sabato 21 giugno 2025

 


Alcune riflessioni da vescovo patrologo su un testo di sant’Agostino di Ippona.

Quando nel lontano 1984 arrivai a Roma, dal mio monastero di Montserrat, per fare la specializzazione in Teologia e Scienze Patristiche presso l’Istitutum Patristicum Augustinianum, avevo una formazione patristica di base possiamo dire assai soddisfacente. Non per meriti propri, ma perché nei miei anni di formazione monastica e teologica nel monastero ebbi soprattutto tre grandi maestri che mi insegnarono a conoscere ed amare questi autori cristiani antichi: essi furono p. Alessandro Olivar, che mi guidò quasi per mano nei corridoi della biblioteca monastica per mostrarmi ed insegnarmi ad usare -guardando, sfiorando, aprendo, direi quasi annusando- quegli strumenti fondamentali che erano le grandi collane patristiche, le enciclopedie, gli studi filologici e teologici sui grandi autori cristiani antichi. Poi, p. Cebrià Piffaré che, da buon maestro e teologo lui stesso, mi spinse a leggere i grandi autori antichi, da Origene a sant’Agostino, dai testi di san Benedetto a quelli che narrano le prodezze di quei “folli” e santi monaci dei deserti della Messopotamia. Infine, p. Ramon Ribera che pazientemente in una lunga e proficua “centuria” di ore di scuola mi mise nelle mani una buona conoscenza della lingua siriaca, quella antica e veneranda lingua semitica con cui Efrem di Nisibi cantò il mistero della divino-umanità del Verbo di Dio fattosi carne, fattosi uomo come ognuno di noi, lingua con cui il Signore stesso ci insegnò a pregare il Padre che è nei cieli. Questi tre padri e maestri, e confratelli monaci, mi insegnarono a conoscere e soprattutto ad amare i santi Padri della Chiesa, quegli autori antichi provenienti da diverse tradizioni cristiane, che nei loro scritti adoperarono diverse lingue, e che venivano da origini geografiche e culturali assai differenti, ma tutte attorno -oserei dire guardando verso- il grande bacino del Mediterraneo.

Questa mia premessa autobiografica l’ho fatta per poter approdare, nel settembre 1984, all’Istitutum Patristicum Augustinianum di Roma. Non pretendo elencare i pregi di questo importante centro universitario di Roma, fondato ed inaugurato da san Paolo VI nel 1970, dove ho fatto i miei studi di specializzazione patristica dal 1984 fino al 1992. Voglio soltanto sottolineare la larghezza di orizzonti scientifici di quella sede che, negli abbondantissimi corsi offerti agli studenti, mi portò ad avere una visione larga e completa di tutto il periodo patristico: geograficamente, dalla Spagna all’Italia al nord Africa, all’Egitto, alla Cappadocia, alla Palestina, alla Messopotamia…; cronologicamente, dal primo al settimo e ottavo secoli; linguisticamente, dal latino al greco, al siriaco, al copto…; teologicamente, da Alessandria -senza dimenticare Roma- ad Antiochia; infine ecclesiologicamente, da Cipriano ad Ambrogio a Basilio ad Agostino di Ippona. E i corsi offerti su questo grande padre della Chiesa nordafricana tra il quarto ed il quinto secolo sono diventati il fiore all’occhiello di questo centro romano di studi patristici.

Ed arrivo allo scopo di questa mia breve riflessione. “Per voi sono vescovo…, con voi sono cristiano… Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus”. Questa frase di sant’Agostino, nel suo sermone 340 predicato nell’anniversario della sua ordinazione episcopale, è stata potremo dire il centro del messaggio che il nuovo vescovo di Roma, papa Leone XIV, ha voluto dare al suo popolo nella sua prima apparizione sulla loggia della basilica di San Pietro. Il suo messaggio al popolo di Dio che lo salutava e lo accoglieva come nuovo vescovo di Roma fu proprio questo: “…per voi…, con voi…”. Le parole forti e chiare del santo vescovo di Ippona riecheggiarono nelle orecchie ma soprattutto nei cuori di quella folla che accorreva a piazza San Pietro quel pomeriggio quasi estivo del mese di maggio.

Tutti siamo battezzati in Cristo e siamo, diventiamo, grazie ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, battesimo, cresima ed eucaristia, Chiesa e Corpo di Cristo. Alcuni tra i battezzati, poi, vengono chiamati dal Signore, e scelti dalla Chiesa stessa, per essere vescovi per il popolo, per tutte le membra di questo Corpo glorioso. La frase di sant’Agostino mi porta a riflettere brevemente e direi schiettamente, da vescovo, sul ministero episcopale, sulla croce dell’essere pastore, e che il Signore ha caricato sulle nostre fragili spalle. E mi potreste chiedere: se l’essere vescovo “per voi…, per una Chiesa, per un gregge…” è un pondus, un peso, una croce, allora forse il “con voi…”, l’essere e vivere da cristiano sia una cosa più facile, forse meno impegnativa. L’essere cristiano, il vivere ed agire come tale, è assai gravoso, perché è il Vangelo nella sua bellezza e nella sua esigenza quasi come una spada a doppio taglio.

Ma mi soffermo brevemente in quel “per voi…” agostiniano. Il “per voi…” diventa un impegno totale, esclusivo verso il gregge che ci è stato dato dal Signore. Un gregge fatto da pecore forti e pecore deboli, sane e ammalate, giovani e vecchie. Un gregge che sarà o diventerà molto o poco numeroso. Pecore che aspettano dal pastore una parola evangelica, una parola che consoli, una parola che dia loro forza e coraggio, una parola che lenisca e guarisca, una parola di perdono e di riconciliazione. Mai e poi mai una parola di rancore, una parola che divida, che non crei comunione nel gregge, che disperda, che crei amarezza, che avveleni il cuore delle pecore.

Si potrebbe pensare che una certa sistemazione “logica” avrebbe richiesto un ordine diverso della frase da parte del predicatore nordafricano, forse così: “con voi sono cristiano, per voi sono vescovo”. Ma nel pensiero di Agostino l’ordine è chiaro e voluto così com’è presentato: “per voi…, con voi…”. Infatti, il predicatore prosegue il suo discorso in questo modo: “Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno dell'incarico ricevuto (suscepti officii), questo della grazia (gratiae); quello è occasione di pericolo (periculi), questo di salvezza (salutis)”. Il ministero, il servizio, il peso come vescovo è quello che segna la vita di tutti coloro che sono stati chiamati a pascere il gregge. È l’impegno primo e più gravoso, è l’incarico, l’ufficio ricevuto da Colui, il Signore, che è il vero vescovo, il vero pastore del gregge. L’ufficio ricevuto -il servizio, la diaconia, la carica…-, ci impegna nella nostra dedizione totale e direi unica, e per questo impegnativa, gravosa, mai facile da portare, verso le pecore del gregge, usando sempre l’immagine “pastorale”.

Allora, la seconda parte del testo, il “…con voi sono cristiano”, che Agostino bolla come “occasione di salvezza…”, diventa per noi pegno, sicurezza e speranza della salvezza che ci viene ed unicamente da Cristo stesso, che ci fa membra del suo corpo, santificati da Lui, configurati pienamente con lui. Il “per voi” ci configura a Lui come pastori, vigilanti, veglianti sul gregge. Il “con voi” ci fa, assieme a tutta la Chiesa, assieme a tutto il suo Corpo glorioso, uno in Cristo.

Molti dei grandi Padri della Chiesa sia orientali che occidentali -penso a Giovanni Crisostomo, ad Agostino, a Severo di Antiochia-, hanno dei sermoni per l’anniversario della loro ordinazione episcopale. In questo giorno anniversario celebravano i Santi Misteri e predicavano al popolo, gli davano la Parola del Vangelo e la loro propria parola che traeva dal Vangelo l’alimento, la medicina, la consolazione, la vita nuova. Era per i santi Padri, e per noi che li rileggiamo, un momento di grazia non soltanto per ricordare, ma soprattutto per far memoria viva, vera anamnesi, di quel “per voi…” e quel “con voi…” che Agostino di Ippona ci propone nel suo sermone 340.

 +P. Manuel Nin

Vescovo titolare di Carcabia

Esarca Apostolico


Μερικές σκέψεις ως πατρολόγος επίσκοπος σε ένα κείμενο του Αγίου Αυγουστίνου της Ιππώνος

Φτάνοντας στην Ρώμη το 1984, από το μοναστήρι μου στο Montserrat, για να κάνω μια εξειδίκευση στη Θεολογία και τις Πατερικές Επιστήμες στο Istitutum Patristicum Augustinianum, είχα μια βασική πατερική διαμόρφωση που θα μπορούσαμε να πούμε ότι ήταν πολύ ικανοποιητική. Όχι λόγω της δικής μου αξίας, αλλά επειδή στα χρόνια της μοναστικής και θεολογικής μου διαμόρφωσης στο μοναστήρι είχα πάνω απ 'όλα τρεις μεγάλους δασκάλους που με δίδαξαν να γνωρίζω και να αγαπώ αυτούς τους αρχαίους χριστιανούς συγγραφείς: ήταν ο π. Alessandro Olivar, ο οποίος με οδήγησε σχεδόν από το χέρι στους διαδρόμους της μοναστικής βιβλιοθήκης για να μου δείξει και να με διδάξει να χρησιμοποιώ - κοιτάζοντας, αγγίζοντας, ανοίγοντας, θα έλεγα σχεδόν μυρίζοντας, εκείνα τα θεμελιώδη εργαλεία που ήταν η μεγάλη πατερική σειρά, οι εγκυκλοπαίδειες, οι φιλολογικές και θεολογικές μελέτες για τους μεγάλους αρχαίους χριστιανούς συγγραφείς. Στη συνέχεια, ο π. Cebrià Piffaré, ο οποίος, ως καλός δάσκαλος και θεολόγος ο ίδιος, με παρότρυνε να διαβάσω τους μεγάλους αρχαίους συγγραφείς, από τον Ωριγένη μέχρι τον Άγιο Αυγουστίνο, από τα κείμενα του Αγίου Βενέδικτου μέχρι εκείνα που διηγούνται τα κατορθώματα εκείνων των «τρελών» και αγίων μοναχών των ερήμων της Μεσοποταμίας. Τέλος, ο π. Ramon Ribera, ο οποίος υπομονετικά σε ένα μακρύ και καρποφόρο σχολικό ωράριο έβαλε στα χέρια μου μία καλή γνώση της συριακής γλώσσας, αυτής της αρχαίας και σεβάσμιας σημιτικής γλώσσας με την οποία ο Εφραίμ της Νίσιβης έψαλε το μυστήριο της θεανθρώπινης φύσης του ενσαρκωμένου Λόγου του Θεού, έκανε τον άνθρωπο σαν τον καθένα μας, μια γλώσσα με την οποία ο ίδιος ο Κύριος μας δίδαξε να προσευχόμαστε στον Πατέρα που είναι στον ουρανό. Αυτοί οι τρεις πατέρες και δάσκαλοι, και αδελφοί μοναχοί, με δίδαξαν να γνωρίζω και κυρίως να αγαπώ τους αγίους Πατέρες της Εκκλησίας, εκείνους τους αρχαίους συγγραφείς που προέρχονταν από διαφορετικές χριστιανικές παραδόσεις, που χρησιμοποιούσαν διαφορετικές γλώσσες στα γραπτά τους, που προέρχονταν από πολύ διαφορετικές γεωγραφικές και πολιτιστικές καταβολές, αλλά ολόγυρα – θα τολμούσα να πω κοιτάζοντας προς τη μεγάλη λεκάνη της Μεσογείου.

Έκανα αυτή την αυτοβιογραφική μου αναφορά για να μπορέσω να φτάσω, τον Σεπτέμβριο του 1984, στο Istitutum Patristicum Augustinianum στη Ρώμη. Δεν προσποιούμαι ότι απαριθμώ τα πλεονεκτήματα αυτού του σημαντικού πανεπιστημιακού κέντρου στη Ρώμη, που ιδρύθηκε και εγκαινιάστηκε από τον Απόστολο Παύλο VI το 1970, όπου έκανα τις σπουδές μου στην πατερική εξειδίκευση από το 1984 έως το 1992. Θέλω απλώς να υπογραμμίσω το εύρος των επιστημονικών οριζόντων αυτής της έδρας που, στα άφθονα μαθήματα που προσφέρονται στους φοιτητές, με οδήγησαν να έχω μια ευρεία και ολοκληρωμένη θεώρηση ολόκληρης της πατερικής περιόδου: γεωγραφικά, από την Ισπανία έως την Ιταλία έως τη Βόρεια Αφρική, την Αίγυπτο, την Καππαδοκία, την Παλαιστίνη, τη Μεσοποταμία...;·χρονολογικά, από τον πρώτο έως τον έβδομο και όγδοο αιώνα. γλωσσικά, από τα λατινικά στα ελληνικά, συριακά, κοπτικά...; θεολογικά, από την Αλεξάνδρεια -χωρίς να ξεχνάμε την Ρώμη- μέχρι την Αντιόχεια· τέλος; εκκλησιολογικά, από τον Κυπριανό στον Αμβρόσιο στον Βασίλειο στον Αυγουστίνο της Ιππώνος. Και τα μαθήματα που προσφέρονται σε αυτόν τον μεγάλο πατέρα της Εκκλησίας της Βόρειας Αφρικής μεταξύ του τέταρτου και του πέμπτου αιώνα έχουν γίνει η ναυαρχίδα αυτού του ρωμαϊκού κέντρου πατερικών μελετών.

Και έρχομαι στο σκοπό αυτής της σύντομης σκέψης μου. “Για σένα είμαι επίσκοπος..., μαζί σου είμαι χριστιανός... Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus”. Αυτή η φράση του Αγίου Αυγουστίνου, στο κήρυγμά του 340 που κήρυξε στην επέτειο της επισκοπικής χειροτονίας του, ήταν το κέντρο του μηνύματος που ο νέος επίσκοπος της Ρώμης, ο Πάπας Λέων ΙΔ, ήθελε να δώσει στον λαό του στην πρώτη του εμφάνιση στο μπαλκόνι της Βασιλικής του Αγίου Πέτρου. Το μήνυμά του προς τον λαό του Θεού που τον υποδέχτηκε και τον καλωσόρισε ως νέο επίσκοπο Ρώμης ήταν ακριβώς αυτό: «...για σένα..., μαζί σου...”. Τα δυνατά και καθαρά λόγια του αγίου επισκόπου της Ιππώνος αντηχούσαν στα αυτιά αλλά πάνω απ όλα στις καρδιές εκείνου του πλήθους που συνέρρευσε στην πλατεία του Αγίου Πέτρου εκείνο το σχεδόν καλοκαιρινό απόγευμα του μήνα Μαΐου.

Είμαστε όλοι βαπτισμένοι εν Χριστώ και γινόμαστε, γινόμαστε, χάρη στα μυστήρια της χριστιανικής μύησης, του βαπτίσματος, του χρίσματος και της Θείας Ευχαριστίας, της Εκκλησίας και του Σώματος του Χριστού. Μερικοί από τους βαπτισμένους, λοιπόν, καλούνται από τον Κύριο, και επιλέγονται από την ίδια την Εκκλησία, να είναι επίσκοποι για τον λαό, για όλα τα μέλη αυτού του ένδοξου Σώματος. Η φράση του αγίου Αυγουστίνου με οδηγεί να συλλογιστώ εν συντομία και θα έλεγα ειλικρινά, ως επίσκοπος, για την επισκοπική διακονία, για τον σταυρό του ποιμένα και τον οποίο ο Κύριος έχει τοποθετήσει στους εύθραυστους ώμους μας. Και θα μπορούσατε να με ρωτήσετε: αν το να είσαι επίσκοπος “για σένα..., για μια Εκκλησία, για ένα ποίμνιο...”, είναι ένας πόντος, ένα βάρος, ένας σταυρός, τότε ίσως “το μαζί σου...”, tο να είσαι και να ζεις ως χριστιανός είναι κάτι ευκολότερο, ίσως λιγότερο απαιτητικό. Το να είσαι Χριστιανός, να ζεις και να ενεργείς ως τέτοιος, είναι πολύ επαχθές, επειδή είναι το Ευαγγέλιο στην ομορφιά του και στις απαιτήσεις του σχεδόν σαν δίκοπο μαχαίρι.

Αλλά θα σταματήσω για λίγο σε αυτό το “για σένα...” aυγουστινιανός. Το “για σένα...”, γίνεται μια συνολική, αποκλειστική δέσμευση προς το ποίμνιο που μας έχει δοθεί από τον Κύριο. Ένα κοπάδι που αποτελείται από δυνατά και αδύναμα πρόβατα, υγιή και άρρωστα, μικρά και μεγάλα. Ένα ποίμνιο που θα είναι ή θα γίνει πολύ ή λίγο σε αριθμό. Πρόβατα που περιμένουν έναν λόγο του Ευαγγελίου από τον ποιμένα, έναν λόγο που θα τα παρηγορεί, έναν λόγο που τους δίνει δύναμη και κουράγιο, έναν λόγο που θα καταπραΰνει και θα θεραπεύει, έναν λόγο συγχώρεσης και συμφιλίωσης. Ποτέ ένας λόγος μνησικακίας, ένας λόγος που διχάζει, που δεν δημιουργεί κοινωνία στο ποίμνιο, που διασκορπίζει, που δημιουργεί πικρία, που δηλητηριάζει τις καρδιές των προβάτων.

Θα μπορούσε κανείς να σκεφτεί ότι μια συγκεκριμένη “λογική” διευθέτηση θα απαιτούσε διαφορετική σειρά της πρότασης από την πλευρά του βορειοαφρικανού ιεροκήρυκα, ίσως ως εξής: “μαζί σου είμαι χριστιανός, για σένα είμαι επίσκοπος”. Αλλά στη σκέψη του Αυγουστίνου η σειρά είναι σαφής και επιθυμητή όπως παρουσιάζεται: “για σένα..., μαζί σου...”. Μάλιστα, ο ιεροκήρυκας συνεχίζει την ομιλία του ως εξής: “Για σένα είμαι επίσκοπος, μαζί σου είμαι χριστιανός. Αυτό το όνομα είναι ένα σημάδι της επιτροπής που έλαβε (suscepti officii), αυτό της χάρης (gratiae). Η πρώτη είναι μια ευκαιρία κινδύνου (periculi), η δεύτερη σωτηρίας (salutis)”. Η διακονία, η υπηρεσία, το βάρος ως επίσκοπος είναι αυτό που χαρακτηρίζει τη ζωή όλων εκείνων που έχουν κληθεί να ποιμάνουν το ποίμνιο. Είναι η πρώτη και πιο επαχθής δέσμευση, είναι το έργο, το αξίωμα που λαμβάνεται από τον Ένα, τον Κύριο, ο οποίος είναι ο αληθινός επίσκοπος, ο αληθινός ποιμένας του ποιμνίου. Το αξίωμα που παραλάβαμε -η υπηρεσία, η διακονία, το αξίωμα...-, μας δεσμεύει στο σύνολο και θα έλεγα μοναδική αφοσίωσή μας, και γιαυτό απαιτητικό, επαχθές, ποτέ δυσβάσταχτο, προς τα πρόβατα του ποιμνίου, χρησιμοποιώντας πάντα την “ποιμαντική” εικόνα.

Έτσι, το δεύτερο μέρος του κειμένου, το “... μαζί σου είμαι χριστιανός”, την οποία ο Αυγουστίνος χαρακτηρίζει ως “ευκαιρία σωτηρίας...”, γίνεται για μας υπόσχεση, ασφάλεια και ελπίδα της σωτηρίας που έρχεται σε μας και μόνο από τον ίδιο τον Χριστό, ο οποίος μας κάνει μέλη του σώματός του, αγιασμένους από αυτόν, πλήρως διαμορφωμένους μαζί του. Το “για σένα” μας διαμορφώνει σε αυτόν ως ποιμένες, άγρυπνοι, που προσέχουν το ποίμνιο. Το “μαζί σας” μας κάνει, μαζί με όλη την Εκκλησία, μαζί με όλο το ένδοξο Σώμα της, ένα εν Χριστώ.

Πολλοί από τους μεγάλους Πατέρες της Εκκλησίας, τόσο της Ανατολής όσο και της Δύσης – αναφέρομαι στον Ιωάννη τον Χρυσόστομο, τον Αυγουστίνο, τον Σεβήρο Αντιοχείας – κάνουν κηρύγματα στην επέτειο της επισκοπικής χειροτονίας τους. Την επετειακή αυτή ημέρα τέλεσαν τα Άχραντα Μυστήρια και κήρυξαν στους ανθρώπους, τους έδωσαν τον Λόγο του Ευαγγελίου και τον δικό τους λόγο που αντλούσε από το Ευαγγέλιο τροφή, φάρμακο, παρηγοριά, νέα ζωή. Ήταν για τους αγίους Πατέρες, και για εμάς που τους ξαναδιαβάσαμε, μια στιγμή χάριτος όχι μόνο για να θυμόμαστε, αλλά πάνω απ’oλα για να κάνουμε μια ζωντανή ανάμνηση, μια αληθινή ανάμνηση, αυτού του “για σας...” και ότι “μαζί σου...” που μας προτείνει ο Αυγουστίνος της Ιππώνος στο κήρυγμά του 340.

+π. Εμμανουήλ Nin

Τιτουλάριος Επίσκοπος Καρκαβιας

Αποστολικός Έξαρχος

 


domenica 15 giugno 2025

 



Icone di Sant'Agostino e dei santi Lorenzo e Leone Magno.
Chiesa cattedrale della Santissima Trinità. Atene

A proposito della celebrazione di inizio pontificato di Papa Leone XIV.

Tre icone ecclesiologiche.

Prima icona.

L’elezione del cardinale Robert Francis Prevost al soglio di Pietro a Roma, con il nome di Leone XIV, è stata per tutta la Chiesa Cattolica un momento di gioia certamente, ma soprattutto di grazia e di conferma nella fede che il Signore non abbandona mai la sua Chiesa. Il giorno dell’elezione l’8 maggio, mi trovavo a Montserrat per la riunione della Conferenza Episcopale Greca, la prima riunione che si faceva fuori dalla Grecia e precisamente nel mio monastero di Montserrat nell’anno della celebrazione del suo millenario di fondazione.

In quel momento, la persona dell’eletto vescovo di Roma, specialmente nella sua veste già di monaco agostiniano, ed il nome assunto come Papa, cioè Leone, mi portarono subito alla mia cattedrale della Santissima Trinità ad Atene, e concretamente a due degli affreschi che si trovano in quella bellissima chiesa cattedrale di via Acharnon: le icone di sant’Agostino di Ippona e di san Leone Magno. La presenza del secondo di questi due santi è assai usuale nell’iconografia bizantina, sia per la sua festa nel calendario bizantino il 18 febbraio e soprattutto per il legame che Leone Magno ha con il concilio di Calcedonia del 451 e la professione di fede cristologica che ne scaturì. La presenza del primo dei due santi, Agostino di Ippona, invece, sorprende assai ed è, per quanto mi risulta, quasi un “unicum” nelle rappresentazioni iconografiche di questo santo nord africano in Oriente. Mentre nel calendario delle Chiese Orientali bizantine, cattoliche ed ortodosse, troviamo del santi diciamo “occidentali” per quanto la loro origine linguistica, geografica ed ecclesiale: il martire romano Lorenzo, Ambrogio di Milano, Leone Magno, Gregorio Magno, per citarne alcuni, non troviamo invece la figura di Agostino. La presenza iconografica e soprattutto ecclesiale di sant’Agostino nella mia cattedrale della Santissima Trinità -vestito con il felonion e l’omoforion episcopale e sotto con la tonaca nera da monaco-, è un bel esempio e direi anche una profezia di quella piena comunione ecclesiale a cui siamo tutti chiamati, nel “giorno” e nel “come” il Signore vorrà chiamarci tutti i cristiani a concelebrare i Santi Misteri attorno ad un unico altare. Le due icone, di Agostino e di Leone Magno si trovano attorno all’altare della mia cattedrale, quasi ad anticipare quella concelebrazione che un giorno il Signore concederà a tutte le Chiese cristiane nella piena comunione di fede e di carità.

Seconda icona.

Questo primo momento ecclesiologico ed iconografico, mi porta ad un secondo momento, ad una seconda icona. La domenica 18 maggio nel sagrato della basilica di San Pietro è stata celebrata la messa per l’inizio di pontificato di Papa Leone XIV, una bellissima celebrazione in cui un gran numero di Chiese cristiane orientali e occidentali, cattoliche ed ortodosse sono state presenti. Ho avuto la grazia di concelebrare anch’io quella mattina, per far presente la Chiesa Cattolica che è in Grecia ed anche l’Esarcato Cattolico di tradizione bizantina in Grecia, una piccola Chiesa sì, fatta da greci, ucraini e caldei, ma vivente nell’annuncio del Vangelo e della carità.

All’inizio della celebrazione, come era stato già fatto nel 2005 e nel 2013 con le messe di inizio pontificato dei Papi Benedetto XVI e Francesco, anche Papa Leone si è recato, è sceso presso la tomba di san Pietro per pregare, accompagnato dai patriarchi delle Chiese Orientali Cattoliche. È stato un momento ecclesiologicamente non soltanto toccante ma soprattutto importante ed oserei dire “vincolante”: il vescovo di Roma, colui che presiede nella carità, accompagnato dai capi delle Chiese Orientali Cattoliche, pregando presso la tomba di Pietro. Il “padre” ed i “padri” in preghiera, in profonda e piena comunione, attorno alla tomba di colui che per primo confessò Cristo, che poi nella sua debolezza lo rinnegò, ma che ricevete a conferma della fedeltà del suo Signore quel “pasci le mie pecorelle”. Quel breve tempo presso la tomba di Pietro, è stato un momento di vera cattolicità della Chiesa, perché il Papa, il vescovo di Roma, colui che è vincolo di comunione tra le Chiese cristiane e le presiede nella carità, si è trovato in preghiera accanto a coloro che sono, nelle le proprie Chiese Cattoliche di tradizioni orientali, i padri, anch’essi la sorgente di comunione e di grazia. Quell’immagine, quell’icona con cui iniziava la santa messa, e la concelebrazione che ne seguì tra le braccia aperte di piazza San Pietro, diventa icona di quello che tutte le Chiese cristiane sono chiamate ad essere per dono e grazia del Signore. Erano presenti accanto al Papa i patriarchi cattolici: copto, melchita, armeno, caldeo e siro cattolico. Non erano dei semplici “ministri…”, o “rappresentanti…” dei “cattolici di rito orientale” -riprendendo la dicitura di qualche testata giornalistica o televisiva-, ma i capi e i padri della Chiese Orientali in piena comunione con il vescovo di Roma. Inoltre, su in basilica erano presenti ad attendergli, oltre al collegio dei cardinali, anche gli arcivescovi maggiori ed i metropoliti di altre Chiese orientali cattoliche.

Terza icona.

          Un terzo momento ecclesiologico ed iconografico fu la presenza in quella celebrazione di alcuni patriarchi orientali ortodossi. Quest’immagine, all’aperto nella grande piazza San Pietro, ci diede, mi si consenta l’espressione, una pregustazione di quella concelebrazione attorno all’unico altare su cui i Santi Misteri del Corpo e del Sangue del Signore diventeranno il sigillo della piena comunione, nell’unica fede cristiana. La presenza dei patriarchi ortodossi di Costantinopoli, di Gerusalemme, e dei metropoliti di tante altre Chiese ortodosse di tradizione bizantina, accanto al patriarca della Chiesa siro orientale ortodossa, e ai metropoliti di altre antichissime Chiese Orientali, fu anch’essa una icona profetica e allo stesso tempo già molto reale del superamento di tanti fraintendimenti, sorti nei primi secoli cristiani nell’espressione e nella formulazione linguistica dell’unica fede nel Verbo di Dio incarnato, vero Dio e vero uomo, formulazione espressa però nella ricchezza fonetica e semantica di tante lingue che arricchiscono la professione di fede delle Chiese cristiane di Oriente.

          Tre icone, in un angolo discreto della città di Atene la prima, gli le altre due nella basilica ed in piazza San Pietro a Roma, che dobbiamo cogliere come momenti che dovrebbero spingerci sì nel cammino di dialogo, ma soprattutto di rispetto reciproco e di carità tra le diverse Chiese Cristiane di Oriente e di Occidente, cattoliche ed ortodosse.

          Le due icone dei santi Agostino e Leone Magno nella cattedrale della Santissima Trinità sono una bella testimonianza del ruolo del nostro Esarcato Apostolico, nel desiderio e nella ricerca della piena comunione tra le diverse Chiese cristiane di Oriente e di Occidente.

+P. Manuel Nin

Vescovo titolare di Carcabia

Esarca Apostolico

 


martedì 3 giugno 2025

 

Abside della cappella di San Benedetto. Pontificio Collegio Greco

Pentecoste 2025 / Videomessaggio 01

La Pentecoste nella tradizione bizantina

La Pentecoste come festa liturgica, si celebra cinquanta giorni dopo la Pasqua, ed è una delle feste più antiche del calendario cristiano. Ne parlano Tertulliano ed Origene nel III secolo come feste annuali, e già nel IV secolo fa parte del patrimonio teologico/liturgico delle diverse Chiese: Egeria ne indica la celebrazione a Gerusalemme; poi abbiamo dei testi dei Cappadoci e di altri autori cristiani. Infine, Romano il Melode, nel VI sec., ne compone diversi kontakia.

Nei testi dell’ufficiatura vediamo ripetutamente il tema del rinnova­mento, del cambiamento adoperato nel cuore degli uomini per mezzo dello Spirito, che agisce nel cuore degli uomini, lo rinnova, lo ricrea: lo Spirito santo: fa scaturire le profezie, ordina i sacerdoti, ha insegnato la sapienza agli illetterati, ha reso teologi i pescatori, tiene saldo tutto l’armonico ordinamento della Chiesa…. Sempre nei testi del vespro troviamo diverse confessioni trinitarie -la Pentecoste è una festa, una teofania, soprattutto trinitaria; mai la contemplazione di una delle Persone della Santa Trinità non può dimenticare il mistero che in essa, nella Trinità, si cela, si nasconde. Uno dei tropari del vespro diventa una lettura trinitaria molto profonda dell’inno tre volte santo: Santo Dio, che tutto hai creato mediante il Figlio, con la sinergia del santo Spirito; Santo forte, per il quale abbiamo conosciuto il Padre e per il quale lo Spirito Santo è venuto nel mondo; Santo immortale, o Spirito Paraclito, che dal Padre procedi e nel Figlio riposi. Trinità Santa, gloria a te. Nel vespro ancora si trovano due tropari che poi passeranno ad altri momenti della liturgia bizantina: Abbiamo visto la luce vera, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo trovato la fede vera, adorando l’indi­visibile Trinità…, testo che passerà alla Divina Liturgia subito dopo la comunione, a sottolineare il collegamento tra la Pentecoste, il dono dello Spirito e l’eucaristi­a. Quindi il tropario: Re celeste, Paraclito, Spirito di verità… che diventa la preghiera iniziale di tutte le ufficia­ture bizantine. Il vespro ha tre letture dell’Antico Testamento: Nm 11,16-17.24-29: lo Spirito mandato sugli anziani del popolo; Gio 2,23-32;3,1-5 -la venuta dello Spirito citato poi a Atti 2,17; Ez 36,24-28 -il rinnovamen­to di tutti i popoli per opera dello Spirito. Il dono dello Spirito che rinnova i discepoli, che rinnova tutta la Chiesa, viene sottolineato anche dal tropario proprio della festa: Benedetto sei tu, Cristo Dio nostro: tu hai reso sapientissimi i pescatori, inviando loro lo Spirito Santo, e per mezzo loro hai preso nella rete l’uni­ver­so. Amico degli uomini, gloria a te. Per quanto riguarda la liturgia del giorno, accenno alle tre grandi preghiere delle genuflessioni fatte al vespro della domenica, spesso celebrato senza soluzione di continuità alla fine della Divina Liturgia. Si tratta di tre preghiere che hanno quasi la forma di prefazi liturgici dove si evoca il mistero di Dio e tutto quello che Lui ha fatto per la redenzione dell’uomo: Signore immacolato, incorruttibile, infinito, invisibile, inaccessibile, inesprimibile, immutabile... incommensurabile... immortale... Dio Padre del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo: il quale per noi uomini e per la nostra salvezza discese dai cieli, prese carne dallo Spirito dalla Vergine Maria... dà al tuo popolo la pienezza del tuo amore... santificaci per la potenza della tua mano... Queste preghiere vengono recitate in ginocchio non tanto in carattere penitenziale, bensì per indicare il momento fortemente epicletico di dono ed accoglienza dello Spirito Santo.

La celebrazione della Pentecoste come teofania trinitaria, la celebrazione della Pentecoste come dono dello Spirito oggi alla Chiesa, ad ogni cristiano, ad ognuno di noi. Il dono dello Spirito è un dono a tutto il popolo di Dio. Dono di unità e dono di diversità.

La solennità della Pentecoste ci porta a vivere nuovamente il dono gratuito dello Spirito Santo, a vivere la nascita della Chiesa, l’inizio della nostra vita in Cristo. Una delle opere di Nicola Cabasilas, teologo bizantino del XIV secolo, porta precisamente come titolo La vita in Cristo e in essa l’autore non fa altro che un commento dei sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo, cresima ed eucaristia, ed anche della consacrazione dell’altare, applicati alla vita del credente; per ogni cristiano, la vita in Cristo è la vita nella Chiesa, la vita -il dono dello Spirito- che ci viene dato per mezzo dei sacramenti. In tutte le liturgie orientali si sottolinea, in ognuno dei sacramenti, il ruolo dello Spirito Santo e quindi l’importanza dell’epiclesi, della sua invocazione in vista alla santificazione del pane e del vino, dell’acqua, dell’olio... Ogni ora di preghiera, poi, nella tradizione bizantina, inizia con un’invocazione dello Spirito che è sempre presente, ed ovunque...

Infine, l’icona della Pentecoste è un’icona liturgica; gli apostoli sono radunati come nella celebrazione della liturgia, attorno al trono vuoto, preparato per Cristo. La presenza di Pietro e Paolo nell’icona indica la presenza di tutta la Chiesa radunata dallo Spirito. La Chiesa nasce in una situazione di profonda comunione tra gli apostoli, in un contesto di cui dovrebbe scaturirne anche la comunione per tutta la Chiesa, per tutto il mondo.

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico


lunedì 19 maggio 2025

 

Icona della Pentecoste
Cattedrale della Santissima Trinità. Atene



Lettera pastorale per la Pentecoste, maggio 2025

Chiamati ad essere uomini di comunione.

Il titolo che vi propongo per questa lettera pastorale: “Chiamati ad essere uomini di comunione”, nasce dalla rilettura di diversi testi dei Padri della Chiesa -Atanasio, Efrem, Giovanni Crisostomo-, in cui ci viene proposta la figura del vescovo, del sacerdote (e mi permetto di allungare la lista a tutti i cristiani), come uomini di comunione, uomini che nella Chiesa sanno creare, per dono e grazia del Signore stesso, la comunione all’interno del Corpo di Cristo a loro affidato. Parlando dei Padri, ricordiamo che sono stati nelle loro Chiese dei pastori, sacerdoti e vescovi (Efrem era diacono!), sono stati sempre, hanno cercato sempre di creare, non dico soltanto attorno a sé, ma anche e soprattutto nel gregge a loro affidato quella comunione, quella carità, quel amore che sgorga unicamente dal Vangelo del Signore.

A nove anni della mia ordinazione episcopale il 15 aprile 2016 e della mia intronizzazione ad Atene e l’inizio del mio ministero episcopale in Grecia il 14 maggio dello stesso anno, voglio, come ho fatto negli anni precedenti, scrivere alcune riflessioni ed offrirle ai nostri sacerdoti ed ai nostri fedeli, nella vicinanza della festa dell’Esarcato e della cattedrale della Santissima Trinità, la domenica ed il lunedì di Pentecoste, quest’anno i giorni 8 e 9 giugno.

Propongo quindi alla vostra riflessione, di vedere e di vivere il nostro essere cristiani e in modo speciale il nostro essere sacerdoti e vescovo come uomini di comunione, cioè chiamati a diventare sempre nel nostro essere, nel nostro agire, nel nostro parlare, uomini di comunione, uomini che creino nella Chiesa quella comunione che il Signore stesso ha voluto che ci fosse già tra i Dodici, tra i suoi più fedeli discepoli della prima ora. È un argomento, un aspetto, che mi veniva ripetutamente in mente durante la lettura del primo dei dodici Vangeli nell’orthros del Venerdì Santo, in quella lunga e bella liturgia celebrata nel pomeriggio di Giovedì. È una lunghissima pericope evangelica, la ricordiamo bene, che inizia con la lavanda dei piedi fatta dal Signore ai discepoli nel capitolo tredicesimo del vangelo di Giovanni: “…Gesù versò dell’acqua nel catino e incominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con il panno del quale si era cinto” (Gv 13,5), e finisce con la preghiera che il Signore fa al Padre nel capitolo diciassette dello stesso vangelo: “…che tutti siano uno come tu, Padre, in me ed io in te, affinché siano anch’essi in noi, e così il mondo creda che tu mi hai mandato…” (Gv 17,21). Il Signore si fa piccolo ai piedi dei discepoli affinché essi, tutti noi, vediamo che è nel servizio anche più umile dove nasce la comunione fraterna tra di noi.

Chiamati ad essere uomini di comunione”. Il Signore nelle Beatitudini annuncia: Beati coloro che “creano…, fanno… la pace…. (cf., Mt 5,9). A partire da questa frase del Vangelo, direi che il Signore stesso ci chiede specialmente a noi sacerdoti e vescovo di essere nella Chiesa “creatori di pace” e soprattutto “creatori di comunione, fattori di comunione”; il testo delle Beatitudini dice “μακάριοι ο ερηνοποιοί”, e facendo una parafrasi aggiungo: μακάριοι ο κοινοποιοί”. E chiediamoci noi tutti allora perché dobbiamo essere uomini di comunione? Cosa vorrà dire “essere uomini di comunione”. Non è una domanda astratta bensì mi sembra molto concreta. E la risposta diventa, è molto concreta: Perché viviamo in una Chiesa, il nostro Esarcato Apostolico, una Chiesa che tutti noi, vescovo, sacerdoti e fedeli, siamo chiamati ad amare come una sposa.  Ricordiamo come nella prima parte della Settimana Santa abbiamo celebrato Cristo come Sposo della Chiesa. Cristo Sposo, Chiesa Sposa. Un rapporto sponsale, le cui nozze avvengono dove? Ai piedi della croce.

Chiamati ad essere uomini di comunione”. San Giovanni Crisostomo, nel suo Dialogo sul sacerdozio, parlerà ripetutamente del legame sponsale del vescovo e dei sacerdoti (ed io mi permetto di aggiungere “dei fedeli”) con la propria Chiesa. Essere uomini di comunione vorrà dire in primo luogo “amare la Chiesa”. Amare la Chiesa come sposa come Cristo stesso l’ha amata e la ama. Il modello è sempre ed unicamente Cristo.

Amare la Chiesa a tre livelli o sotto tre aspetti fondamentali: nella sua storia; nei suoi santi; quindi nel suo vescovo, nei sacerdoti, nei fedeli, cioè in tutto il popolo di Dio che costituiamo la Chiesa.

Amare la Chiesa nella sua storia: in quei fatti che ci hanno segnato e ci segnano dall’origine della nostra storia, del nostro Esarcato. Una storia forse sofferta, non facile, forse delle volte non compresa e magari fraintesa, ma una storia che è la nostra, come comunità cattolica di tradizione bizantina in Grecia. Amare la nostra storia e soprattutto mai rinnegarla, anzi farla ben nostra. Dobbiamo esserne fieri di questa nostra storia, perché è una storia segnata e guidata dall’amore e dal perdono del Signore. Saremo uomini di comunione se amiamo la nostra storia, quel che siamo stati e quel che siamo.

Amare la Chiesa nei suoi santi. Lodate Dio nei suoi santi… cantiamo ogni giorno nel salmo 150. Amare tutte quelle persone che lungo la storia, lungo i cento anni della nostra storia hanno pregato, si sono santificati grazie ai sacramenti e alla carità nella nostra Chiesa. Santi che hanno “fatto” il nostro Esarcato. E poi amare tutte quelle persone -il vescovo, i sacerdoti e i fedeli (siano greci, ucraini, caldei, romeni…), che continuano a santificarsi, a cercare di essere e vivere da cristiani nel nostro Esarcato.

Amare il vescovo, i sacerdoti, il popolo. Il vescovo nella persona di quelli che ci hanno preceduti -non dobbiamo mai rinnegare la nostra storia-, e nella persona di quelli che oggi nella vita di ognuno di noi il Signore ha chiamato a questo servizio pastorale. Amare i sacerdoti per il loro servizio generoso alla Chiesa, nelle loro debolezze e nel loro darsi senza misura per servire il nostro Esarcato. Amare il popolo di Dio. Amare ed accogliere i fedeli, molti o pochi che essi siano, giovani o anziani, deboli, malati, di origine etniche diverse…, ma sempre popolo amato dal Signore e quindi chiamati ad amarlo. Chiamati ad essere uomini di comunione nell’amore, nel servizio, nel perdono, nella nostra Chiesa, nel nostro Esarcato. Anche in una realtà la nostra, come accennavo, etnicamente ogni giorno più diversa, etnie diverse, lingue, sensibilità diverse che delle volte sono o possono apparire come una croce, ma che sono soprattutto e così dobbiamo vederle e viverle, una ricchezza e un dono del Signore. Fatto certamente che spesso ci chiederà uno sforzo per essere appunto e sempre “creatori, fattori di comunione”. “μακάριοι ο κοινοποιοί”. Tornando ancora a san Giovanni Crisostomo, si tratterà sempre di un amore sponsale verso la propria Chiesa, una Chiesa concreta, non astratta, non “campata per aria”, ma fatta da volti e persone concrete. Amare la Chiesa come sposa di Cristo.

Chiamati ad essere uomini di comunione”. Questo vorrà dire per noi come Esarcato, come Chiesa di Cristo, forse delle rinunce ad essere soltanto “greci”, soltanto “ucraini”, soltanto “caldei”, ed accogliere il dono di essere veramente cattolici, aperti a non escludere mai gli altri e a non chiuderci mai nel nostro piccolo isolamento. Come ho accennato spesso, perché ne sono convinto dal primo giorno del mio episcopato in Grecia, nessuno in Esarcato deve essere considerato ospite e nessuno deve considerarsi tale. Altrimenti in questo ci andrebbe di mezzo il nostro essere Chiesa Cattolica. La comunità ucraina e la comunità caldea nell’Esarcato, come avevo indicato in lettere precedenti, fanno parte dell’Esarcato, non sono ecclesiologicamente parallele, ma dipendono dell’Esarca Apostolico come proprio ed unico vescovo.

Nei mesi di aprile e maggio la Chiesa Cattolica ha vissuto, tutti noi cristiani cattolici abbiamo vissuto, dei momenti importanti di vita ecclesiale. La scomparsa di Papa Francesco all’alba del Lunedì dell’Angelo, del Lunedì di Pasqua, ci ha fatto vivere questo momento nel contesto della luce di Pasqua. Il Signore ha chiamato il vescovo di Roma, il Papa, alla sua vita piena nella risurrezione di Cristo. Poi abbiamo vissuto le settimane di attesa e soprattutto di preghiera affinché il Signore, attraverso l’illuminazione e la grazia dello Spirito Santo, accompagnasse i cardinali elettori nella scelta di un nuovo vescovo di Roma. La gioia di quel pomeriggio 8 maggio è stata una grazia per tutti noi nell’ascoltare il nome di Leone XIV come nuovo vescovo di Roma e Papa. Per me è stata una grazia ed un incoraggiamento sentire dalla bocca di Papa Leone, quelle parole del grande sant’Agostino: “…con voi sono cristiano, per voi sono vescovo”. Sono parole di quel grande pastore e vescovo dell’inizio del V secolo che valgono per tutti noi. E me le applico ogni giorno a me stesso nel mio servizio come vescovo in questa nostra Chiesa che è l’Esarcato Apostolico: “…con voi sono cristiano”, con voi devo vivere ogni giorno il Vangelo del Signore, seguire le sue orme, vivere la parola esigente dell’amore verso tutti, amici e nemici, del perdono fino a settanta volte sette, della carità fatta ai bisognosi, fatta a Cristo stesso. E allo stesso tempo quel: “…per voi sono vescovo”, che diventa per me una chiamata esigente ad essere colui che su di voi veglia, colui che per voi ha accettato la carica in croce dell’episcopato, colui che dovrà, nella carità, dare ai preti ed ai fedeli una parola di consolazione e delle volte una parola di ammonizione, una parola saggia e una parola allo stesso tempo esigente. Questo è il caricare sulle proprie spalle la croce del ministero episcopale.

Chiamati ad essere uomini di comunione”. Questo era il punto di partenza della mia riflessione. Ed è anche il punto di arrivo. Nel nostro parlare, nel nostro agire, cerchiamo sempre di creare quella comunione che viene dal Signore che spogliò se stesso per lavare i piedi ai Dodici, per servire loro, farsi loro servo, per mostrare il cammino cristiano come un cammino di amore sponsale e diaconale verso tutti.

+P. Emmanuel Nin

Esarca Apostolico

 


ΠΟΙΜΑΝΤΙΚΗ ΕΠΙΣΤΟΛΗ ΓΙΑ ΤΗΝ ΠΕΝΤΗΚΟΣΤΗ ΜΑΙΟΣ 2025

Καλεσμένοι να είμαστε άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας.

Ο τίτλος που σας προτείνω στην ποιμαντική μου αυτή επιστολή: «Καλεσμένοι να είμαστε άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας», γεννιέται από το ξαναδιάβασμα διαφόρων κειμένων των Πατέρων της Εκκλησίας (Αθανασίου, Εφραίμ, Ιωάννου του Χρυσοστόμου), όπου μας προτείνεται η μορφή του επισκόπου, του ιερέα (παίρνω το θάρρος να προεκτείνω τον κατάλογο σε όλους τους χριστιανούς), ως ανθρώπων εκκλησιαστικής κοινωνίας, ως ανθρώπων οι οποίοι, μέσα στην Εκκλησία, ξέρουν να δημιουργούν από δώρο και χάρη του ίδιου του Κυρίου, την κοινωνία μέσα στο Σώμα του Χριστού, το οποίο έχει ανατεθεί σ’αυτούς. Μιλώντας για τους Πατέρες, ας θυμηθούμε ότι μέσα στις Εκκλησίες τους ήταν ποιμένες, ιερείς και επίσκοποι (ο Εφραίμ ήταν διάκονος!) υπήρξαν πάντοτε και προσπάθησαν πάντοτε να δημιουργήσουν, όχι μόνο γύρω τους, αλλά και προπάντων στο πνευματικό  ποίμνιο που είναι εμπιστευμένο σ’ αυτούς, την εκκλησιαστική εκείνη κοινωνία, την αγάπη εκείνη η οποία αναβλύζει από πού ; Από το Ευαγγέλιο του Κυρίου.

Εννέα χρόνια μετά την επισκοπική μου χειροτονία, στις 15 Απριλίου 2016 και της ενθρόνισής μου στην Αθήνα και το ξεκίνημα της επισκοπικής μου διακονίας στην Ελλάδα, στις 14 Μάιου του ίδιους έτους επιθυμώ όπως πέρυσι, να γράψω μερικές σκέψεις και να τις αφιερώσω στους ιερείς μας και στους πιστούς μας, ενώ πλησιάζουμε στην εορτή της Εξαρχίας μας και του καθεδρικού μας ναού, στην Κυριακή της Πεντηκοστής και στη Δευτέρα της Παναγίας Τριάδος, οι οποίες εφέτος συμπίπτουν στις 8 και 9 Ιουνίου.

Προτείνω λοιπόν στον στοχασμό σας, να δούμε και να ζήσουμε τη χριστιανική μας ταυτότητα, και με ιδιαίτερο τρόπο την ιερατική μας και την επισκοπική μου ταυτότητα, ως άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας, δηλαδή καλεσμένοι να γίνουμε όλο και περισσότερο στην ταυτότητά μας, στη δράση μας, στην ομιλία μας, άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας, άνθρωποι οι οποίοι μέσα στην Εκκλησία δημιουργούν την εκκλησιαστική εκείνη κοινωνία, την οποία ο ίδιος ο Κύριος θέλησε να χαρακτηρίζει τους Δώδεκα, και όλους τους μαθητές του, από την πρώτη ώρα. Είναι ένα θέμα, μία άποψη, που μου ερχόταν ακατάπαυστα στη σκέψη, κατά την ανάγνωση του πρώτου από τα δώδεκα Ευαγγέλια, στο όρθρο της Μεγάλης Παρασκευής, στην μακρά και ωραία ιεροτελεστία, το βράδυ της Μεγάλης Πέμπτης. Είναι μία πολύ μεγάλη ευαγγελική περικοπή, την οποία δεν την λησμονούμε, και η οποία αρχίζει με το πλύσιμο των ποδιών των μαθητών από τον Κύριό τους. Στο δέκατο τρίτο κεφάλαιο του κατά Ιωάννη ευαγγελίου: «Ο Ιησούς βάζει νερό στη λεκάνη και αρχίζει να πλένει τα πόδια των μαθητών. Πλένει τα πόδια των μαθητών, και τα σκουπίζει με την πετσέτα που είχε ζωστεί». (Ιω.13, 5) και τελειώνει με την προσευχή την οποία ο Κύριος υψώνει προς τον Πατέρα του, στο δέκατο έβδομο κεφάλαιο του ίδιου ευαγγελίου: «….ώστε να είναι όλοι ένα, όπως εσύ, Πατέρα, είσαι ενωμένος μ’ εμένα και εγώ μ’ εσένα. Να είναι και αυτοί ενωμένοι μ’ εμάς, και έτσι ο κόσμος να πιστέψει ότι μ’ έστειλες εσύ…»  (Ιω.17, 21) Ο Κύριος γίνεται μικρός στα πόδια των μαθητών του, ώστε αυτοί, όλοι εμείς, δηλαδή να δούμε ότι στην εξυπηρέτηση των άλλων, ακόμα και την πιο ταπεινή γεννιέται η αδελφική κοινωνία μεταξύ μας.

«Καλεσμένοι να είμαστε άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας». Ο Κύριος στου Μακαρισμούς του αναγγέλλει: «Μακάριοι όσοι δημιουργούν την ειρήνη…» (Ματθ.5, 9). Ξεκινώντας από αυτήν τη φράση του Ευαγγελίου, θα έλεγα ότι ο ίδιος ο Κύριος ζητά, από εμάς, ιδιαίτερα από εμάς τους ιερείς και τον επίσκοπο, να είμαστε μέσα στην Εκκλησία «δημιουργοί ειρήνης», και προπάντων «δημιουργοί και εργάτες αυτής της εκκλησιαστικής κοινωνίας». Το κείμενο των Μακαρισμών λέει «μακάριοι οι ειρηνοποιοί», παραφράζοντας αυτήν τη φράση, προσθέτω: μακάριοι οι κοινωνιοποιοί». Επομένως όλοι εμείς αναρωτιόμαστε γιατί πρέπει να είμαστε άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας; Τι θέλει να πει η έκφραση «να είμαστε άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας;» Δεν είναι μία ερώτηση αφηρημένη, αντίθετα μου φαίνεται πολύ συγκεκριμένη. Και η απάντηση είναι και αυτή πολύ συγκεκριμένη. Γιατί ζούμε σε μία Εκκλησία, την Αποστολικής μας Εξαρχία, μία Εκκλησία την οποία όλοι εμείς, επίσκοπος, ιερείς και πιστοί, καλούμαστε να αγαπούμε σαν νύφη μας. Ας θυμηθούμε πως κατά τις πρώτες μέρες της Μεγάλης Εβδομάδας δοξάσαμε τον Χριστό ως Νυμφίο της Εκκλησίας. Ο Χριστός  είναι ο Νυμφίος, η Εκκλησία είναι η Νύφη. Πρόκειται για ένα συζυγικό δεσμό, του οποίου οι γάμοι τελούνται πότε; Στα πόδια του τίμιου σταυρού.

«Καλεσμένοι να είμαστε άνθρωποι, εκκλησιαστικής κοινωνίας». Ό Άγιος Ιωάννης Χρυσόστομος στον Διάλογό του «περί ιεροσύνης», μιλά πολλές φορές για τον συζυγικό σύνδεσμο του επισκόπου και των ιερέων (και εγώ τολμώ να προσθέσω «και των πιστών»), με την Εκκλησία τους. Να είμαστε άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας σημαίνει πάνω απ’ όλα «να αγαπάμε την Εκκλησία» Να αγαπάμε την Εκκλησία σαν νύφη, όπως ο ίδιος ο Χριστός την αγάπησε και την αγαπά. Το πρότυπο της αγάπης  είναι πάντοτε και αποκλειστικά ο Χριστός.

Πρέπει να αγαπούμε την Εκκλησία σε τρία επίπεδα ή κάτω από τρείς θεμελιώδεις απόψεις: στην ιστορία της, στους αγίους της, και στη συνέχεια στον επίσκοπό της, στους ιερείς της, στους πιστούς της, δηλαδή σε όλο το λαό του Θεού, όλους εμάς που αποτελούμε την Εκκλησία.

Να αγαπούμε την Εκκλησία στην ιστορία της: στα γεγονότα εκείνα τα οποία χαρακτήρισαν και χαρακτηρίζουν την ιστορία μας, από την αρχή της Εξαρχίας μας. Πρόκειται για μία ιστορία ίσως πονεμένη, όχι εύκολη, ίσως μερικές φορές παρεξηγημένη, χωρίς κατανόηση, αλλά μία ιστορία που είναι η δικιά μας ιστορία, ως καθολική κοινότητα βυζαντινής παραδόσεως στην Ελλάδα. Να αγαπάμε την ιστορία μας και προπάντων ποτέ να μην την αρνούμαστε αλλά να την αναγνωρίζουμε ως πραγματικά δικιά μας. Οφείλουμε να είμαστε περήφανοι γι αυτήν γιατί είναι ιστορία χαρακτηρισμένη και οδηγημένη από την αγάπη και από τη συγνώμη του Κυρίου. Θα είμαστε άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας αν αγαπάμε, την ιστορία μας, αυτό που υπήρξαμε και αυτό που είμαστε.

Να αγαπάμε την Εκκλησία στους αγίους της. «Αινείτε τον Θεό στους αγίους του…» ψέλνουμε κάθε μέρα, στον ψαλμό 150. Να αγαπάμε όλα τα πρόσωπα εκείνα, τα οποία στο πέρασμα της ιστορίας μας, κατά τη διάρκεια εκατό χρόνων προσευχήθηκαν, αγιάσθηκαν χάρη στα ιερά μυστήρια και στην αγάπη της Εκκλησίας μας. Ήταν άγιοι οι οποίοι «έκαναν» την Εξαρχία μας. Έπειτα να αγαπάμε όλα εκείνα τα πρόσωπα (τον επίσκοπο, τους ιερείς και τους πιστούς, Έλληνες, Ουκρανούς, Χαλδαίους, Ρουμάνους…) τα οποία συνεχίζουν να αγιάζονται, και προσπαθούν να είναι και να ζουν ως χριστιανοί της Εξαρχίας μας.

Να αγαπάμε τον Επίσκοπο, τους ιερείς, τον λαό. Τον Επίσκοπο στο πρόσωπο εκείνων που προηγήθηκαν (δεν πρέπει ποτέ να αρνούμαστε την ιστορία μας), και στο πρόσωπο εκείνων οι οποίοι στη ζωή του καθενός μας, ο Κύριος κάλεσε στην ποιμαντική αυτή διακονία. Να αγαπάμε τους ιερείς για τη γενναιόδωρη υπηρεσία τους στην Εκκλησία παρά τις αδυναμίες τους, με την ολόθερμη προσφορά τους στην εξυπηρέτηση της Εξαρχίας μας. Να αγαπάμε το λαό του Θεού. Να αγαπάμε και να εξυπηρετούμε τους πιστούς μας, είτε πολλοί είτε λίγοι είναι αυτοί, νέοι ή γέροντες, αδύνατοι, ασθενείς διαφόρων εθνικοτήτων… Πρόκειται πάντα για ένα λαό αγαπημένο από τον Κύριο, και επομένως και εμείς είμαστε καλεσμένοι να τον αγαπάμε. Είμαστε καλεσμένοι να είμαστε άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας, στην εξυπηρέτηση, στη συγνώμη, μέσα στην Εκκλησία μας, μέσα στην Εξαρχία μας. Η δική μας πραγματικότητα, όπως ανέφερα ήδη εθνολογικά είναι καθημερινά περισσότερο διαφορετική, με διάφορες εθνικότητες, γλώσσες, ευαισθησίες, οι οποίες μερικές φορές είναι ή μπορεί να φαίνονται σαν ένας σταυρός αλλά αυτές είναι προπάντων, και έτσι πρέπει να τις βλέπουμε και να τις ζούμε, ένας πλούτος ένα δώρο του Κυρίου. Το γεγονός αυτό ασφαλώς και συχνά θα απαιτήσει από εμάς μία ιδιαίτερη προσπάθεια, για να είμαστε ακριβώς και πάντοτε «δημιουργοί και οικοδόμοι της εκκλησιαστικής κοινωνίας», «μακάριοι οι κοινωνιοποιοί».

Επανερχόμενοι στον Άγιο Ιωάννη Χρυσόστομο, θα μιλήσουμε πάλι για μία συζυγική αγάπη προς τη δική μας Εκκλησία, μία εκκλησία συγκεκριμένη, όχι αφηρημένη, όχι από αέρα αλλά αποτελούμενη από μορφές και πρόσωπα συγκεκριμένα. Να αγαπάμε την Εκκλησία ως Νύφη του Χριστού. Αυτή η αγάπη για την Εκκλησία από την οποία αναβλύζει ως επακόλουθο το να είμαστε «….άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας….

«Καλεσμένοι να είμαστε άνθρωποι της κοινωνίας». Αυτό θα σημαίνει για εμάς ως Εξαρχία, ως Εκκλησία του Χριστού, ίσως να αποκηρύξουμε το να είμαστε μόνο «Έλληνες», μόνο «Ουκρανοί», μόνο «Χαλδαίοι» και να καλωσορίσουμε το δώρο του να είμαστε πραγματικά Καθολικοί, ανοιχτοί στο να μην αποκλείουμε ποτέ τους άλλους και να μην κλειστούμε ποτέ στη δική μας μικρή απομόνωση. Όπως έχω αναφέρει πολλές φορές, επειδή έχω πειστεί γι' αυτό από την πρώτη ημέρα της επισκοπής μου στην Ελλάδα, κανείς στην Εξαρχία δεν πρέπει να θεωρείται φιλοξενούμενος και κανείς δεν πρέπει να θεωρείται ως τέτοιος. Διαφορετικά, η ύπαρξή μας ως Καθολική Εκκλησία θα διακυβευόταν σε αυτό. Η Ουκρανική και η χαλδαϊκή κοινότητα της Εξαρχίας όπως υπέδειξα σε προηγούμενες επιστολές μου, αποτελούν μέρος της Εξαρχίας, δεν είναι παράλληλες εκκλησιαστικές κοινότητες, αλλά εξαρτώνται από τον Αποστολικό Έξαρχο και οι δεσμεύσεις τους, ως δικός του και μοναδικός επίσκοπος.

Κατά τους μήνες Απρίλιο και Μάιο, η Καθολική Εκκλησία έζησε, όλοι εμείς οι Καθολικοί Χριστιανοί, σημαντικές στιγμές στην εκκλησιαστική ζωή. Ο θάνατος του Πάπα Φραγκίσκου τα ξημερώματα της Δευτέρας του Πάσχα, μας έκανε να ζήσουμε αυτή τη στιγμή στο πλαίσιο του φωτός του Πάσχα. Ο Κύριος κάλεσε τον Επίσκοπο της Ρώμης, τον Πάπα, στην πλήρη ζωή του στην ανάσταση του Χριστού.

Στη συνέχεια ζήσαμε τις εβδομάδες της αναμονής και πάνω απ' όλα της προσευχής ότι ο Κύριος, μέσω του φωτισμού και της χάρης του Αγίου Πνεύματος, θα συνόδευε τους καρδινάλιους εκλέκτορες στην επιλογή ενός νέου επισκόπου της Ρώμης. Η χαρά εκείνου του απογεύματος, 8 Μαΐου, ήταν μια χάρη για όλους μας στο άκουσμα του ονόματος του Λέοντα XIV ως νέου Επισκόπου Ρώμης και Πάπα.

Για μένα ήταν χάρη και ενθάρρυνση να ακούσω από το στόμα του Πάπα Λέοντα, αυτά τα λόγια του μεγάλου Αγίου Αυγουστίνου: «...μαζί σας είμαι χριστιανός, για όλους εσάς είμαι επίσκοπος». Αυτά είναι τα λόγια αυτού του μεγάλου ποιμένα και επισκόπου των αρχών του πέμπτου αιώνα που ισχύουν για όλους μας. Και τα εφαρμόζω στον εαυτό μου κάθε μέρα στην υπηρεσία μου ως επίσκοπος σε αυτή την Εκκλησία μας που είναι η Αποστολική Εξαρχία: «...μαζί σας είμαι χριστιανός», μαζί σας πρέπει να ζω το Ευαγγέλιο του Κυρίου κάθε μέρα, να ακολουθώ τα βήματά του, να ζω τον απαιτητικό λόγο της αγάπης για όλους, φίλους και εχθρούς, της συγχώρεσης μέχρι εβδομήντα φορές επτά, της φιλανθρωπίας που γίνεται στους άπορους, που γίνεται στον ίδιο τον Χριστό. Και την ίδια στιγμή ότι: «... για όλους εσάς είμαι επίσκοπος», που γίνεται για μένα ένα απαιτητικό κάλεσμα να είμαι αυτός που σε προσέχει, αυτός που για σένα έχει δεχτεί το αξίωμα της επισκοπής στο σταυρό, αυτός που πρέπει, με φιλανθρωπία, να δώσει στους ιερείς και τους πιστούς έναν λόγο παρηγοριάς και μερικές φορές έναν λόγο νουθεσίας, έναν σοφό λόγο και έναν λόγο ταυτόχρονα απαιτητικό. Αυτή θα είναι η μεταφορά του σταυρού της επισκοπικής διακονίας στους ώμους κάποιου.

«Καλεσμένοι  να είμαστε άνθρωποι εκκλησιαστικής κοινωνίας». Αυτό ήταν το ξεκίνημα του πνευματικού μας στοχασμού. Αυτό είναι και το τέρμα μας. Στην ομιλία μας, στη δράση μας, ας προσπαθούμε πάντοτε να δημιουργούμε την εκκλησιαστική εκείνη κοινωνία, η οποία μας έρχεται από τον Κύριο. Από τον Κύριο ο οποίος ταπείνωσε τον εαυτό του μέχρι να πλύνει τα πόδια των Δώδεκα, για να τους υπηρετήσει να γίνει υπηρέτης τους, να δείξει σ’ αυτούς τη χριστιανική πορεία, ως πορεία συζυγικής και διακονικής αγάπης προς όλους.

+π. Εμμανουήλ Νιν

Αποστολικός Έξαρχος




martedì 13 maggio 2025

 

Abside della cappella del Pontificio Collegio Greco

P. Michel Berger


La componente orientale nella liturgia di inizio pontificato del vescovo di Roma.

          La liturgia di inizio di pontificato del vescovo di Roma ha una componente orientale. Con questa espressione “componente orientale” oppure “aspetti orientali” si fa riferimento alla presenza di parti della liturgia romana, epistola o vangelo, cantati in lingua greca, ed anche alla tradizione plurisecolare della partecipazione del Pontificio Collegio Greco di Roma nelle liturgie celebrate dal vescovo di Roma. Questa tradizione, risalente alla fine del XVI secolo, mette in luce da una parte l’origine greca in quanto alla lingua della stessa liturgia romana, e dall’altra parte la dimensione veramente cattolica di questa Chiesa e del ministero del suo vescovo.

          Le parti orientali di tradizione bizantine nella liturgia di inizio di pontificato del vescovo di Roma, si trovano nella liturgia della Parola. Nella processione iniziale il diacono greco apre il corteo dei concelebranti, portando innalzato l’evangeliario che viene collocato sull’altare. Dopo i riti iniziali, avviandosi alla proclamazione del vangelo, il diacono greco riceve la benedizione del Santo Padre prima di prendere l’evangeliario dall’altare. Dopo il canto dell’alleluia e la proclamazione della pericope evangelica anche in lingua latina da parte di un diacono latino, il diacono greco, con le formule della Divina Liturgia Bizantina, invita l’assemblea all’ascolto sapiente del vangelo nell’acclamazione in lingua greca: “Sapienza. In piedi ascoltiamo il Santo Vangelo”, e il Santo Padre benedice l’assemblea con la formula: “Pace a tutti”. E l’assemblea risponde: “E col tuo spirito”. Il diacono prosegue con l’annuncio della lettura del vangelo: “Lettura del Santo Vangelo secondo…”. E quindi la risposta dossologica dell’assemblea: “Gloria a Te, Signore, gloria a Te”. Alla fine del vangelo, di nuovo si canta la risposta dossologica dell’assemblea: “Gloria a Te, Signore, gloria a Te”. L’evangeliario viene riportato al Santo Padre, e con esso benedice l’assemblea, mentre il coro canta l’acclamazione: “Per molti anni, Signore!”, che è l’acclamazione che nella liturgia bizantina presieduta dal vescovo il coro canta dopo la processione con l’evangeliario nel piccolo ingresso, dopo la proclamazione del vangelo, dopo la processione con i doni nel grande ingresso e dopo la comunione.

          La tradizione della partecipazione del Pontificio Collegio Greco alle celebrazioni liturgiche più importanti del Papa rissale al pontificato di papa Sisto V (1585-1590), che concesse al Collegio Greco il privilegio di cantare in greco l’epistola e il vangelo nelle messe papali solenni. L’uso, però, della presenza di ambedue le lingue liturgiche, latino e greco, nella liturgia del vescovo di Roma risale alla fine del VII ed inizio dell’VIII secolo, quando si succedettero a Roma diversi papi di origine orientale; infatti le persecuzioni iconoclaste e quelle dei califfi abbasidi in Oriente portarono all’esilio in Occidente molti orientali che parlavano greco. Anastasio il Bibliotecario, che visse nel IX secolo racconta che papa Benedetto III (855-858), benché romano di origine, ebbe cura di preparare un codice dove furono trascritte, in greco e latino, le profezie che, nel rito romano, venivano lette il Sabato Santo ed il Sabato prima di Pentecoste. Dall’Ordo Romanus I, ripreso poi dall’Ordo Romanus X, scritto nell’XI secolo, sappiamo che si leggeva la profezia in latino e, di seguito, se il Papa lo avesse considerato opportuno, essa sarebbe stata ripetuta in greco. Nel concilio di Pisa del 1409, nella celebrazione dell’incoronazione di Papa Alessandro V, latino di rito ma nato a Creta, l’epistola ed il vangelo furono cantati in latino, greco ed ebraico. Durante l’incoronazione di papa Nicolò V nel 1447, un cardinale cantò il vangelo in latino, mentre che un archimandrita basiliano lo cantò in greco.

Papa Sisto V nel 1586 fecce sopprimere gli uffici di diacono e suddiacono greco e li fecce trasferire agli studenti del Collegio Greco. Con questo fatto il papa dava un segno di stima verso il Collegio Greco. I titoli di diacono e suddiacono greci rimasero quindi legati al Collegio Greco, e fu fino al 1870 che, nei giorni di celebrazioni papali in cui diacono e suddiacono erano presenti, una carrozza del palazzo Apostolico veniva a prelevarli in Collegio.

          Nel 1724 papa Benedetto XIII riprese l’uso antico della lettura in greco, da parte di un alunno del Collegio Greco, della prima delle profezie del Sabato Santo e, alternativamente in latino e greco, la prima di quelle del sabato prima della Pentecoste; lo stesso papa vuole che i ministri greci celebrassero con i propri paramenti e non con quelli latini. Ancora nel Venerdì Santo del 1725 lo stesso Benedetto XIII fece leggere in greco l’apostolo ed il vangelo del giorno.

          A partire del 1896, con l’arrivo dei benedettini nel Collegio Greco sotto papa Leone XIII, viene ripresa normalmente la presenza di due seminaristi del Collegio nelle celebrazioni papali solenni. La prassi lungo il XX secolo e quindi quella anche attuale per quanto riguarda la partecipazione del Pontificio Collegio Greco alle celebrazioni papali solenni è quella del canto dell’epistola e del vangelo in lingua greca nella liturgia In coena Domini del Giovedì Santo, ed il canto del vangelo in greco nelle canonizzazioni ed in alcune liturgie particolarmente solenni, nonché nella liturgia di funerale del Sommo Pontefice, in cui viene cantato anche un Trisaghion bizantino in lingua greca; quindi nella liturgia di inizio di pontificato del vescovo di Roma.

          Accenno anche a due celebrazioni speciali avvenute negli anni 1908 e 1925 a cui il Collegio Greco partecipò in maniera diretta. Il giorno 12 febbraio 1908 si celebrò, nell’aula «delle benedizioni» alla presenza del Santo Padre Pio X, la Cappella Papale per la celebrazione del XV centenario della morte di san Giovanni Crisostomo; la liturgia fu celebrata dal Patriarca greco melchita di Antiochia Cirillo VIII Geha, con il coro e i ministri del Pontificio Collegio Greco di Roma. Nell’introduzione all’apposito libretto pubblicato in quell’occasione, si indica che nella suddetta aula, non essendoci un altare “isolato”, cioè, staccato dal muro, che permettesse di essere girato nelle diverse processioni ed incensazioni della Divina Liturgia Bizantina, fu collocato un altro altare “isolato” e, di fronte ad esso, due leggii con due icone di Cristo e della Madre di Dio; accanto ad esse fu collocato un terzo leggio con l’icona di san Giovanni Crisostomo. È interessante di notare che nell’introduzione al libretto liturgico citato, viene ancora indicata questa annotazione: “dagli officianti si osserverà integralmente il rito greco… Il Sommo Pontefice, capo supremo di tutti i riti, opererà nel medesimo tempo anche quale Presidente dell’assemblea liturgica greca, al quale sono rimessi e riservati i principali atti di onore e di giurisdizione… Egli adopererà la lingua liturgica greca…”. Il testo della Divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo utilizzato in quella occasione fu quello preparato nel 1907 da uno dei professori residenti nel Pontificio Collegio Greco, P. Placido De Meester osb.

          La seconda celebrazione a cui vorrei fare accenno è quella tenutasi il giorno 15 novembre 1925 in occasione del XVI centenario del concilio di Nicea del 325. Anche in questa occasione la liturgia fu presieduta dal papa, sua Santità Pio XI, e come celebrante principale fu invitato anche questa volta il patriarca greco melchita di Antiochia Dimitrios Cadi; costui, però, morì improvvisamente il 26 ottobre a Damasco, e fu sostituito dal metropolita greco cattolico romeno di Fagaras Basilio Suciu. La liturgia fu celebrata nella basilica di San Pietro; come nella precedente celebrazione del 1908, fu collocato, davanti all’altare della confessione, un altare “isolato” con dei leggii a modo di iconostasi. In ambedue le celebrazioni citate viene indicata nell’introduzione agli appositi libretti, che la celebrazione della liturgia greca fu “integrale”, cioè senza aggiunte né mescolanze con la tradizione liturgica romana. Il Papa –Pio X e Pio XI rispettivamente nella prima e nella seconda delle celebrazioni- presiedeva da un trono / cattedra collocato a sinistra di chi guardava l’altare. Era rivestito coi propri paramenti, coperto con la tiara, e impartiva le benedizioni in lingua greca lungo la celebrazione della Divina Liturgia.

All’inizio parlavamo della componente orientale della liturgia di inizio pontificato di Papa Leone XIV. La presenza delle diverse lingue, soprattutto quella latina e quella greca, evidenzia la componente veramente cattolica della celebrazione liturgica

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico

Grecia


Το Ανατολικό Συστατικό στη Λειτουργία της Έναρξης της Διακονιας του Επισκόπου Ρώμης Η λειτουργία της έναρξης του παπικού αξιώματος του επισκόπου της Ρώμης έχει μια ανατολική συνιστώσα. Με την έκφραση «ανατολική συνιστώσα» ή «ανατολικά στοιχεία» αναφερόμαστε στην παρουσία τμημάτων της ρωμαϊκής λειτουργίας, όπως το Αποστολο ή το Ευαγγέλιο, που ψάλλονται στην ελληνική γλώσσα, καθώς και στην πολύχρονη παράδοση της συμμετοχής του Παπικού Ελληνικού Κολλεγίου της Ρώμης στις λειτουργίες που τελούνται από τον επίσκοπο της Ρώμης. Η παράδοση αυτή, που χρονολογείται από τα τέλη του 16ου αιώνα, αναδεικνύει αφενός την ελληνική προέλευση της γλώσσας της ίδιας της ρωμαϊκής λειτουργίας και αφετέρου τη γνήσια καθολική διάσταση αυτής της Εκκλησίας και της διακονίας του επισκόπου της. Τα ανατολικά στοιχεία βυζαντινής παραδόσεως στη λειτουργία έναρξης του παπικού αξιώματος του επισκόπου της Ρώμης βρίσκονται στη λεγόμενη Λειτουργία του Λόγου. Στην αρχική πομπή, ο Έλληνας διάκονος ανοίγει την πομπή των συλλειτουργούντων φέροντας υψωμένο το ευαγγέλιο, το οποίο τοποθετείται στην Αγία Τράπεζα. Μετά τις αρχικές τελετές, πριν την έναρξη της αναγγελίας του Ευαγγελίου, ο Έλληνας διάκονος λαμβάνει την ευλογία του Πάπα πριν πάρει το ευαγγέλιο από την Αγία Τράπεζα. Μετά το ψάλσιμο του «Αλληλούια» και την αναγγελία της ευαγγελικής περικοπής στα λατινικά από έναν λατίνο διάκονο, ο Έλληνας διάκονος, με τους τύπους της Θείας Λειτουργίας της Βυζαντινής παράδοσης, καλεί τη σύναξη να ακούσει με σοφία το Ευαγγέλιο με την αναφώνηση στα ελληνικά: «Σοφία. Ορθοί, ακούσωμεν του Αγίου  Ευαγγελίου» και ο Πάπας ευλογεί τη σύναξη με τη φράση: «Ειρήνη πάσι». Η σύναξη απαντά: «Και τω πνεύματί σου». Ο διάκονος συνεχίζει με την αναγγελία της ανάγνωσης του Ευαγγελίου: «Το ανάγνωσμα του Αγίου Ευαγγελίου κατά…». Και έπειτα η δοξολογική απάντηση της σύναξης: «Δόξα σοι, Κύριε, δόξα σοι». Στο τέλος του Ευαγγελίου, επαναλαμβάνεται η ίδια απάντηση. Το Ευαγγέλιο επιστρέφεται στον Πάπα, ο οποίος ευλογεί με αυτό τη σύναξη, ενώ ο χορός ψάλλει την αναφώνηση: «Εις πολλά έτη, Δέσποτα!», η οποία είναι η αναφώνηση που στη βυζαντινή λειτουργία υπό την προεδρία επισκόπου ψάλλεται μετά την πομπή με το ευαγγέλιο στην Μικρή Είσοδο, μετά την αναγγελία του Ευαγγελίου, μετά την πομπή με τα τίμια δώρα στη Μεγάλη Είσοδο και μετά τη Θεία Κοινωνία. Η παράδοση της συμμετοχής του Παπικού Ελληνικού Κολλεγίου στις σημαντικότερες λειτουργικές τελετές του Πάπα ξεκινά από την εποχή του πάπα Σίξτου Ε΄ (1585–1590), ο οποίος παραχώρησε στο Ελληνικό Κολλέγιο το προνόμιο να ψάλλει το Αποστολο και το Ευαγγέλιο στα ελληνικά κατά τις επίσημες παπικές λειτουργίες. Η χρήση, ωστόσο, της παρουσίας και των δύο λειτουργικών γλωσσών, της λατινικής και της ελληνικής, στη λειτουργία του επισκόπου Ρώμης χρονολογείται από τα τέλη του 7ου και τις αρχές του 8ου αιώνα, όταν διαδοχικά πάπες με ανατολική καταγωγή ανέλαβαν τη Ρωμαϊκή Έδρα. Στην πραγματικότητα, οι εικονομαχικοί διωγμοί και εκείνοι των Αββασιδών χαλίφηδων στην Ανατολή οδήγησαν πολλούς Ανατολίτες που μιλούσαν ελληνικά στην εξορία στη Δύση. Ο Αναστάσιος ο Βιβλιοθηκάριος, που έζησε τον 9ο αιώνα, διηγείται ότι ο πάπας Βενέδικτος Γ΄ (855–858), αν και Ρωμαίος στην καταγωγή, φρόντισε να προετοιμάσει έναν κώδικα όπου μεταγράφηκαν στα ελληνικά και λατινικά οι προφητείες που διαβάζονταν στο ρωμαϊκό τελετουργικό το Μεγάλο Σάββατο και το Σάββατο πριν από την Πεντηκοστή. Από το Ordo Romanus I, και αργότερα το Ordo Romanus X του 11ου αιώνα, γνωρίζουμε ότι η προφητεία διαβαζόταν πρώτα στα λατινικά και, αν το έκρινε σκόπιμο ο Πάπας, επαναλαμβανόταν στα ελληνικά. Στην σύνοδο της Πίζας το 1409, κατά τη διάρκεια της στέψης του Πάπα Αλεξάνδρου Ε΄, ο οποίος ήταν λατινικού δόγματος αλλά γεννημένος στην Κρήτη, το Αποστολο και το Ευαγγέλιο ψάλλονταν στα λατινικά, ελληνικά και εβραϊκά. Κατά τη στέψη του Πάπα Νικολάου Ε΄ το 1447, ένας καρδινάλιος έψαλε το ευαγγέλιο στα λατινικά, ενώ ένας αρχιμανδρίτης του Τάγματος του Αγίου Βασιλείου το ψάλλει στα ελληνικά. Ο Πάπας Σίξτος Ε΄ το 1586 κατάργησε τα αξιώματα οφφικια του Έλληνα διακόνου και υποδιακόνου και τα μετέφερε στους φοιτητές του Ελληνικού Κολλεγίου. Με την ενέργεια αυτή, ο Πάπας εξέφραζε την εκτίμησή του προς το Ελληνικό Κολλέγιο. Οι τίτλοι αυτοί παρέμειναν συνδεδεμένοι με το Κολλέγιο έως το 1870, και σε κάθε παπική τελετή που παρευρίσκονταν διάκονος και υποδιάκονος, άμαξα του Αποστολικού Παλατιού ερχόταν να τους παραλάβει από το Κολλέγιο. Το 1724, ο Πάπας Βενέδικτος ΙΓ΄ επανέφερε την αρχαία πρακτική να διαβάζεται η πρώτη από τις προφητείες του Μεγάλου Σαββάτου στα ελληνικά από μαθητή του Ελληνικού Κολλεγίου, και εναλλάξ σε λατινικά και ελληνικά, η πρώτη προφητεία του Σαββάτου πριν από την Πεντηκοστή. Ο ίδιος Πάπας επιθυμούσε επίσης οι Έλληνες λειτουργοί να τελούν τις τελετές με τα δικά τους άμφια και όχι με λατινικά. Τη Μεγάλη Παρασκευή του 1725, ο ίδιος Πάπας διέταξε να διαβαστούν στα ελληνικά τόσο η αποστολική επιστολή όσο και το ευαγγέλιο της ημέρας. Από το 1896, με την άφιξη των Βενεδικτίνων μοναχών στο Ελληνικό Κολλέγιο υπό τον Πάπα Λέοντα ΙΓ΄, η παρουσία δύο ιεροσπουδαστών από το Κολλέγιο σε επίσημους παπικούς εορτασμούς επανήλθε ως κανονική πρακτική. Η πρακτική αυτή συνεχίστηκε καθ’ όλο τον 20ό αιώνα και ισχύει μέχρι σήμερα. Η συμμετοχή του Παπικού Ελληνικού Κολλεγίου στις επίσημες παπικές τελετές εκδηλώνεται με την ψαλμωδία του Αποστολου και του Ευαγγελίου στα ελληνικά κατά τη λειτουργία της Μεγάλης Πέμπτης (In Coena Domini), και την ψαλμωδία του ευαγγελίου στα ελληνικά στις τελετές αγιοκατάταξης και σε άλλες ιδιαίτερα επίσημες λειτουργίες, καθώς και στην κηδεία του Ποντίφηκα, όπου ψάλλεται επίσης το βυζαντινό Τρισάγιο στα ελληνικά· και φυσικά, στη λειτουργία της έναρξης της θητείας του επισκόπου Ρώμης. Αναφέρω επίσης δύο ξεχωριστές εορταστικές εκδηλώσεις που έλαβαν χώρα τα έτη 1908 και 1925 στις οποίες συμμετείχε άμεσα το Ελληνικό Κολλέγιο. Στις 12 Φεβρουαρίου 1908 τελέστηκε στην αίθουσα των «Ευλογιών», παρουσία του Πάπα Πίου Ι΄, Παπική Λειτουργία για τον εορτασμό της 15ης εκατονταετηρίδας από την κοίμηση του αγίου Ιωάννου του Χρυσοστόμου. Η λειτουργία τελέστηκε από τον Έλληνα Μελχίτη Πατριάρχη Αντιοχείας Κύριλλο Η΄ Geha, με τη χορωδία και τους λειτουργούς του Παπικού Ελληνικού Κολλεγίου της Ρώμης. Στην εισαγωγή του ειδικού φυλλαδίου που εκδόθηκε με την ευκαιρία αυτή, αναφέρεται ότι στην προαναφερθείσα αίθουσα, επειδή δεν υπήρχε ελεύθερη Αγία Τράπεζα –δηλαδή αποσπασμένη από τον τοίχο– για να επιτρέπονται οι διελεύσεις και οι θυμιατισμοί της Θείας Λειτουργίας κατά το βυζαντινό τυπικό, τοποθετήθηκε ειδική ελεύθερη Τράπεζα. Μπροστά της τοποθετήθηκαν δύο αναλόγια με εικόνες του Χριστού και της Θεοτόκου, και ένα τρίτο με εικόνα του αγίου Ιωάννη του Χρυσοστόμου. Σημαντική είναι η παρατήρηση στην εισαγωγή του εντύπου, όπου σημειώνεται: «Οι λειτουργοί θα τηρήσουν εξολοκλήρου το ελληνικό τυπικό… Ο Πάπας, ως υπέρτατος ηγέτης όλων των τελετουργιών, θα ενεργεί ταυτόχρονα και ως πρόεδρος της ελληνικής λειτουργικής συνάξεως, στον οποίο ανήκουν και παραμένουν οι κύριες πράξεις τιμής και δικαιοδοσίας… Θα χρησιμοποιεί την ελληνική λειτουργική γλώσσα…». Το λειτουργικό κείμενο που χρησιμοποιήθηκε ήταν η Θεία Λειτουργία του αγίου Ιωάννη του Χρυσοστόμου, όπως είχε εκδοθεί το 1907 από τον πατέρα Πλακίδο De Meester, μοναχό του Τάγματος των Βενεδικτίνων και καθηγητή στο Ελληνικό Κολλέγιο. Ο δεύτερος εορτασμός που θα ήθελα να αναφέρων πραγματοποιήθηκε στις 15 Νοεμβρίου 1925, με αφορμή την 16η εκατονταετηρίδα από τη σύγκληση της Α΄ Οικουμενικής Συνόδου της Νίκαιας το 325. Και πάλι η λειτουργία τελέστηκε υπό την προεδρία του Πάπα, του Αγίου Πατέρα Πίου ΙΑ΄, και προσκλήθηκε ως κύριος τελετάρχης ο πατριάρχης των Ελλήνων Μελχιτών της Αντιόχειας, Δημήτριος Cadi. Ωστόσο, ο πατριάρχης απεβίωσε αιφνιδίως στις 26 Οκτωβρίου στη Δαμασκό και αντικαταστάθηκε από τον Ρουμάνο ελληνοκαθολικό μητροπολίτη της Φαγκαράς, Βασίλειο Suciu. Η λειτουργία τελέστηκε στη βασιλική του Αγίου Πέτρου· όπως και στην προηγούμενη τελετή του 1908, τοποθετήθηκε μπροστά στην Αγία Τράπεζα του «ομολογίου του Πέτρου» μια ανεξάρτητη Τράπεζα, μαζί με αναλόγια διαμορφωμένα ως εικονoστάσιο. Σε αμφότερες τις τελετές αναφέρεται στην εισαγωγή των αντίστοιχων λειτουργικών φυλλαδίων ότι η τέλεση της ελληνικής λειτουργίας ήταν «πλήρης», δηλαδή χωρίς προσθήκες ή ανάμειξη με τη ρωμαϊκή λειτουργική παράδοση. Ο Πάπας –ο Πίος Ι΄ στην πρώτη περίπτωση και ο Πίος ΙΑ΄ στη δεύτερη– προέδρευε από θρόνο (καθέδρα) τοποθετημένο στα αριστερά, όπως βλέπει κανείς την Αγία Τράπεζα. Ήταν ενδεδυμένος με τα δικά του παπικά άμφια, φορούσε την τιάρα και ευλογούσε στα ελληνικά καθ’ όλη τη διάρκεια της Θείας Λειτουργίας. Στην αρχή μιλούσαμε για την ανατολική συνιστώσα της λειτουργίας ενάρξεως του παπικού αξιώματος του Πάπα Λέοντα ΙΔ΄. Η παρουσία των διαφόρων γλωσσών –και κυρίως της λατινικής και της ελληνικής– αναδεικνύει τη γνήσια καθολική διάσταση της λειτουργικής αυτής τελετής. 

+ π. Μανουήλ Νιν 

Αποστολικός Έξαρχος Ελλάδα