinodali, che tornando nelle
nostre diocesi, tornando in prima fila, riprenderemo la croce, il giogo, l’opus
che è il “vegliare sul gregge”.
5. Ex cursus. Sant’Efrem. Inni di Nisibi.
…per
raccogliere da sotto i tavoli le briciole piene di vita.
Un ultimo testo che vorrei condividervi
è preso dagli inni di sant’Efrem di Nisibi (+373). Tra le raccolte del santo
diacono siriaco, voglio soffermarmi in queste pagine molto brevemente nei suoi Carmina
Nisibena, cioè gli Inni di Nisibi, e in questa raccolta che è una
tra le più abbondanti di Efrem, fare una lettura rapida con qualche annotazione
di alcune strofe degli inni dal XIII al XVI, soffermandomi specialmente
nell’inno XV.
Negli inni XIII e XIV
Efrem presenta la figura dei tre vescovi di Nisibi a cui lui ha servito come
diacono: Giacomo, Babu e Vologeso. In diverse delle strofe di questi due inni,
Efrem li enumera di seguito facendogli susseguire nell’ordine da primo a terzo,
ed indica le virtù e i fatti portati a termine da questi tre vescovi. Mi
soffermo nelle strofe 2 a 4 dell’inno XIV.
2.Il buon lavoro (ascesi, ܥܡܠܐ) del primo ha arato (lavorato, preparato)
la terra col suo sforzo (afflizione, ܐܘܠܨܢܐ). Il pane ed il vino di quello di mezzo
(il secondo nella lista) hanno riparato (sanato, guarito) la città
(fortificata) nella sua rovina. Nell’afflizione, il discorso dolce dell’ultimo
(il terzo) ha addolcito la nostra amarezza.
3.Il primo ha lavorato la
terra col suo sforzo e ne ha sradicato spine e rovi. Quello di mezzo l’ha
circondata con la sua chiusura (mura) e coi riscattati l’ha circondata.
L’ultimo ha aperto il granaio del suo Signore e ha seminato in essa le parole
del suo Signore.
4.Il primo sacerdote
(pontefice, ܟܗܢܐ) per mezzo del digiuno aveva chiuso le porte delle bocche. Il
secondo sacerdote, per mezzo dei riscattati ha aperto le bocche chiuse.
L’ultimo ha forato le orecchie per appenderci un ornamento vivente.
Commento. Notiamo in queste
strofe, e si ritrova anche in altre degli stessi inni, la presentazione di
seguito in ordine cronologico dei fatti avvenuti nel governo dei tre vescovi
accennati. Il primo, Giacomo, che ha arato, preparato la terra, la Chiesa col
suo lavoro, la sua ascesi (ambedue le parole sono sinonime in siriaco). Il
secondo, Babu, che ha dovuto agire da medico e guaritore per le ferite del suo
popolo. Infine, il terzo, Vologeso, che con la sua parola ed il suo modo di
agire ha alimentato e abbellito il suo popolo: “L’ultimo ha forato le
orecchie per appenderci un ornamento vivente”.
Negli inni XV e XVI Efrem si
trattiene nella terza figura dei vescovi di cui ha parlato: Vologeso, e si
serve per parlare di lui di due immagini, cioè il capo del corpo -si potrebbe
tradurre anche la “testa”- e lo specchio. Presenta Vologeso come un vescovo
celibe, buon predicatore e intellettualmente ben preparato, uomo di buon
carattere, equilibrato e piuttosto tollerante, fatto che conduce il diacono
poeta all’interessante ultima strofa, quella 22, che tramando alla fine.
In questa mia lettura, che è soltanto
un primo approccio a questi inni efremiani, mi soffermo soltanto nell’inno
XV. Efrem parla del vescovo come il “capo/testa (ܪܝܫܐ)” del corpo di cui tutti sono e debbono
sentirsi membra, cioè la Chiesa. Il vescovo, il capo del corpo (ed il termine
“membra (ܗܕܡܐ)”
verrà usato letteralmente o sottinteso molte volte da Efrem in questi testi),
deve dare a tutti il segno della rettitudine, deve essere per loro un esempio.
1.Se il capo non è dritto, le
membra si mettono a mormorare; a causa di un capo che è storto, ne soffre il
percorso delle membra, e costoro ne danno la causa al capo.
Efrem mette giustamente il vescovo come punto di
riferimento ed anche, come ripeterà diverse volte negli inni e capita anche
nella vita reale di ogni luogo e di ogni tempo, come una sorta di “punto di
scarica” delle gioie e dei lamenti e difetti delle membra di questo corpo,
della Chiesa.
2.E benché ora (nei nostri giorni)
lui sia a posto, noi scarichiamo su di lui (il capo) le nostre brutte
abitudini; e quanto di più se costui (il capo) fosse proprio riprovevole! Dio
stesso è sempre soave, ma gli amareggiati si lamentano con Lui.
Efrem fa un’analisi molto chiara della situazione
di qualsiasi comunità le cui membra sono sotto la guida di qualcuno che ne
debba essere ed agire come loro capo. Anche se il capo del corpo è o riga
dritto, le membra scaricano su di lui le loro amarezze, ed anche su Dio, che è
sempre benevolo, svuotano le loro lamentele.
Dopo aver messo in guardia le membra sul come
comportarsi verso colui che è il loro capo, Efrem ne elenca le virtù. Il testo
stesso dell’inno è chiaro nel suo significato, nel suo contenuto:
3.Voi che siete membra, imitate il
capo: acquistate la serenità (quiete ܫܠܝܘܬܐ) dalla sua purezza (ܫܦܝܘܬܐ), la benignità dalla sua dolcezza
(mansuetudine), la purezza dalla sua santità (ܩܕܝܫܘܬܐ), e l’insegnamento (ܝܘܠܦܢܐ) dalle sue istruzioni.
4.Acquistate il buon senso (ܛܥܡܐ) dalla sua longanimità, la sobrietà dalla
sua ponderazione, e il distacco (solitudine ܫܘܘܚܕܐ) dalla sua povertà (ܡܣܟܢܘܬܐ). Lui risplende nella sua pienezza,
risplendiamo assieme a lui tutti noi.
5.Vedete: le sue parole ed i suoi
atti sono misurati e ponderati. E guardate che anche i suoi passi hanno
acquisito una andatura serena. Possiede un controllo totale su sé stesso.
Per Efrem il vescovo, il capo del corpo, è anche
il maestro, colui che istruisce le sue membra ed esse a loro volta debbono
imparare, istruirsi, quasi abbeverarsi da lui. Le virtù che le membra vedono
nel capo, nel vescovo, virtù che lui ha già adesso, non virtù che dovrebbe
avere ma che per Efrem veramente lui possiede già, essi le membra debbono
acquisirle, accoglierle come esempio ed insegnamento dato a loro, ed il diacono
poeta ne fornisce una bella lista. Il vescovo possiede la purezza (e qui
dobbiamo indicare che il termine siriaco può indicare anche la bellezza,
l’agire in modo bello ed onesto, la sincerità si potrebbe anche tradurre); la santità,
termine sinonimo anche di castità, e la saggezza che abbiamo tradotto
come istruzione, capacità di insegnare. Inoltre, il vescovo deve avere la longanimità,
la ponderazione e la povertà. Da queste virtù del vescovo, le
membra del corpo debbono acquistare le altre virtù che da quelle del vescovo
sgorgano, sono adatte per loro: la serenità, come sinonimo anche di
quiete, la benignità, la purezza come sinonimo anche di castità,
la buona disposizione ad imparare. Avere anche il buon senso, la sobrietà,
la capacità di distacco, e questo è un termine sinonimo di solitudine,
quasi fosse il saper guardare a distanza le cose, il distacco dalle cose. Le
membra del corpo risplendono quindi non di propria luce ma dallo splendore che
viene loro dal capo di questo corpo. Infine, Efrem nella strofa 5 indica come
l’agire del vescovo in parole ed in opera è anche misurato e ponderato,
addirittura nel suo camminare; lui è qualcuno che, prendendo la parola del
diacono: “possiede un controllo totale su sé stesso”.
Nelle strofe 8-9 Efrem continua a non tanto a
tessere la lode del suo vescovo, bensì a dipingerne l’icona.
8. È stato illustre tra i
predicatori, dotto tra i lettori, eloquente tra i saggi, casto (sobrio, modesto
ܢܟܦܐ) tra i suoi fratelli ed onorato tra i suoi cari.
9.In due modi (di vita ܥܘܡܪܝܢ) lui è stato solitario (monaco ܝܚܝܕܝܐ) durante i suoi giorni: santo (casto ܩܕܝܫܐ) nel suo corpo e solitario nella sua casa.
In segreto ed in pubblico è stato casto.
Efrem sottolinea come il vescovo è il
pastore che sa predicare, che sa insegnare, che sa leggere (e qua il leggere
sicuramente può andare anche oltre alla formale lettura dei testi). La
dimensione di vita nel celibato del vescovo fa che Efrem lo presenti come una
figura quasi monastica nella sua castità, nella sua vita come solitario, come
monaco.
Conclusione.
Concludo con due testi presi ancora da
questa raccolta efremiana. Il primo raccoglie due strofe prese dall’inno XIV,
che sono due preghiere molto personali di Efrem, di una bellezza e profondità
teologica veramente uniche. Ve ne do qua semplicemente la traduzione.
25. Ed io che sono peccatore
ed anche lavoratore, istruito da loro tre (i tre vescovi), quando
vedranno il Terzo (Triduano, Colui dai tre giorni, Cristo, ܬܠܝܬܝܐ) che chiude la porta della sala delle
nozze, tutti e tre chiederanno (intercederanno) per me affinché Lui apra un
pochino per me la sua porta.
26.E il peccatore, allo
stesso tempo gioioso e timoroso, si accosterà per spingere ed entrare per
guardare (sbirciare ܡܚܪ). E i tre maestri chiameranno con bontà l’unico discepolo, che
raccoglierà da sotto i tavoli le briciole piene di vita.
Il secondo testo è l’ultima strofa
dell’inno XVI,22 che non ha bisogno di molto commento. Efrem ci dà quasi
una fotografia, diciamo meglio una icona, della situazione in cui si trovava il
suo vescovo Vologeso nel IV secolo, si trovano e ci troviamo a vivere tanti
chiamati ad essere il capo del corpo che è la Chiesa, che è ogni Chiesa
cristiana, da Oriente ad Occidente, dal IV al XXI secolo. Lascio il testo a voi
affinché ne cogliate l’acutezza, la sagacia e allo stesso tempo la profondità
spirituale, psicologica ed ecclesiologica del diacono poeta del IV secolo.
22.Siamo noi
stessi nel mettere in subbuglio (turbare, mettere confusione) la successione
(delle cose) ed il buon ordine, perché nel tempo della moderazione
(mansuetudine, longanimità, prudenza), ecco pretendiamo (vogliamo) una severità
(durezza d’animo) che ci rimproveri (increpi fortemente) come se fossimo
bambini!
Dadisho, un monaco del VII secolo che
ci ha portato alla realtà e alle difficoltà dell’episcopato già in quel momento
assai travagliato per la Chiesa Siro Orientale e in qualche modo molto simile e
vicino ai nostri giorni.
Efrem di Nisibi che ha tratteggiato con
un linguaggio poetico e teologico -ed anche ecclesiologico- la figura ed il
ministero del vescovo nella Chiesa di tradizione siriaca nel IV secolo.
La
virgola del testo paolino di 1 Tim 3 di cui parlavo all’inizio, messa prima o
messa dopo l’uno o l’altro dei termini non cambia che l’episcopato sia un “opus”,
e qua sfruttiamo i significati, i sinonimi del termine: un’opera, un peso, un
giogo, una croce…, che portiamo con la nostra umanità debole, fragile, tante
volte sola…; amata però, e rafforzata, guarita, redenta da quella “Grazia
Divina” che ci regge e che ci salva. E concludo con Dadisho: “È stato scelto
dalla grazia divina per i lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio…. Che
quest’uomo ne sia convinto e vedrà che è un’opera bella”.
+P. Manuel Nin
Esarca Apostolico
Vescovo titolare di Carcabia