martedì 12 novembre 2024

Comunione degli apostoli
Icona siriaca. XX secolo


Qualche riflessione post sinodale.

Terza riflessione.

Spesso, nei miei corsi nelle università romane, mostrando agli studenti l’icona riprodotta qua sopra, chiedo loro di quale scena o quale icona si tratta. La risposta generale -con qualche notevole eccezione devo dirlo-, è che si tratta dell’icona dell’ultima cena di Gesù con i discepoli il giovedì prima della passione. Prima di qualsiasi smentita da parte mia, chiedo agli studenti di guardarla bene, in dettaglio, e allora qualcuno comincia a riconsiderare la sua risposta perché si accorge che il testo scritto nell’immagine -sia in greco, o in siriaco come nell’esempio che vi propongo in queste pagine- non porta le parole che l’identificherebbero appunto come l’ultima cena, cioè la “cena mistica” come troviamo scritto nelle icone del Grande Giovedì, ma tutt’altro. Inoltre, guardando i volti degli apostoli presenti nell’icona, altri studenti si accorgono che i due primi ai due lati dell’icona sono Pietro e Paolo, facilmente identificabili per le caratteristiche dei loro volti, e questo fatto conferma il non legame dell’icona con la celebrazione di Cristo con i Dodici il giovedì prima della passione. Allora, di fronte agli sguardi tra smarriti e confusi degli studenti, dico loro che si tratta dell’icona della “Comunione degli apostoli”, cioè l’icona di Cristo celebrando con i discepoli i Santi Misteri, nel momento in cui Lui dà loro il suo Corpo ed il suo Sangue. Quindi, questa è un’altra icona che potrebbe rappresentare oppure essere l’icona di un Sinodo dei vescovi.

Qualche nota su questa icona. L’icona di queste pagine è una riproduzione contemporanea fatta a partire da una miniatura che si trova in un manoscritto siriaco del XIII sec., proveniente da Tur Abdin, nell’odierna Turchia. Il testo scritto in siriaco nell’icona recita: “Nostro Signore, comunicando i suoi discepoli con il suo Corpo ed il suo Sangue”, cioè l’immagine rappresenta la celebrazione del Signore -concelebrata dagli apostoli-, nel momento della loro comunione. Notiamo la presenza di Pietro e di Paolo nell’icona, fatto che ne fa -come altre icone in cui sono rappresentati Pietro e Paolo come quella dell’Ascensione, della Pentecoste e della Dormizione della Madre di Dio-, un’icona certamente cristologica ma anche -e specialmente- ecclesiologica. Come accennavo, l’icona ci mostra Cristo stesso celebrando i Santi Misteri -e in altre icone con lo stesso argomento Cristo addirittura indossa i parati liturgici corrispondenti al vescovo-, ed è Cristo stesso che dà agli apostoli la comunione al suo Corpo ed al suo Sangue. Anche nelle celebrazioni della Divina Liturgia nella tradizione bizantina, quando presiede il vescovo è sempre lui, e soltanto lui, che distribuisce, che dà i Santi Misteri anche ai sacerdoti e ai diaconi concelebranti. Il Corpo ed il Sangue di Cristo vengono ricevuti -mai presi bensì ricevuti notiamolo bene, a sottolineare che essi sono un dono- che si riceve da colui, il vescovo, che nella celebrazione fa le veci di Cristo, cioè, fa presente sacramentalmente Colui che è il Pastore della Chiesa ed il vero celebrante.

La comunione degli apostoli come icona per un Sinodo? In riflessioni precedenti parlavo del Sinodo dei vescovi come cammino “con” Cristo e mai senza di Lui. Possiamo parlare anche del Sinodo come celebrazione quasi liturgica, certamente ecclesiologica, e propongo di usare anche il termine “concelebrazione” -parole che in greco inizia anche con la preposizione “σύν”-, in cui Cristo stesso presiede e celebra, ci elargisce la Sua Parola e i suoi Doni, che in questo caso sono la professione di fede, e la comunione ecclesiale che regge tra coloro che concelebriamo questa “liturgia”, e che ci fa “concelebranti… συλλειτουργοί…, ci fa sinodali” con Lui.

Quindi presentata questa possibile terza icona del Sinodo dei vescovi, vi condivido infine tre brevi riflessioni.

Prima riflessioneDurante la celebrazione della seconda sessione dell’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi durante il mese di ottobre 2024, alla fine di una conferenza ai monaci benedettini di Sant’Anselmo, un giovane monaco mi chiese cosa io mi aspettassi, alla fine, da questo Sinodo. La mia risposta, inquadrata in una visione del Sinodo spero abbastanza ampia, ha avuto un contenuto per me molto chiaro che ho spiegato a partire da un fatto che considero molto significativo, ed è questo: mentre nel Sinodo del 2023 ben otto vescovi mi chiesero se io fossi “ortodosso”, cioè se appartenevo a una delle Chiese Ortodosse, nel Sinodo del 2024 soltanto due vescovi mi fecero la stessa domanda, ed erano due vescovi arrivati nuovi per questa seconda sessione. E concludevo la mia risposta alla domanda su cosa io mi aspettassi dal Sinodo, in questo modo: …se alla fine di queste due sedute del Sinodo dei vescovi tutti i padri sinodali di tradizione latina sapranno che le Chiese Orientali Cattoliche esistono, e che esse non sono né “Chiese ortodosse” né -mi si consenta l’espressione- soltanto “varianti folcloriche” dentro della Chiesa Cattolica, bensì Chiese vere e proprie, con una gerarchia ben organizzata in patriarcati, arcivescovati maggiori, metropolie, esarcati…, e con una tradizione teologica, liturgica e spirituale, ed anche una disciplina canonica proprie e che le distinguono tra di esse in diverse grandi tradizioni dentro dell’Oriente cristiano, allora il Sinodo sarà valso la pena.

Seconda riflessione. Mi sembra importante, nell’attuale momento ecclesiologico, fare attenzione a non presentare le Conferenze Episcopali nazionali come se fossero una sorta di Chiese sui juris, quasi a ridosso o in parallelo delle Chiese Orientali Cattoliche. Questo porterebbe a una diminuzione o distorsione ecclesiologica ed in fondo sostanziale di quello che siamo le Chiese Orientali Cattoliche ed anche di quello che sono le Conferenze Episcopali nazionali, sviluppatesi soprattutto a partire dal concilio Vaticano II. Quindi una necessaria complementarità tra le due istituzioni certamente sì, evitando eventuali confusioni ecclesiologiche e canoniche.

Terza riflessione. Credo che il Sinodo abbia offerto a noi padri e vescovi delle Chiese Orientali Cattoliche quello spazio dove poter far sentire la nostra voce, il nostro pensiero soprattutto dal punto di vista ecclesiologico. Non dobbiamo avere né paura né soggezione di manifestare -oserei dire con fierezza e con orgoglio- il nostro pensiero teologico ed ecclesiologico -perché ce l’abbiamo un pensiero teologico ed ecclesiologico senz’ombra di dubbio!-, mettendo in evidenza anche i nostri problemi, i nostri dubbi e le nostre sofferenze.

Un’ultima riflessione, come appendice. Il Sinodo ha permesso di mettere in evidenza il ruolo delle Chiese Orientali Cattoliche nel dialogo ecumenico (non vogliamo essere, neppure essere considerati, nel dialogo ecumenico odierno, come il sassolino nella scarpa, oppure dover dire da parte nostra quasi quel “scusate se esistiamo”). Per questo è necessario che i nostri fratelli delle Chiese Ortodosse vedano come la Chiesa Cattolica di tradizione latina conosce, stima, rispetta e ama le Chiese Orientali Cattoliche. Questa dovrebbe essere la vera premessa e la garanzia per un sano ecumenismo. Il rispetto, l’amore ed anche -e soprattutto direi- un’esigente spinta verso di noi stessi, pastori delle Chiese Orientali Cattoliche, affinché siamo e rimaniamo fedeli alle tradizioni ecclesiali a cui apparteniamo, nella comunione della e nella Chiesa Cattolica. Questa sarà una garanzia, una assicurazione di stima e di rispetto anche verso le Chiese Orientali Ortodosse, nell’attesa di quel giorno in cui, saliti “con Cristo… σύν Χριστώ”, sul monte Tabor, parteciperemo all’unica luce divina, all’unico Pane e Calice di salvezza. Sicuri, come afferma sant’Efrem il siro: “…che il Signore ci ascolterà non perché giusti ma perché penitenti”.

 

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico

 

 

giovedì 7 novembre 2024

 

Dormizione della Madre di Dio

G. Dimov. Sofia, XX secolo 

 

Qualche riflessione post sinodale.

Seconda riflessione.

 

La mia prima riflessione post sinodale era sorta attorno all’icona della Madre di Dio Odigitria, che aveva presieduto le sessioni del Sinodo dei vescovi nel 2023 e nel 2024. Ma diverse volte mi sono chiesto quale icona potrebbe diciamo così rappresentare il / un Sinodo dei vescovi? Questa domanda me la sono fatta diverse volte durante le sessioni del Sinodo. Se si trattasse di trovare passi della Sacra Scrittura che possono essere “icone” di un momento sinodale ce ne sono tante: Cristo seduto con i discepoli annunciando loro il Vangelo; Cristo celebrando con i discepoli la moltiplicazione dei pani e dei pesci; Cristo con i tre discepoli sul monte Tabor; Cristo con i Dodici il grande Giovedì quando diede loro, celebrò con e per loro, il suo Corpo ed il suo Sangue; Cristo, ancora con i discepoli scelti, nel Getsemani; Cristo risorto, sempre con i discepoli, sulle rive del lago di Galilea. Queste sarebbero “icone evangeliche” possiamo dire a rafforzare, poggiare, dare contenuto evangelico al cammino sinodale della Chiesa Cattolica. Icone evangeliche sempre con Cristo.

Ma, quale un’icona che mostri veramente quello che sia il Sinodo dei vescovi, come celebrazione ecclesiale e che ne faccia vedere quasi un’incarnazione? Certamente icone ed affreschi che rappresentano i grandi concili ecumenici –soprattutto i due di Nicea del 325 e del 787- ne troviamo diverse. Ma quale icona per “un / il Sinodo dei vescovi”? Oso proporne due: l’icona della Dormizione della Madre di Dio nella festa del 15 agosto, e l’icona della Comunione degli apostoli. E mi soffermo oggi soltanto nella prima.

Di questa icona ne sottolineo qualche tratto cristologico ed ecclesiologico: al centro dell’icona vediamo il corpo della Madre di Dio, sdraiato sul letto funebre, quasi fosse un altare con i Doni eucaristici deposti al disopra. In alto dell’icona, Cristo che riceve nelle sue mani l’anima di Maria, potremo dire riceve la sua offerta, e attorno a Cristo i Dodici apostoli, radunati da tutto il mondo. Due aspetti fondamentali: Cristo nel centro a presiedere, a celebrare, e attorno a lui i Dodici radunati miracolosamente da tutte le parti del mondo -come ci fa sapere il testo apocrifo da cui dipende anche l’icona. Gli apostoli son venuti da tutte le parti del mondo per celebrare la Divina Liturgia della piena e totale glorificazione della Madre di Dio in cielo, quasi a concelebrare con Cristo questo Sinodo, questo momento ecclesiale e fondamentale per la vita della Chiesa nascente. Perché la piena glorificazione della Madre di Dio è anche la piena glorificazione della Chiesa sposa e madre. La festa del 15 agosto, la Dormizione di Maria, chiude il ciclo, l’anno liturgico bizantino, chiude o forse possiamo dire porta alla perfezione il cammino fatto con Cristo e accanto ai fedeli, con Cristo e con la Chiesa lungo un anno, lungo un inizio ed una conclusione, fino alla sua perfezione.

Cristo è l'alfa e l'omega. Con Lui e mai senza di Lui tutto inizia, tutto quello che siamo e viviamo inizia e arriva alla sua perfezione in Lui. E questo fatto, quel che siamo, viviamo, con chi lo viviamo, è il nostro essere e vivere come cristiani. Un cammino quindi con Lui, e “accanto” ai fratelli. Il “con” -la preposizione greca “συν”- fa riferimento a Lui, a Cristo Signore, che ci guida, che ci precede, che ci sorregge, che ci salva. Il “accanto” fa riferimento ai fratelli, a coloro che come noi sono stati rivestiti di Cristo nel battesimo. Quindi riprendo un tema che ritengo fondamentale: quel che siamo e facciamo, è con Cristo, guidati da Cristo, preceduti da Lui che cammina davanti a noi. Se questo fatto sarà a tutti chiaro, allora tutta la derivazione “filologica” che abbiamo fatto lungo due anni con e a partire dalla preposizione “συν” avrà un senso.

Cristo che cammina con noi, che ci precede. Questo fatto lo vediamo in modo possiamo dire iconico nella vita della Chiesa, soprattutto quando celebra i Santi Misteri, cioè la presenza sacramentale e massima di Cristo in mezzo a noi. E nella stessa celebrazione dei Santi Misteri, della liturgia della Chiesa, siamo tutti, vescovo, sacerdoti e fedeli, che guardando verso Oriente, guardando verso Colui che è l'Oriente che viene dall'alto, diventiamo icone di un cammino veramente ecclesiale.

Queste premesse -forse lunghe, e chi le leggerà abbia pazienza- per dire in qualche modo, con quale spirito ho partecipato come vescovo della Chiesa Cattolica alla sessione del Sinodo dei vescovi di ottobre 2024. Quando il Papa, o un patriarca orientale, o un capo di una chiesa cristiana convoca il Sinodo dei vescovi, è un momento ecclesiale molto importante. Infatti, nelle Chiese Orientali cristiane, siano esse ortodosse o cattoliche, quando il patriarca o il capo di una di queste Chiese convoca il Sinodo, lo fa per diverse ragioni. Una prima è in vista alla consacrazione del Sacro Myron, l’olio Santo con cui saranno unti i neo battezzati, coloro che sono stati rivestiti di Cristo. L’olio Santo con cui saranno unti anche gli altari, le sacre mense su cui vengono santificati, consacrati il pane e il vino; il sepolcro da cui si annuncia ogni domenica il Vangelo della risurrezione, il Vangelo che ci annuncia che quel Crocifisso è Risorto; l’altare, infine, al cui contatto diretto vengono ordinati vescovi, preti e diaconi nelle diverse tradizioni orientali. Un’altra ragione per la convocazione del Sinodo è quando il patriarca convoca i fratelli i vescovi in vista alle elezioni, alle nomine dei nuovi vescovi. Infatti, essi vengono eletti dal Signore attraverso la preghiera, la comunione e la scelta di coloro che ne fanno le veci nel Corpo di Cristo, cioè di coloro che ne sono i veri vicari, i vescovi. Quindi attraverso il Sinodo, presieduti da colui che ne è il capo e il padre, si eleggono i nuovi membri di questo corpo episcopale, di questo corpo di pastori che guidano le loro Chiese. E questo avviene con e malgrado le loro debolezze, le loro mancanze, i loro peccati, ma sempre sorretti da quella “Grazia Divina” con cui, inginocchiati e toccando l'altare, toccando Cristo stesso, sono stati ordinati vescovi, “επίσκοποι”, cioè, “veglianti” della comunità e della comunione a loro affidata. Infine, per ultimo ma non meno importante, il Sinodo dei vescovi, nelle Chiese Orientali, è convocato dal capo della Chiesa anche per discutere fraternamente e prendere delle decisioni che toccano la vita di ognuna delle Chiese orientali cristiane.

Dopo tutte queste premesse -queste note marginali?- forse lunghe, qualcuno potrebbe dire: …e allora?

A partire dall’icona proposta sopra, vorrei dire che sono tornato a Roma ad ottobre e mi sono messo, umilmente e quasi di nascosto, come uno dei vescovi concelebranti nell’icona della Dormizione, nell’icona della Chiesa gloriosa, uno dei due vescovi che hanno in mano un libro aperto mostrandolo a coloro che l’icona la guardano. In questo libro mi sono permesso di scrivere qualche nota e l’ho condivisa, con i fratelli vescovi. Note per non dimenticare:

In primo luogo, il Sinodo dei vescovi. Quando mi dicono: “Beati voi gli orientali che avete avuto sempre la sinodalità”, io rispondo: “Eh no! Noi abbiamo il Sinodo dei vescovi e la collegialità episcopale, che forse non è lo stesso della “sinodalità” che ci troviamo ad avere tra le mani a gestire o provare di gestire in questo nostro momento ecclesiale.

In secondo luogo, la Chiesa Cattolica. Ci sono parole che riscaldano e rinfrancano il cuore, e penso che nel nostro percorso come Sinodo dei vescovi ci avrebbe fatto bene, spiritualmente ed ecclesiologicamente, sentire ad alta voce che siamo Chiesa Cattolica, estesa da Oriente ad Occidente.

Infine, Cristo, cioè Colui con Chi camminiamo. Nel lontano 1999 l’indimenticabile arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, scrisse quel libretto intitolato “Identikit del Festeggiato” in cui il grande vescovo-teologo ricollocava nel centro della riflessione della Chiesa Cristo, Colui che era e doveva essere appunto il Festeggiato nel grande Giubileo del 2000. Quindi il Sinodo come cammino che la Chiesa Cattolica fa con Cristo, un cammino guidato dai vescovi, e sempre all’ascolto di tutti. In Oriente il Sinodo è oppure ha sempre una dimensione ecclesiologica, ma soprattutto cristologica. Il Sinodo, il cammino che è sempre con la preposizione greca “συν”, cioè “con” Cristo. Mi chiedevo se ci fosse bisogno di un nuovo “Identikit del Festeggiato?”, ma credo basterebbe un semplice “Manuale per il buon uso filologico, e soprattutto, cristologico ed ecclesiologico della preposizione greca “συν”, che ha conformato il nostro vocabolario durante le settimane del mese di ottobre.

 +P. Manuel Nin

Esarca Apostolico


venerdì 1 novembre 2024

 

Madonna Odigitria


Qualche riflessione post sinodale.

Prima riflessione.

          Nel tardo pomeriggio di sabato 26 ottobre, finita l’ultima sessione della XVI Assemblea General del Sinodo dei vescovi, mentre i Padri sinodali uscivamo pian piano dall’aula Paolo VI, stanchi dopo una giornata di lettura e votazioni del Documento conclusivo, mi sono imbattuto per caso in una discussione tra alcuni padri sinodali, discussione nata dal loro stupore che quasi pareva scandalo per il fatto che l’ultimo paragrafo del testo poco prima votato -paragrafo piuttosto breve e contenente un affidamento finale alla Madre di Dio- non avesse avuto diciamo così il plauso generale di tutti gli aventi diritto al voto. Visto che quei padri -ed anche qualche madre- sinodali e venerabili, malgrado la stanchezza di una giornata e di un mese molto impegnativi, vedendomi arrivare vollero coinvolgermi nel loro scambio di vedute assai vivace, allora, pur senza rivelare il mio voto pocanzi dato a quel paragrafo conclusivo, mi sono permesso di far notare loro come non soltanto la dicitura del testo in questione, ma soprattutto il contenuto fosse se non altro discutibile e forse anche fuorviante e, secondo me, da rivedere. Il testo finale approvato diceva così: “Alla Vergine Maria, che porta lo splendido titolo di Odigitria, Colei che indica e guida il cammino, affidiamo…”. E ho detto a quei padri e madri sinodali, ripeto scioccati e forse turbati dal voto finale non unanimemente plaudente dato a quel paragrafo da parte di alcuni padri diciamo -mi si consenta l’espressione!- cristologicamente ben fondati, dissi loro che la redazione giusta del testo avrebbe dovuto essere: “Alla Vergine Maria, che porta lo splendido titolo di Odigitria, Colei che indica Colui che è il cammino, e verso di Lui ci guida, affidiamo…”. La mia spiegazione parve rasserenare un po’ quei venerabili padri, e finalmente partimmo verso le nostre residenze romane, loro, spero, più sereni, io ancora un po’ perplesso appunto del paragrafo in questione.

L’icona della Madre di Dio con il titolo di “Odigitria” è quella rappresentazione iconografica in cui la Vergine Maria regge Cristo seduto o poggiato sulle sue braccia, e lo mostra a chi la guarda, ad indicare che lei ci guida a / verso Colui che è il cammino, quasi a recitare il testo evangelico di Gv 14,6. Per noi cristiani, il Signore Gesù è il cammino che dobbiamo seguire per vivere la nostra fede cristiana; noi non seguiamo un cammino vago che ognuno può tracciarsi da sé e secondo le proprie possibilità, abitudini e modo di pensare, ma seguiamo un cammino che per noi è una Persona molto concreta, il Signore nostro Gesù Cristo.

L’icona della Madre di Dio Odigitria, che ha presieduto le sedute del Sinodo dei vescovi lungo tutto il mese di ottobre, ci ha indicato e guidato a Colui con cui camminiamo, Colui che per noi cristiani è il cammino, la verità e la vita. Durante quattro settimane lei ha guardato quell’assemblea e ci ha mostrato Colui che è il cammino, e noi l’abbiamo guardata nella fiducia della sua guida verso il Signore Gesù Cristo. La Chiesa Cattolica, durante un mese radunata in Sinodo dei vescovi, nella persona di tantissimi vescovi padri sinodali, coadiuvati da altre persone, sacerdoti e laici, ha pregato, riflettuto, condiviso tante opinioni e proposte per la vita della Chiesa. Per questo, nell’icona della Madre di Dio Odigitria abbiamo visto anche l’icona della Chiesa stessa, che porta Cristo nel suo grembo, che lo mostra come unico Cammino, e allo stesso tempo lei, la Chiesa, non cammina, riflette, agisce senza la guida di Colui che ne è lo Sposo e Maestro.

L’icona della Madre di Dio Odigitria ci ha ricordato, in una anamnesi quasi celebrativa, che in quell’aula eravamo la Chiesa Cattolica, estesa da Oriente ad Occidente, radunata in un sinodo dei vescovi, facendo un cammino con Colui che ne è il vero ed unico Pastore, Cristo Signore. Sapendosi, la stessa Chiesa anche a modo suo Odigitria, cioè con la sua parola ed il suo esempio, con la sua predicazione e la celebrazione della fede, colei che ci mostra e ci guida a Cristo Signore, vincitore del peccato e della morte.

Arrivando a casa quella sera di sabato, e celebrando il vespro settimanale della risurrezione, pensavo se la mia breve spiegazione avrebbe rasserenato i padri e madri sinodali, un po’ sconvolti dal risultato del voto dell’ultimo paragrafo. Spero di sì, convinto che le difficoltà con cui ci imbattiamo nel cammino cristiano, sia quelle che possono sorgere dalla stessa lettura e preghiera a partire della Sacra Scrittura, sia quelle che possono provenire dalla vita stessa della Chiesa, con una catechesi fatta in modo giusto possa dare sempre una risposta alle angosce e alle difficoltà degli uomini, per poter fare un bel cammino con Colui che per noi cristiani è anche la verità e la vita.

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico


giovedì 17 ottobre 2024

 



“Due desideri...”

Intervento al Sinodo dei vescovi. Roma 17 ottobre 2024

In questa parte dello istrumentum laboris (IL) i temi ci portano al momento centrale del nostro Sinodo dei vescovi. Vi troviamo i temi che ci configurano come Chiesa Cattolica in Sinodo: Episcopato e primato del vescovo di Roma; Chiese Orientali Cattoliche ed il nostro vero e proprio ruolo nella Chiesa Cattolica; Conferenze Episcopali; Dialogo ecumenico.

Bisogna fare attenzione a non presentare le Conferenze Episcopali Nazionali come se fossero Chiese sui juris, quasi a ridosso o un parallelo delle Chiese Orientali Cattoliche. Questo porterebbe a una diminuzione o distorsione ecclesiologica ed in fondo sostanziale di quello che siamo le Chiese Orientali Cattoliche ed anche di quello che sono le Conferenze Episcopali nazionali, nate e sviluppatesi soprattutto dall’ecclesiologia del concilio Vaticano II. Quindi una necessaria complementarietà tra le due istituzioni certamente, evitando eventuali confusioni ecclesiologiche e canoniche.

Due desideri.

Primo. Credo che ci viene offerto lo spazio, il luogo, dove noi padri e vescovi delle Chiese Orientali Cattoliche possiamo e dobbiamo far sentire la nostra voce, il nostro pensiero soprattutto dal punto di vista ecclesiologico. E farlo in un modo positivo e costruttivo -questo è molto importante-, e soprattutto in un modo che ci mostri uniti tra di noi. Non dobbiamo avere né paura né soggezione di manifestare -oserei dire con fierezza e con orgoglio- il nostro pensiero teologico ed ecclesiologico -perché ce l’abbiamo un pensiero teologico ed ecclesiologico-, mettendo in evidenza anche i nostri dubbi, i nostri problemi e le nostre sofferenze. Ma identificandogli per nome i dubbi, i problemi e le sofferenze, e presentandogli ad alta voce ai nostri fratelli vescovi di tutta la Chiesa Cattolica.

Secondo. I paragrafi nell’IL dove si fa riferimento all’ecumenismo -e vi parlo dopo otto anni come vescovo orientale cattolico in Grecia-, sono ottimi e necessari, assolutamente sì, ma sempre in un contesto che tenga conto, valuti e rispetti anche il ruolo delle Chiese Orientali Cattoliche nel dialogo ecumenico (non vogliamo essere neppure essere considerati come il sassolino nella scarpa). Bisogna che i nostri fratelli delle Chiese Ortodosse vedano come la Chiesa Cattolica di tradizione latina conosce, stima, rispetta, ama le Chiese Orientali Cattoliche. Questa dovrebbe essere la vera premessa e la garanzia per un sano ecumenismo. Il rispetto, l’amore ed anche -e soprattutto- un’esigente spinta verso di noi, pastori delle Chiese Orientali Cattoliche, affinché siamo fedeli alle tradizioni ecclesiali a cui apparteniamo, nella comunione della e nella Chiesa Cattolica. Questo sarà una garanzia, una assicurazione di stima e di rispetto anche verso le Chiese Orientali Ortodosse, nell’attesa di quel giorno in cui, saliti col Cristo, “σύν Χριστώ”, sul monte Tabor, parteciperemo all’unica luce divina, all’unico pane e calice di salvezza. Sicuri, come afferma sant’Efrem il siro: “…che il Signore ci ascolterà non perché giusti ma perché penitenti”.

+P. Manuel Nin

Vescovo titolare di Carcabia / Esarca Apostolico.

sabato 12 ottobre 2024

 



Invito a non dimenticare…

Intervento al Sinodo dei vescovi. Roma 12 ottobre 2024

Parlo da monaco / vescovo, con a libertà che i monaci abbiamo avuto ed abbiamo da sempre nella vita delle Chiese Cristiane di Oriente e di Occidente. Siamo pochi, pochissimi i monaci padri sinodali. I monaci, uomini di preghiera e uomini veramente comunitari e collegiali: l’abate nei monasteri chiede il parere di tutti, “anche il parere del monaco più giovane” dice san Benedetto. E, finalmente, decide l’abate, che fa le veci di Cristo nel monastero, e lo fa con il voto / con l’appoggio di tutti i monaci.

Non dimentichiamo il Sinodo dei vescovi. Invito in primo luogo le Chiese Orientali Cattoliche a far sentire la loro voce, (siamo nella seconda settimana, ne mancano altre due ancora!), con coraggio a partire dalla nostra esperienza del sinodo dei vescovi. Quando mi dicono: “Beati voi gli orientali che avete avuto sempre la sinodalità”. Rispondo: “Eh no! Noi abbiamo il Sinodo dei vescovi e la collegialità episcopale, che forse non è lo stesso della “sinodalità” che ci troviamo ad avere tra le mani a gestire o provare di gestire in questo nostro momento ecclesiale. Non dimentichiamo che siamo, e soprattutto, in/un Sinodo dei vescovi. La dicitura “Sinodo dei vescovi” mi manca.

Non dimentichiamo la Chiesa Cattolica. Ci sono parole che riscaldano e rinfrancano il cuore. Penso che nel nostro percorso come Sinodo dei vescovi ci farebbe bene, spiritualmente ed ecclesiologicamente, sentire ad alta voce che siamo Chiesa Cattolica, estesa da Oriente ad Occidente. Questo ci aiuterebbe sicuramente ad atterrare da una nuvola di temi forse troppo eterei, iperuranici, interessanti sicuramente. Diciamocelo, ricordiamocelo che siamo Chiesa Cattolica.

Non dimentichiamo Cristo, cioè con Chi camminiamo. Nel lontano 1999 l’indimenticabile arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, scrisse quel libretto intitolato “Identikit del Festeggiato” in cui il grande vescovo / teologo ricollocava nel centro della riflessione della Chiesa Colui che era e doveva essere appunto il Festeggiato nel grande Giubileo. Quindi il Sinodo come cammino che la Chiesa Cattolica fa con Cristo, un cammino guidato dai vescovi, e sempre all’ascolto di tutti. In Oriente il sinodo è oppure ha sempre una dimensione ecclesiologica, ma soprattutto cristologica. Il sinodo, il cammino è sempre con la preposizione greca “συν”, cioè “con” Cristo.

Identikit del Festeggiato? Basterebbe credo un semplice “Manuale per il buon uso filologico, e soprattutto, cristologico ed ecclesiologico della preposizione greca “συν”, che conforma il nostro vocabolario in queste settimane.

Grazie

+P. Manuel Nin

Vescovo titolare di Carcabia / Esarca Apostolico.




sabato 21 settembre 2024

 

Profeta Davide / Cattedrale Santissima Trinità, Atene

Masticare i Salmi.

San Benedetto, nella sua Regola, dà un’importanza unica al ruolo del Salterio nell’ufficiatura e, quindi, dei Salmi nella vita del monaco. Prevede la recita settimanale del Salterio, ne protegge gelosamente qualsiasi abbreviazione o riduzione, e si serve dei salmi anche come aggancio fondamentale per la sua cristologia e la sua ecclesiologia. Le citazioni implicite ed esplicite dei Salmi nella Regola Benedettina sono una testimonianza di questo ruolo fondamentale che san Benedetto dà a questo libro biblico.

Diverse volte mi sono servito dell’immagine del “masticare” applicata ai Salmi, o se si vuole al mio rapporto con essi come monaco e come vescovo. Direi che dall’ingresso nel noviziato fino all’ingresso nel Paradiso, i Salmi configurano la preghiera e la vita di ogni monaco. Anche durante la sessione del Sinodo dei vescovi del 2023, di fronte alla proposta di forme di preghiera e di meditazione utilizzate durante le sedute in aula sinodale che, confesso, mi creavano una certa perplessità, non mi stancavo di ripetere a me stesso e a chi mi chiedeva un parere che, come monaco, ero abituato a “masticare salmi”, nella speranza e la fiducia che diventassero -le sue parole e soprattutto la presenza di Cristo in essi- la linfa vitale della mia vita.

In diversi miei scritti precedenti ho accennato al ruolo e all’importanza del Salterio -il “Davide” come lo chiama la tradizione delle Chiese siriache- nella vita delle Chiese cristiane e nella vita di ognuno dei fedeli. I Salmi sono, costituiscono, l’ossatura delle ufficiature di tutte le Chiese cristiane, sia Orientali che Occidentali. E dalle origini del monachesimo cristiano i Salmi sono il perno centrale attorno a cui gira, si muove la vita di preghiera del monaco. Essi sono preghiera a Cristo come vero Dio, preghiera di Cristo come vero uomo, e preghiera con Cristo come capo del suo Corpo, e quindi preghiera di ogni Chiesa cristiana, di ogni fedele cristiano, chierico o laico che esso sia. Testi poetici, certamente, delle volte con delle immagini tanto belle quanto scioccanti, altre volte con delle espressioni dure e pungenti, quasi violente, che però la tradizione cristiana non ha mai letto ed interpretato contro l’uomo bensì contro il male che possa annidarsi e si annida tante volte nel cuore umano.

E parlando del Salterio, nell’ultimo Incontro dei vescovi Orientali Cattolici di Europa tenutosi dal 16 al 19 settembre 2024 a Oradea, in Romania, abbiamo riflettuto sul tema “Rapporti vescovo-sacerdoti. Il sacerdozio cristiano nella sua umanità”. Ed il dialogo che le quattro conferenze che sono state tenute in quei giorni hanno suscitato tra noi vescovi, padri e pastori di Chiese cristiane orientali cattoliche, ha evidenziato diversi temi, problematiche e situazioni che ci toccano e dobbiamo vivere nella quotidianità del nostro servizio pastorale. E uno dei temi che è stato evidenziato è quello della “solitudine” di colui che è stato chiamato ad essere vescovo, a ”guardare e vegliare dall’alto” sul gregge, sul corpo di Cristo che è la sua Chiesa. Una solitudine che delle volte può avere una dimensione non dico drammatica ma sì di sofferenza e di difficoltà non sempre facili ad affrontare.

Una delle vie per far fronte -sarebbe giusto dire per vivere nella propria carne- questa -mi si consenta l’espressione- “solitudine del vescovo”, è il cammino di preghiera, e mi servo dell’immagine del “cammino” perché si tratta di un qualcosa fondamentale nella nostra vita e che si acquista ogni giorno, camminando in avanti sempre con Cristo. E parlare della preghiera in questo contesto non vuol dire una facile “ricetta” che dovrebbe risolvere tutto, ma di un cammino di preghiera con un volto, una forma molto concreti. E la proposta fatta a Oradea tra i fratelli vescovi, non era quel semplice “prega”, ma un “prega con i Salmi”.

E ritorno al titolo iniziale: “masticare i Salmi”. Una masticazione che va dalla semplice e fedele ripetizione dei Salmi -un ritorno ai Salmi-, fino a quella “masticazione” come “ruminatio”, ossia quel tornare e ritornare quasi testardo e fatto con fedele e dolce insistenza, a questi testi antichi e sempre nuovi, dolci ed aridi allo stesso tempo, una “ruminatio” che ci permette di scoprirne oppure riscoprirne la forza, la spinta, la grazia in ognuna di quelle parole e frasi che ci riportano al Signore ed anche a noi stessi. Ci riportano a Colui che li pregò sulla croce, ci riportano alla preghiera di ognuna delle nostre Chiese che ce li dà in mano sapientemente, e ci riportano soprattutto al profondo del nostro stesso cuore, nella solitudine e nella comunione, nella sofferenza e nella grazia, nella speranza e nella forse disperazione.

Perché i Salmi? Come preghiera, certamente. Come punto di appoggio, sicuramente. Come specchio per la propria vita umana e cristiana, assolutamente sì. Perché Cristo stesso li pregò. Perché Cristo e la Chiesa ne hanno fatto preghiere cristiane. Perché essi diventano, masticandoli e ruminandoli, lo specchio della nostra stessa vita. I Salmi riescono a metterci di fronte al Signore, di fronte alla Chiesa, di fronte a noi stessi. Essi diventano professione di fede in Cristo, Verbo di Dio incarnato, che in essi e per mezzo di essi si incarna nella nostra vita; diventano preghiera e canto del suo Corpo; diventano lode e grido dal profondo del nostro cuore. Il Salterio, il Davide, preso per intero e senza “sconti e limature”, con tutte le sue parole forti e forse anche le sue apparenti sbavature, diventa quel “bastone e vincastro” su cui poggia il nostro cammino cristiano, il nostro cammino come vescovi della Chiesa, un cammino che diventa veramente sinodale, perché fatto e vissuto “συν Χριστώ” e mai senza di Lui.

E a Oradea, non ho esitato in nessun modo, di fronte ai fratelli vescovi europei radunati lì, di dire loro: “prendete in mano il Salterio, fattene il vostro compagno di cammino, fattene anche il vostro specchio, dove troverete riflessa la vostra vita in Cristo”.

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico

 

Μασώντας τους Ψαλμούς.

Ο άγιος Βενέδικτος, στον Κανόνα του, δίνει μια μοναδική σημασία στο ρόλο του Ψαλτηρίου στις ακολουθίες και, επομένως, τον Ψαλμών στη ζωή του μοναχού. Προβλέπει την εβδομαδιαία ανάγνωση του Ψαλτηρίου, προστατεύει με ζήλο οποιαδήποτε συντόμευση η περικοπή και χρησιμοποιεί τους ψαλμούς σαν θεμελιώδη στήριγμα για την χριστολογία του και την εκκλησιολογία του. Οι άμεσες και έμμεσες παραπομπές των Ψαλμών στον Βενεδικτιανό Κανόνα μαρτυρούν το θεμελιώδη ρόλο που ο άγιος Βενέδικτος αποδίδει σε αυτό το βιβλικό βιβλίο.

Αρκετές φορές έχω χρησιμοποιήσει και εφαρμόσει την εικόνα της «μάσησης» για τους Ψαλμούς, η εάν θέλετε – στη σχέση μου με αυτούς σαν μοναχός και σαν επίσκοπος. Θα έλεγα ότι οι ψαλμοί διαμορφώνουν την προσευχή και την ζωή κάθε μοναχού από την είσοδό του στον μοναχισμό στην τάξη των αρχαρίων μέχρι και την είσοδο στον Παράδεισο. Ακόμη και κατά τη συνεδρίαση της Συνόδου των Επισκόπων το 2023, μπροστά στην πρόταση μορφών προσευχής και περισυλλογής που χρησιμοποιούνταν κατά τη διάρκεια των συνεδριάσεων στην αίθουσα της συνόδου, η οποίες, ομολογώ, μου δημιουργούσαν κάποια αμηχανία, δεν κουραζόμουν να επαναλαμβάνω στον εαυτό μου και σε όσους μου ζητούσαν μια γνώμη ότι, σαν μοναχός, ήμουν συνηθισμένος να «μασουλώ ψαλμούς»,  με την ελπίδα και την πίστη ότι θα γινόντουσαν – τα λόγια Του και πάνω απ' όλα η παρουσία του Χριστού σε αυτά τα λόγια  – η ζωτική λέμφος της ζωής μου.

Σε πολλά από τα προηγούμενα συγγράμματά μου έχω αναφέρει το ρόλο και τη σημασία του Ψαλτηρίου - του «Δαβίδ» όπως το αποκαλεί η παράδοση των Συριακών Εκκλησιών - στη ζωή των χριστιανικών Εκκλησιών και στη ζωή καθενός από τους πιστούς. Οι Ψαλμοί είναι - και από αυτούς αποτελείται - η ραχοκοκαλιά των ακολουθιών όλων των χριστιανικών Εκκλησιών, τόσο των Ανατολικών όσο και των Δυτικών. Και από τις απαρχές του χριστιανικού μοναχισμού, οι Ψαλμοί υπήρξαν ο κεντρικός άξονας γύρω από τον οποίο περιστρέφεται, κινείται η ζωή της προσευχής του μοναχού. Είναι η προσευχή στον Χριστό ως αληθινό Θεό, η προσευχή του Χριστού ως αληθινού ανθρώπου και η προσευχή με τον Χριστό ως κεφαλή του Σώματός του, και επομένως η προσευχή κάθε χριστιανικής Εκκλησίας, κάθε χριστιανού πιστού είτε κληρικού ή λαϊκού. Είναι βέβαια ποιητικά κείμενα, που περιέχουν άλλοτε εικόνες τόσο ωραίες όσο και συγκλονιστικές, άλλοτε πάλι σκληρές και oξείες, σχεδόν βίαιες εκφράσεις, τις οποίες, όμως, η χριστιανική παράδοση ποτέ δεν διάβασε και ερμήνευσε σαν εκφράσεις που εναντιώνονται κατά του ανθρώπου, αλλά σαν εκφράσεις που εναντιώνονται στο κακό που μπορεί να φωλιάσει - και τόσο συχνά φωλιάζει – στην καρδιά του ανθρώπου.

Και μιλώντας περί του Ψαλτήριου, στην τελευταία Συνάντηση των Ανατολικών Καθολικών Επισκόπων της Ευρώπης που πραγματοποιήθηκε από τις 16 έως τις 19 Σεπτεμβρίου 2024 στην Οράντεα της Ρουμανίας, συλλογιστήκαμε περί του θέματος «Σχέσεις Επισκόπου-ιερέα. Η χριστιανική ιερωσύνη στην ανθρώπινη φύση της». Και ο διάλογος που προκάλεσαν οι τέσσερις διασκέψεις που πραγματοποιήθηκαν εκείνες τις ημέρες μεταξύ ημών των επισκόπων, των πατέρων και των ποιμένων των Ανατολικών Καθολικών Χριστιανικών Εκκλησιών, ανέδειξε διάφορα θέματα, προβλήματα και καταστάσεις που μας επηρεάζουν και πρέπει να ζούμε στην καθημερινή ζωή της ποιμαντικής μας διακονίας. Και ένα από τα θέματα που τονίστηκε είναι αυτό της «μοναξιάς» εκείνου που έχει κληθεί να γίνει επίσκοπος, να «κοιτάζει και να φυλάει από ψηλά» το ποίμνιο, το σώμα του Χριστού που είναι η Εκκλησία του. Μοναξιά που μπορεί μερικές φορές να έχει μια διάσταση, δεν θα πω δραματική, αλλά ναι, πόνου και δυσκολιών που δεν είναι πάντα εύκολο να αντιμετωπιστούν.

Ένας από τους τρόπους να αντιμετωπιστεί – θα ήταν σωστό να πω να γίνει βίος στο ίδιο του το σώμα – αυτή – επιτρέψτε μου την έκφραση– «η μοναξιά του επισκόπου», είναι η πορεία της προσευχής, και χρησιμοποιώ την εικόνα της «πορείας» γιατί πρόκειται για κάτι θεμελιώδες στη ζωή μας και που αποκτάται καθημερινά, βαδίζοντας πάντα μπροστά με τον Χριστό. Και το να μιλάμε για προσευχή σε αυτό το πλαίσιο δεν σημαίνει μια εύκολη «συνταγή» που πρέπει να λύσει τα πάντα, αλλά μια πορεία προσευχής με ένα πρόσωπο, μια μορφή πολύ συγκεκριμένη. Και η πρόταση που έγινε στην Οράντεα μεταξύ των αδελφών επισκόπων δεν ήταν αυτό το απλό «προσεύχου», αλλά «προσεύχου με τους Ψαλμούς».

Και επιστρέφω στον αρχικό τίτλο: «μασώντας τους Ψαλμούς». Ένα μάσημα που κυμαίνεται από την απλή και πιστή επανάληψη των Ψαλμών -μια επιστροφή στους Ψαλμούς-, μέχρι και στο «μάσημα» ως «ruminatio» (= μυρηκασμός αλλά και επίμονος λογισμός), δηλαδή αυτή η σχεδόν πεισματική επιστροφή και έπανεπιστροφή  με τρόπο πιστό και γλυκά επίμονο, σε αυτά τα αρχαία και πάντα καινούργια κείμενα, γλυκά και συνάμα ξηρά, ένας «μυρηκασμός» που μας επιτρέπει να ανακαλύψουμε ή να ξαναανακαλύψουμε τη δύναμή τους,  την ώθηση, τη χάρη σε κάθε μία από αυτές τις λέξεις και φράσεις που μας φέρνουν πίσω στον Κύριο και επίσης στον πίσω στον εαυτό μας. Μας επαναφέρουν πίσω σε Εκείνον που προσευχήθηκε τους ψαλμούς στο σταυρό, μας επαναφέρουν πίσω στην προσευχή της καθεμιάς από τις Εκκλησίες μας που με σοφία μας τις δίνει στο χέρι και μας επαναφέρουν πάνω απ' όλα στα βάθη της καρδιάς μας, σε συνθήκες και περιστάσεις μοναξιάς και κοινωνίας, πόνου και χάρης, ελπίδας και ίσως - απελπισίας.

Γιατί – τους Ψαλμούς; Ως προσευχή, βεβαίως. Ως σημείο στήριξης, σίγουρα. Ως καθρέφτης για την ίδια μας ανθρώπινη και χριστιανική ζωή, απολύτως. Επειδή ο ίδιος ο Χριστός τους προσευχήθηκε. Επειδή ο Χριστός και η Εκκλησία τους έκαναν χριστιανικές προσευχές. Γιατί γίνονται, μασώντας και μηρυκάζοντάς τα, ο καθρέφτης της δικής μας ζωής. Οι Ψαλμοί κατορθώνουν να μας βάλουν μπροστά στον Κύριο, μπροστά στην Εκκλησία, μπροστά στον εαυτό μας. Γίνονται ομολογία πίστεως στον Χριστό, τον σαρκωθέντα Λόγο του Θεού, ο οποίος μέσα σ' αυτούς και μέσω αυτών ενσαρκώνεται στη ζωή μας. Γίνονται προσευχή και τραγούδι του Σώματός του. Γίνονται έπαινος και κραυγή από τα βάθη της καρδιάς μας. Το Ψαλτήρι, ο Δαβίδ, όταν λαμβάνεται στο σύνολό του και χωρίς «υποτιμήσεις και αποξέσεις», με όλα τα δυνατά του λόγια και ακόμη ίσως με τις φαινομενικά τραχείς πτυχές του, γίνεται εκείνη η «ποιμενική ράβδος» πάνω στην οποία στηρίζεται η χριστιανική μας πορεία, η πορεία μας ως επίσκοποι της Εκκλησίας, μια πορεία που γίνεται πραγματικά συνοδική, γιατί γίνεται και βιώνεται «συν Χριστώ» και ποτέ χωρίς Αυτόν.

Και στην Οράντεα, δεν δίστασα με κανέναν τρόπο, μπροστά στους αδελφούς μου Ευρωπαίους επισκόπους που είχαν συγκεντρωθεί εκεί, να τους πω: «Πάρτε το Ψαλτήρι στα χέρια σας, κάντε το συνοδοιπόρο σας, κάντε το και καθρέφτη σας, όπου θα βρείτε τη ζωή σας να καθρεφτίζεται στον Χριστό».

 


giovedì 19 settembre 2024

 



Incontro dei vescovi orientali cattolici di Europa

Oradea settembre 2024


“Rapporti vescovo-sacerdoti. Il sacerdozio cristiano nella sua umanità”.

 

         Introduzione.

         Eccellenze, cari padri, fratelli in Cristo. Il mio intervento che ha come titolo: “Rapporti vescovo-sacerdoti. Il sacerdozio cristiano nella sua umanità”, vuole soffermarsi soprattutto nel sottotitolo: Il sacerdozio cristiano nella sua umanità…. E i suggerimenti del mio intervento saranno fatti pensando soprattutto al vescovo, benché li ritenga anche validi per i sacerdoti ed anche i diaconi.

E inizio il mio intervento con una premessa. Cioè, dirvi che parlo da una parte come <<<<monaco, con la libertà, la parresia che i monaci abbiamo avuto sempre in tutta la storia della Chiesa da quasi duemila anni. Parlo con la libertà che mi dà l’essere monaco, ed allo stesso tempo anche con la libertà che mi dà l’essere vescovo in un incontro fraterno tra vescovi orientali cattolici di Europa. Forse anche con la libertà di essere uno tra i più antichi (non dico vecchi!) testimoni di questi nostri incontri, iniziati nel lontano 1997 a Nyíregyháza (a cui partecipai già) e continuati quasi ininterrottamente per parecchi anni fino ad oggi. Monaco-vescovo può sembrare una contradizione, chi lo sa…! La tradizione monastica ha ripetuto quella massima / proverbio che dice: “…i monaci debbono fuggire sia le donne, che possono loro indurre in tentazione, fargli cadere in peccato ed allontanarli dalla loro vita in solitudine; sia fuggire anche i vescovi che, ordinando loro preti, possono a loro volta anche allontanarli dalla loro solitudine”. Potete chiedermi: “E cosa accade quando un monaco viene ordinato non soltanto prete ma addirittura vescovo?” “Allora, cari miei…, vi posso assicurare che la solitudine quella più vera e pungente, te la porti addosso con te, te la ritrovi ogni giorno con te”.

         Perché ho fatto questa premessa? Perché l’anno scorso, concludendo il nostro incontro -posso dire memorabile- a Nea Makri, ad Atene, quando si è trattato di scegliere prima il luogo dell’incontro di quest’anno (e la scelta fu facile e ne siamo grati al vescovo Virgilio e alla sua eparchia che ci accoglie!), e poi anche la scelta del tema da trattare, quando è venuto fuori il tema piuttosto largo sui “Rapporti vescovo-sacerdoti”, mi sono permesso di aggiungere al mio intervento il sottotitolo “L’umanità del sacerdote”… oppure “Il sacerdozio cristiano nella sua umanità”. Perché? Cosa intendo con questa “umanità del sacerdote / del vescovo”? Con questo vivere e vedere “Il sacerdozio cristiano nella sua umanità”? Cercherò di dare delle riflessioni a questa mia domanda, e magari alla fine possiamo / potete arrivare a trovare una risposta / delle risposte, qualche intuizione, qualche aiuto a partire da questo mio intervento.

         Propongo quattro punti: due di riflessione e due lectio patristiche di due testi di tradizione siriaca.

 

1.  pensum servitutis nostrae…il peso, la carica, della nostra servitù, del nostro servizio…

         San Benedetto nel capitolo 49 della sua Regola e in altri capitoli, parla del “lavoro”, “dell’opera”, “dell’impegno” del monaco, come un …pensum servitutis nostrae…. Come un peso, carica, lavoro, sforzo, un da fare… nel nostro servire. Il nostro servizio come monaci, e lo allargo al nostro servizio -la nostra diaconia- come preti, come vescovi, è un pensum, un peso, una carica, quasi uno sforzo ascetico fatto però sempre come servizio che ci è stato chiesto, dato, da un Altro. Il nostro è un servizio, una diaconia.

Quando il 2 febbraio 2016 fu pubblicata la mia nomina a vescovo ed Esarca apostolico in Grecia, il compianto confratello Franghiskos Papamanolis (1936-2023), allora vescovo emerito dell’isola di Syros nelle Cicladi in Grecia, ministero durato per ben quarant’anni, ed in quel 2016 lui era tuttora Presidente della Conferenza Episcopale Greca, mi chiamò per farmi gli auguri, assicurandomi la sua fraterna vicinanza e la sua preghiera. E da subito mi consigliò di leggere nella versione latina della Vulgata il testo paolino di 1 Tim 3,1: “…si quis episcopatum desiderat, bonum opus desiderat…” (…se qualcuno desidera l’episcopato, desidera un’opera…, una cosa buona…), e mi suggerì, allo stesso tempo “di spostare la virgola”. E, tra sornione e serio l’anziano vescovo greco mi spiegò cosa intendeva con questo gioco o movimento di parole o di virgole. Mi disse che, se la virgola si sposta dal verbo “desiderat” all’aggettivo “bonum”, la frase diventa: “…si quis episcopatum desiderat bonum, opus desiderat…”, che si può tradurre come: “… se qualcuno desidera un episcopato buono, desidera “un impegno, un lavoro, un’opera… (opus)”. Cioè, “fare bene il vescovo” è un peso, un lavoro, un impegno non da poco. E il caro vescovo Francesco concludeva la sua chiamata telefonica di augurio dicendomi: “…quindi, desiderare un buon episcopato, desiderare di essere un bravo vescovo è un peso, ti sarà una croce e dovrai darti da fare…”. Il nostro servizio, la nostra diaconia è anche una croce.

Quindi fare il vescovo, essere un buon vescovo, o almeno provarci, è un opus, un lavoro, una ascesi, un pensum, una croce. e cosa intendo con questo? E torno al sottotitolo del mio intervento. Il sacerdozio cristiano nella sua umanità… L’umanità del sacerdozio cristiano”.

         L’umanità del sacerdote / del vescovo… L’umanità su cui poggia il sacerdozio cristiano”. Don Luigi Giussani, in un suo scritto degli anni 90’ del XX secolo (uno scritto il cui contenuto è valido / validissimo tuttora oggi), affermava: “…nei nostri giorni, la più grande difficoltà per noi cristiani non è annunciare, predicare l’esistenza di Dio, bensì predicare, annunciare che il Verbo, il Figlio di Dio si è incarnato”. Annunciare / predicare l’incarnazione. La centralità dell’incarnazione, la realtà, la veracità dell’incarnazione del Verbo di Dio è la colonna portante della nostra fede. Le grandi crisi trinitarie e cristologiche dal IV secolo in poi, girano attorno a questo perno fondamentale, e le affermazioni e le soluzioni (sempre conciliari!) delle Chiese cristiane furono fatte attorno a questo aspetto / a questo asso centrale, fondamentale della nostra fede. E questo fino all’Iconoclasmo, l’ultima grande crisi cristologica (se veramente sia stata l’ultima!), crisi che si muove attorno a questo tema: noi cristiani di Oriente e di Occidente veneriamo le icone perché il Verbo di Dio veramente si è incarnato. Poi anche tutta la teologia dei sacramenti e delle “mediazioni umane” che formano il pensiero teologico, ecclesiologico ed antropologico delle Chiese cristiane, si fondamenta nell’incarnazione. E per questa ragione il diacono, il sacerdote, il vescovo siamo stati ordinati, toccando l’altare simbolo cristologico fortissimo, è stato invocato su di noi lo Spirito Santo per farci, per costituirci alter Christus. L’ordinazione episcopale ci fa veri vicari di Cristo. Per ché? Perché il Verbo di Dio si è incarnato, si è fatto uno di noi, e continua ad operare, a far presente la sua incarnazione salvifica per mezzo di noi. Deboli, fragili, peccatori…, ma sempre vicari suoi.

         Quindi, tornando al nostro argomento, potete chiedermi: per ché il sottotitolo “Il sacerdozio cristiano nella sua umanità?” Perché la nostra vita come cristiani in genere, come battezzati, e specialmente come sacerdoti e come vescovi, poggia su questa nostra umanità, che è anche, non lo dimentichiamo mai, quella che è stata pienamente assunta, salvata, e redenta da Cristo Signore. Quindi anche consapevoli che tutto quello che abbiamo vissuto, viviamo e vivremo come vescovi, di grazia e di peccato, di amore e di mancanza di amore (non dico di odio), di gioia e di sofferenza, di gaudio e di tristezza, Lui, il Signore l’ha pienamente assunto e salvato, redento, ricreato come amavano definirlo i Padri della Chiesa. Quindi un primo aspetto: questa nostra umanità è stata assunta e redenta -ed è tuttora amata e redenta- dal Signore. Ed è questa umanità, quell’umus, quella realtà, quella terra dove mette radici il nostro essere, il nostro vivere, il nostro operare come vescovi. Siamo uomini, siamo deboli, siamo peccatori… Siamo umanità redenta, salvata ed amata dal Signore. Umanità di cui il Signore continua a servirsi.


 

2.  L’umanità del sacerdote, nella sua forza.

         La Chiesa come luogo della compassione e della misericordia di Dio sull’umanità, certamente! Ma la Chiesa deve essere anche e soprattutto il luogo della compassione e della misericordia di Dio sui propri figli e specialmente su coloro che in essa, nella Chiesa, portiamo la croce, di Cristo e la nostra. E quale è allora la forza di questa nostra umanità? Il nostro essere vicini, accanto ai fedeli, certamente, ma soprattutto accanto ai sacerdoti, a coloro che con noi portano anche il peso del nostro servizio.

         Accanto ai sacerdoti nell’ascoltarli, nell’essere loro vicini nella gioia e nelle sofferenze. Sapendoci accorgere anche delle loro fragilità, delle loro sofferenze, dei loro problemi, della loro solitudine. È bella la immagine del vescovo che concelebra i Santi Misteri con il suo clero, ma è bella anche l’immagine del vescovo che concelebra con il proprio clero quando costui ha dei problemi, o quando costui ha delle gioie. La nostra umanità ci fa vicini sia nelle sofferenze sia nelle gioie.

Delle volte ci troviamo con una visione che può portarci a sottolineare che i vescovi dobbiamo essere vicini al popolo di Dio, implicati magari in tutte le questioni delle singole parrocchie. Questo non è possibile. Il primo compito del vescovo è essere pastore per i propri sacerdoti, ascoltarli, aiutarli, comprenderli e sostenerli. Non è un compito semplice ma è ciò a cui siamo tutti chiamati. Inoltre, l'impegno e l'attenzione per le vocazioni sacerdotali è un altro compito importantissimo per il vescovo, soprattutto in questo momento storico.

A volte ci ritroviamo con dei pastori molto dediti ai gesti eclatanti ma sono riluttanti nei confronti del loro clero. Se si presenta loro un sacerdote in difficoltà sono pronti a chiamare il Vicario: "Vai, vai dal vicario". Questo accade perché il popolo di Dio, spesso, è molto semplice e non porta problemi magari complessi come quelli che si ritrovano ad affrontare i parroci, i preti. Accontentare la vecchietta in parrocchia è molto più semplice, basta un sorriso ed una pacca sulla spalla; comprendere e aiutare il prete a volte per un vescovo diventa una vera e propria croce. Questo dipende da come vive il proprio ministero e quanto si fa influenzare dalle lotte e dalle divisioni nelle quali molto spesso vengono incasellati sia i vescovi che i preti. Quando questo clima inizia a respirarsi i risultati si vedono nell'assenza di vocazioni, nel clero diviso e scontento e nell'assenza di attività comuni e di fraternità che siano realmente sentimento del presbiterio e non imposizioni dall'alto che giungono quasi come torture.

L’umanità del sacerdozio cristiano nella sua forza si manifesta nella vicinanza -che non è una pacca sulla spalla-, ma un camminare accanto, sì, ma soprattutto davanti al gregge. Vorrà dire essere testimone del Vangelo che ci chiede di cercare la pecora smarrita, e di caricarcela sulle spalle, non di bastonarla! Ci chiede di annunciare e vivere il perdono fino a settanta volte sette. Essere uomini il cui cuore è stato evangelizzato, in cui il Vangelo di Cristo è la linfa, il sangue che scorre nelle sue vene.

E potete dirmi: quant’è vero e bello tutto questo. Ma in pratica delle volte è tanto difficile. Certamente, ma non dimentichiamo mai che è anche la nostra forza, il poter essere accanto al sacerdote o al confratello sofferente in momenti difficili, di scoraggiamento, di dura solitudine, di peccato anche, la nostra umanità ci spinge al perdono, alla ricerca della pecora smarrita, che smarrita lo è certamente, ma che la divino umanità del nostro ministero ci fa vicari di Colui che fu il primo a perdonare e ad amare senza preclusioni, senza limiti.

Vero, ed arriviamo al punto seguente.


 

3.  L’umanità del sacerdote, nella sua fragilità.

         Perché questa nostra umanità è anche fragile? Direi soprattutto in due aspetti (ce ne sono anche altri, tanti forse…): la solitudine ed il peccato.

         La solitudine. Ricordo qua la frase di san Paolo VI: “Il Papa è un uomo fragile, solo, terribilmente solo…”. Lui si riferiva al suo ministero petrino certamente, ma mi permetto di allargarla al nostro ministero come vescovi, come pastori di una Chiesa, come capi e padri di un gregge. La solitudine in cui tante volte ognuno di noi viene lasciato oppure vi ci chiudiamo, di fronte ai problemi, alle decisioni. “Veda Lei, decida Lei, Lei è il vescovo…”. I consigli diocesani, le assemblee…, servono certamente, ma delle volte servono per sentirsi più soli nella decisione da prendere. Alla fine della sessione del Sinodo dei Vescovi di 2023 mi domandavo quale sarebbe il nostro ruolo alla fine dell’assemblea, magari quest’anno 2024, fra un mese? Cioè, l’eventuale successo di questa assemblea ecclesiale sarà ad essa stessa attribuito; un eventuale insuccesso o le cose “auspicate mediaticamente” che non verranno a gala o a conclusione e quindi non applicate in definitiva, verranno a noi vescovi addebitate. Durante le sedute sinodali, di fronte all’abbondanza e anche alla ricchezza di tante presenze ed interventi, anche non episcopali nell’assemblea, mi veniva alla mente quasi un ritornello: “sì, ma… il 1° novembre, chi ritornerà in diocesi e chi riprenderà la croce dell’episcopato, saremo noi e soltanto noi”. Il sacerdozio cristiano nella sua umanità tante volte fragile. Che porta a situazioni spesso di depressione -con tutte le conseguenze e collegamenti vane dipendenze che questa può generare nella vita del vescovo o del sacerdote con qualche anno di ministero. Oppure le conseguenze immediate di paura, di rifiuto di accettare, di caricare questa croce. Tutti conosciamo confratelli vescovi nei primi mesi o anni di ministero caduti in situazioni di depressione, oppure di rifiuto del ministero a poche settimane dell’ordinazione episcopale. Per far fronte a questa solitudine, a questa vita del vescovo come fragilità? Non ho soluzioni, ma sì dei suggerimenti: La preghiera. Specialmente la preghiera dei e con i Salmi / La lectio divina / Amicizia / Interessi intellettuali ed artistici.

Il peccato. Peccato di omissione. Direi che questo secondo punto è una conseguenza del primo. Il peccato di omissione è quel peccato che commettiamo quando di fronte a delle situazioni non facili, complesse e soprattutto che toccano il cuore umano delle nostre pecore -specialmente se queste sono preti- ci risparmiamo di intervenire.

Per paura? Ci sono sicuramente dei preti, delle figure in diocesi che forse incutono timore. Paura di affrontare persone e situazioni che forse potrebbero mettere in questione la nostra stessa situazione, la nostra stessa vita o modo di vivere. La paura dello scontro, di quella stessa persona che incute o ci incute timore, sicuramente più a livello psicologico ed emotivo che non reale.

Per rispetto umano? Per rispettare la libertà e la coscienza dell’altro. Anche a nome di un comodo “non invadere” lo spazio dell’altro.

Per pigrizia? Sì, per pigrizia. Chi te lo fa fare? Oppure quel: “Vai dal vicario…”. Questa è pigrizia malsana che ci porta a commettere il peccato di omissione. Pigrizia, mancanza di pazienza e di sopportazione. C’è sempre il prete che sa soltanto lamentarsi: dal “tutto va male…” al “io sono la vittima, non sono considerato come si dovrebbe, non mi…”. Papa Francesco parlava del vizio del “chiacchiericcio”, e vi propongo di introdurre forse come neologismo ma niente di nuovo il “lamenticcio”.

Quindi il peccato di omissione che ci fa in fondo complici di una situazione che non va o non andrebbe omessa mai.

Quest’umanità del nostro sacerdozio, che è l’umanità del Signore Gesù Cristo, che è l’umanità di ognuno di noi, forte e debole, sicura nella/per la grazia e allo stesso tempo fragile nel/per il peccato, che ci fa e porta a vivere il nostro servizio come una donazione totale e allo stesso tempo come una croce, è l’umanità rispecchiata nei testi e autori cristiani dal III al XXI secolo.

 

4.  Ex cursus. Dadisho Qatraya.

“…e vedrà che è un’opera bella…”.

Fare il vescovo nel VII e nel XXI secolo.

 

         La chiamata del vescovo Francesco di cui sopra, mi è ritornata alla memoria con la lettura del “Commento al Paradiso dei Padri” di Dadisho Qatraya, monaco siro orientale vissuto nella seconda metà del VII secolo nel Beth Qatraya, regione costiera ad ovest del Golfo Persico, zona molto importante per la fioritura di monasteri, di figure e testi monastici di tradizione siriaca. Si tratta della risposta che Dadisho dà ai suoi discepoli monaci su diverse questioni sia ecclesiali, sia spirituali. Il testo riporta domande e risposte tra i discepoli e Dadisho che porta al tema del sacerdozio e più concretamente dell’episcopato, e alle sue difficoltà, al peso che suppone il ministero di “vegliare sul gregge”, e quindi alla tentazione, reale e non letteraria, di fuggire sia prima sia dopo l’accettazione di questo giogo, di questo peso, di questo opus, di questa croce. Si tratta di un testo che ha un’attualità direi unica e per questo mi permetto di trascriverne la traduzione e condividerlo.

Domanda dei fratelli. Il beato (apostolo) Paolo afferma: “Colui che desidera l’episcopato, desidera una opera buona” (1Tim 3,1), e il beato Interprete (Teodoro di Mopsuestia), nel suo “Libro sul sacerdozio”, dà un avvertimento al suo amico Ciriaco per convincerlo di rimanere nell’ordine episcopale che aveva ricevuto. Come mai allora il santo uomo Paolo, vescovo della città di Qentos in Italia e che fu collaboratore di Giovanni di Edessa, dopo quindici giorni sul trono episcopale si accorse della moltitudine di distrazioni e chiese a Dio di poter dimettersi dal suo ufficio, e Dio glielo permise per mezzo di una rivelazione?

Risposta di Dadisho. 1 Non c’è niente di più amato e prezioso davanti a Dio della giustizia dei giusti. Essa è la causa di tutte le cose buone che accadono sulla terra. Cioè, voglio dire il sacerdozio e tutti gli altri doni che in cielo vengono dispensati dal grande Sacerdote della nostra confessione di fede, nostro Signore Gesù Cristo. Infatti, san Paolo si accorgeva che molti, mancati di saggezza e di una buona condotta, desideravano di essere messi a capo (desideravano la preeminenza, il presiedere), a causa della loro vanagloria, mentre che molti altri che avevano acquistato la conoscenza con una condotta nobile, fuggivano l’essere messi a capo (la preeminenza, il presiedere) a causa della loro umiltà. Siccome questi fatti mettono inciampi all’insegnamento e alla pratica della fede cristiana, afferma: “Colui che desidera l’episcopato, desidera una opera buona”, e con questo vuole dire: “Io non metto impedimenti né spingo a ciò (all’episcopato). Infatti, se io spingessi, tanti andrebbero di corsa verso il sacerdozio, anche gli stupidi e i malvagi; ma, se io mettessi impedimenti, nessun saggio neppure virtuoso si avvicinerebbe (all’episcopato)”.

2 E allora? Colui che vuole essere vescovo, o sacerdote, o superiore o guida (di una comunità), non deve guardare all’onore che viene dal sacerdozio e non deve desiderarlo per ragioni di onore o di potere. Deve guardare invece all’opera (lavoro, sforzo, opus…) del sacerdozio, cioè i duri e molteplici sforzi (lavori) che sono ad esso collegati. Ha la saggezza naturale e si istruisce nei libri Santi? È saldo nella fede e si impegna a mantenere la disciplina della sua vita? In più acquista anche delle virtù che vanno oltre a quelle comuni, cioè la bontà, la dolcezza, la serenità, l’umiltà, la misericordia, il perdono, il discernimento e la comprensione? È stato scelto dalla grazia divina per i lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio e che servono la volontà dello spirito del sacerdozio, e non a causa delle passioni e per l’intervento di adulatori? Che quest’uomo ne sia convinto, e vedrà che è un’opera bella.

3 Il beato Interprete (Teodoro di Mopsuestia) diede un consiglio al suo amico Ciriaco per convincerlo a rimanere fedele all’ordine sacerdotale e (diede) cinque ragioni. Primo, perché l’aveva ricevuto da molto tempo. Secondo, perché era stato scelto da tanti uomini timorosi di Dio. Terzo, a causa della sua saggezza e conoscenza. Quarto, a causa della sua vita nella virtù. Quinto, a causa della sua grande umiltà. Infatti, questa lo costringeva a rifiutare l’ordine non soltanto all’inizio della sua elezione, ma anche dopo che era stato costretto (ad accettare) per la forza, continuava a rifiutare con ardore.

4. Il beato Paolo fu un uomo giusto e virtuoso, era umile e disprezzava sé stesso. Amava il silenzio e la solitudine. Per questa ragione, né le distrazioni che venivano dell’essere messo a capo, né i molteplici impegni, non gli giovavano. Quindi, quando tantissime persone lo costrinsero (ad accettare) il sacerdozio, dopo quindici giorni con lacrime e tanta sofferenza chiese al Signore di accettare le sue dimissioni, per poterlo servire in un modo di cui fosse capace e gli fosse di profitto, cioè un lavoro come manovale all’estero, nel disprezzo e l’umiliazione. Nella sua bontà, il Signore, vedendo la sua umiltà, accettò e lo fece per due ragioni: in primo luogo perché per lo stesso Paolo sarebbe stato di profitto; in secondo luogo, per evitare che tanti stolti desiderassero accedere al primo posto e quindi (evitare) le lotte che ne verrebbero fuori.

         Annotazioni al testo.

1.     Nel VII e nel XXI secolo, accettare l’episcopato, essere vescovo è una croce che il Signore dà ad alcuni, dandoci anche, ne siamo certi, per Sua misericordia e per Sua Grazia, la forza per portarla. Quel “episcopatum bonum” sorto dallo spostamento della virgola nel testo paolino proposto dal vescovo Papamanolis, sarà sempre Lui, il Signore, che è il primo ed unico grande επίσκοπος della sua Chiesa, che ci darà di portarlo a termine malgrado le nostre debolezze, le nostre imperfezioni, i nostri peccati, sempre guarite e redente dalla Sua Divina Grazia. Come non ricordare qua il testo di una delle più arcaiche preghiere di ordinazione in Oriente -preghiera con cui siamo stati ordinati anche noi: “La Divina Grazia che sempre guarisce ciò che è infermo e completa ciò che manca”.

2.    Tra i Padri della Chiesa, greci, latini, siriaci…, abbiamo esempi di figure che cercano di sfuggire o addirittura fuggono l’ordinazione sia presbiterale sia episcopale. Addirittura, abbiamo qualche esempio di “fuga, rifiuto, rinuncia…” avvenuta anche dopo l’ordinazione. Il grande Isacco di Ninive (autore siriaco del VII secolo), consacrato vescovo di Ninive, dopo cinque mesi di episcopato “per una ragione che soltanto Dio conosce” -come afferma un suo biografo-, si ritirò in un monastero dove si applicò allo studio della Sacra Scrittura e alla vita solitaria. Quindi le risposte del nostro autore siriaco del VII hanno una grande validità ed attualità, e se volete potete aggiungere quel “nihil novum sub sole” per quanto ci tocca di vivere anche nei nostri giorni, nella vita della Chiesa, quando leggiamo di confratelli che poco prima o poco dopo l’ordinazione hanno rassegnato le loro dimissioni.

3.    La domanda fatta dai discepoli a Dadisho nel nostro testo, parte dal confronto tra due affermazioni autorevoli: da una parte san Paolo e Teodoro di Mopsuestia, che confermano l’importanza e la bellezza del ministero episcopale ed incoraggiano ad accettare e a perseverare chi vi si trova o chi vi sia chiamato, e dall’altra parte il caso del vescovo Paolo a cui Dio concede di dimettersi dal ministero episcopale dopo quindici giorni dal suo inizio.

4.    La risposta di Dadisho la vediamo divisa in quattro punti. In primo luogo, il sacerdozio, l’episcopato è un dono che viene dato da Cristo stesso, e che paradossalmente può essere cercato o desiderato per vanagloria, oppure rifiutato per umiltà. E l’autore aggiunge in modo molto perspicace il suo commento al testo paolino di 1Tim 3. Per Dadisho l’episcopato è “…una opera buona”, e con questa affermazione né spinge alla sua ricerca, né mette impedimenti ad esso: “Io non metto impedimenti né spingo a ciò… Infatti, se io spingessi, tanti andrebbero di corsa verso il sacerdozio, anche gli stupidi e i malvagi; ma, se io mettessi impedimenti, nessun saggio neppure virtuoso si avvicinerebbe”. In secondo luogo, Dadisho descrive le virtù necessarie al vescovo e che gli permettono di portare a termine questa opera, questo peso: deve essere sapiente, istruito nei Libri Santi, saldo nella fede, ed avere quelle virtù che “vanno oltre a quelle più communi”: bontà, dolcezza, serenità, umiltà, misericordia, perdono, discernimento, comprensione. Notate che queste sono delle virtù umane e cristiane e che spesso paradossalmente sono quelle a noi vescovi più contestate. Da chi? Da un clero delle volte intransigente? Forse, ma soprattutto da un mondo in cui “bontà, dolcezza, serenità, umiltà, misericordia, perdono, discernimento, comprensione” non sono più non dico già di moda, ma non sono neppure accettate e tollerate. Ed infine sottolinea che la scelta viene da parte del Signore –“…dalla grazia Divina…”-, e attraverso le mediazioni umane: “…È stato scelto dalla grazia divina per i lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio…. Che quest’uomo ne sia convinto e vedrà che è un’opera bella” (la parola siriaca potrebbe essere tradotta anche come “splendente”). In terzo luogo, Dadisho riporta i consigli dati da un uomo saggio ad un vescovo che era tentato di lasciare, di dimettersi dal suo ministero, spingendolo alla perseveranza: “Primo, perché l’aveva ricevuto da molto tempo. Secondo, perché era stato scelto da tanti uomini timorosi di Dio. Terzo, a causa della sua saggezza e conoscenza. Quarto, a causa della sua vita nella virtù. Quinto, a causa della sua grande umiltà”. Tra queste cinque ragioni, mi piace sottolineare la seconda, cioè il ruolo della Chiesa (e qua si può pensare al ruolo del sinodo) nella scelta del vescovo: “…perché era stato scelto da tanti uomini timorosi di DioIn quarto luogo, Dadisho torna a parlare del vescovo Paolo, a chi il Signore accetta le dimissioni dal ministero episcopale, affinché siano un esempio per tanti, cioè da una parte la vita santa nella virtù dello stesso Paolo, e dall’altra l’esempio che ne viene fuori per tanti: “Quindi, quando tantissime persone lo costrinsero (ad accettare) il sacerdozio, dopo quindici giorni con lacrime e tanta sofferenza chiese al Signore di accettare le sue dimissioni… Nella sua bontà, il Signore, vedendo la sua umiltà, accettò e lo fece per due ragioni: in primo luogo perché lo stesso Paolo ne avrebbe tratto profitto; in secondo luogo, per evitare che tanti stolti desiderassero accedere al primo posto e quindi (evitare) le lotte che ne verrebbero fuori”.

5.    Nel VII secolo, come nel XXI secolo, di fronte al peso, alla responsabilità, all’opus che è l’episcopato -un opus che ci confronta tante volte con la propria solitudine nel ministero che ci viene affidato-, ed anche di fronte alla propria fragilità, alla propria umanità direi, la tentazione del rifiuto, del dire di no prima o dopo l’ordinazione episcopale, è molto reale e fino ai nostri giorni è una notizia che continua a sorprenderci, a colpirci, e a chiedercene il perché. Non ho la pretesa di avere delle soluzioni o dei rimedi, semplicemente rimando a qualcosa che dovrebbe farci riflettere, cioè, avere sempre presente l’umanità del sacerdote -vescovo, prete o diacono che sia-, quell’umanità assunta e redenta dal Signore nella sua incarnazione e che rimarrà povera, fragile, sola fino alla sua e nostra croce.

6.    L’episcopato come una croce, un giogo, un peso, è quell’opus paolino. Durante le sedute del Sinodo dei vescovi del 2023, ascoltando gli interventi di tanti e tanti membri di quell’assemblea ecclesiale, uomini e donne da tante parti e Chiese del mondo, percepivo in me un sentimento contrastante e riconosco non privo di tensione, di perplessità: da una parte la ricchezza che poteva supporre l’ascoltare la loro esperienza, i loro suggerimenti; dall’altra parte sentire molto viva la consapevolezza, la certezza che alla fine delle sedute, saremo noi ed unicamente noi i vescovi, i veri padri sinodali, che tornando nelle nostre diocesi, tornando in prima fila, riprenderemo la croce, il giogo, l’opus che è il “vegliare sul gregge”.

 


5.  Ex cursus. Sant’Efrem. Inni di Nisibi.

…per raccogliere da sotto i tavoli le briciole piene di vita.

         Un ultimo testo che vorrei condividervi è preso dagli inni di sant’Efrem di Nisibi (+373). Tra le raccolte del santo diacono siriaco, voglio soffermarmi in queste pagine molto brevemente nei suoi Carmina Nisibena, cioè gli Inni di Nisibi, e in questa raccolta che è una tra le più abbondanti di Efrem, fare una lettura rapida con qualche annotazione di alcune strofe degli inni dal XIII al XVI, soffermandomi specialmente nell’inno XV.

         Negli inni XIII e XIV Efrem presenta la figura dei tre vescovi di Nisibi a cui lui ha servito come diacono: Giacomo, Babu e Vologeso. In diverse delle strofe di questi due inni, Efrem li enumera di seguito facendogli susseguire nell’ordine da primo a terzo, ed indica le virtù e i fatti portati a termine da questi tre vescovi. Mi soffermo nelle strofe 2 a 4 dell’inno XIV.

         2.Il buon lavoro (ascesi, ܥܡܠܐ) del primo ha arato (lavorato, preparato) la terra col suo sforzo (afflizione, ܐܘܠܨܢܐ). Il pane ed il vino di quello di mezzo (il secondo nella lista) hanno riparato (sanato, guarito) la città (fortificata) nella sua rovina. Nell’afflizione, il discorso dolce dell’ultimo (il terzo) ha addolcito la nostra amarezza.

         3.Il primo ha lavorato la terra col suo sforzo e ne ha sradicato spine e rovi. Quello di mezzo l’ha circondata con la sua chiusura (mura) e coi riscattati l’ha circondata. L’ultimo ha aperto il granaio del suo Signore e ha seminato in essa le parole del suo Signore.

         4.Il primo sacerdote (pontefice, ܟܗܢܐ) per mezzo del digiuno aveva chiuso le porte delle bocche. Il secondo sacerdote, per mezzo dei riscattati ha aperto le bocche chiuse. L’ultimo ha forato le orecchie per appenderci un ornamento vivente.

         Commento. Notiamo in queste strofe, e si ritrova anche in altre degli stessi inni, la presentazione di seguito in ordine cronologico dei fatti avvenuti nel governo dei tre vescovi accennati. Il primo, Giacomo, che ha arato, preparato la terra, la Chiesa col suo lavoro, la sua ascesi (ambedue le parole sono sinonime in siriaco). Il secondo, Babu, che ha dovuto agire da medico e guaritore per le ferite del suo popolo. Infine, il terzo, Vologeso, che con la sua parola ed il suo modo di agire ha alimentato e abbellito il suo popolo: “L’ultimo ha forato le orecchie per appenderci un ornamento vivente”.

Negli inni XV e XVI Efrem si trattiene nella terza figura dei vescovi di cui ha parlato: Vologeso, e si serve per parlare di lui di due immagini, cioè il capo del corpo -si potrebbe tradurre anche la “testa”- e lo specchio. Presenta Vologeso come un vescovo celibe, buon predicatore e intellettualmente ben preparato, uomo di buon carattere, equilibrato e piuttosto tollerante, fatto che conduce il diacono poeta all’interessante ultima strofa, quella 22, che tramando alla fine.

 

         In questa mia lettura, che è soltanto un primo approccio a questi inni efremiani, mi soffermo soltanto nell’inno XV. Efrem parla del vescovo come il “capo/testa (ܪܝܫܐ)” del corpo di cui tutti sono e debbono sentirsi membra, cioè la Chiesa. Il vescovo, il capo del corpo (ed il termine “membra (ܗܕܡܐ)” verrà usato letteralmente o sottinteso molte volte da Efrem in questi testi), deve dare a tutti il segno della rettitudine, deve essere per loro un esempio.

1.Se il capo non è dritto, le membra si mettono a mormorare; a causa di un capo che è storto, ne soffre il percorso delle membra, e costoro ne danno la causa al capo.

Efrem mette giustamente il vescovo come punto di riferimento ed anche, come ripeterà diverse volte negli inni e capita anche nella vita reale di ogni luogo e di ogni tempo, come una sorta di “punto di scarica” delle gioie e dei lamenti e difetti delle membra di questo corpo, della Chiesa.

 

2.E benché ora (nei nostri giorni) lui sia a posto, noi scarichiamo su di lui (il capo) le nostre brutte abitudini; e quanto di più se costui (il capo) fosse proprio riprovevole! Dio stesso è sempre soave, ma gli amareggiati si lamentano con Lui.

Efrem fa un’analisi molto chiara della situazione di qualsiasi comunità le cui membra sono sotto la guida di qualcuno che ne debba essere ed agire come loro capo. Anche se il capo del corpo è o riga dritto, le membra scaricano su di lui le loro amarezze, ed anche su Dio, che è sempre benevolo, svuotano le loro lamentele.

 

Dopo aver messo in guardia le membra sul come comportarsi verso colui che è il loro capo, Efrem ne elenca le virtù. Il testo stesso dell’inno è chiaro nel suo significato, nel suo contenuto:

3.Voi che siete membra, imitate il capo: acquistate la serenità (quiete ܫܠܝܘܬܐ) dalla sua purezza (ܫܦܝܘܬܐ), la benignità dalla sua dolcezza (mansuetudine), la purezza dalla sua santità (ܩܕܝܫܘܬܐ), e l’insegnamento (ܝܘܠܦܢܐ) dalle sue istruzioni.

4.Acquistate il buon senso (ܛܥܡܐ) dalla sua longanimità, la sobrietà dalla sua ponderazione, e il distacco (solitudine ܫܘܘܚܕܐ) dalla sua povertà (ܡܣܟܢܘܬܐ). Lui risplende nella sua pienezza, risplendiamo assieme a lui tutti noi.

5.Vedete: le sue parole ed i suoi atti sono misurati e ponderati. E guardate che anche i suoi passi hanno acquisito una andatura serena. Possiede un controllo totale su sé stesso.

Per Efrem il vescovo, il capo del corpo, è anche il maestro, colui che istruisce le sue membra ed esse a loro volta debbono imparare, istruirsi, quasi abbeverarsi da lui. Le virtù che le membra vedono nel capo, nel vescovo, virtù che lui ha già adesso, non virtù che dovrebbe avere ma che per Efrem veramente lui possiede già, essi le membra debbono acquisirle, accoglierle come esempio ed insegnamento dato a loro, ed il diacono poeta ne fornisce una bella lista. Il vescovo possiede la purezza (e qui dobbiamo indicare che il termine siriaco può indicare anche la bellezza, l’agire in modo bello ed onesto, la sincerità si potrebbe anche tradurre); la santità, termine sinonimo anche di castità, e la saggezza che abbiamo tradotto come istruzione, capacità di insegnare. Inoltre, il vescovo deve avere la longanimità, la ponderazione e la povertà. Da queste virtù del vescovo, le membra del corpo debbono acquistare le altre virtù che da quelle del vescovo sgorgano, sono adatte per loro: la serenità, come sinonimo anche di quiete, la benignità, la purezza come sinonimo anche di castità, la buona disposizione ad imparare. Avere anche il buon senso, la sobrietà, la capacità di distacco, e questo è un termine sinonimo di solitudine, quasi fosse il saper guardare a distanza le cose, il distacco dalle cose. Le membra del corpo risplendono quindi non di propria luce ma dallo splendore che viene loro dal capo di questo corpo. Infine, Efrem nella strofa 5 indica come l’agire del vescovo in parole ed in opera è anche misurato e ponderato, addirittura nel suo camminare; lui è qualcuno che, prendendo la parola del diacono: “possiede un controllo totale su sé stesso”.

 

Nelle strofe 8-9 Efrem continua a non tanto a tessere la lode del suo vescovo, bensì a dipingerne l’icona.

8. È stato illustre tra i predicatori, dotto tra i lettori, eloquente tra i saggi, casto (sobrio, modesto ܢܟܦܐ) tra i suoi fratelli ed onorato tra i suoi cari.

9.In due modi (di vita ܥܘܡܪܝܢ) lui è stato solitario (monaco ܝܚܝܕܝܐ) durante i suoi giorni: santo (casto ܩܕܝܫܐ) nel suo corpo e solitario nella sua casa. In segreto ed in pubblico è stato casto.

         Efrem sottolinea come il vescovo è il pastore che sa predicare, che sa insegnare, che sa leggere (e qua il leggere sicuramente può andare anche oltre alla formale lettura dei testi). La dimensione di vita nel celibato del vescovo fa che Efrem lo presenti come una figura quasi monastica nella sua castità, nella sua vita come solitario, come monaco.

  

         Conclusione.

         Concludo con due testi presi ancora da questa raccolta efremiana. Il primo raccoglie due strofe prese dall’inno XIV, che sono due preghiere molto personali di Efrem, di una bellezza e profondità teologica veramente uniche. Ve ne do qua semplicemente la traduzione.

         25. Ed io che sono peccatore ed anche lavoratore, istruito da loro tre (i tre vescovi), quando vedranno il Terzo (Triduano, Colui dai tre giorni, Cristo, ܬܠܝܬܝܐ) che chiude la porta della sala delle nozze, tutti e tre chiederanno (intercederanno) per me affinché Lui apra un pochino per me la sua porta.

         26.E il peccatore, allo stesso tempo gioioso e timoroso, si accosterà per spingere ed entrare per guardare (sbirciare ܡܚܪ). E i tre maestri chiameranno con bontà l’unico discepolo, che raccoglierà da sotto i tavoli le briciole piene di vita.

 

         Il secondo testo è l’ultima strofa dell’inno XVI,22 che non ha bisogno di molto commento. Efrem ci dà quasi una fotografia, diciamo meglio una icona, della situazione in cui si trovava il suo vescovo Vologeso nel IV secolo, si trovano e ci troviamo a vivere tanti chiamati ad essere il capo del corpo che è la Chiesa, che è ogni Chiesa cristiana, da Oriente ad Occidente, dal IV al XXI secolo. Lascio il testo a voi affinché ne cogliate l’acutezza, la sagacia e allo stesso tempo la profondità spirituale, psicologica ed ecclesiologica del diacono poeta del IV secolo.

 

22.Siamo noi stessi nel mettere in subbuglio (turbare, mettere confusione) la successione (delle cose) ed il buon ordine, perché nel tempo della moderazione (mansuetudine, longanimità, prudenza), ecco pretendiamo (vogliamo) una severità (durezza d’animo) che ci rimproveri (increpi fortemente) come se fossimo bambini!

          Dadisho, un monaco del VII secolo che ci ha portato alla realtà e alle difficoltà dell’episcopato già in quel momento assai travagliato per la Chiesa Siro Orientale e in qualche modo molto simile e vicino ai nostri giorni.

         Efrem di Nisibi che ha tratteggiato con un linguaggio poetico e teologico -ed anche ecclesiologico- la figura ed il ministero del vescovo nella Chiesa di tradizione siriaca nel IV secolo.

 La virgola del testo paolino di 1 Tim 3 di cui parlavo all’inizio, messa prima o messa dopo l’uno o l’altro dei termini non cambia che l’episcopato sia un “opus”, e qua sfruttiamo i significati, i sinonimi del termine: un’opera, un peso, un giogo, una croce…, che portiamo con la nostra umanità debole, fragile, tante volte sola…; amata però, e rafforzata, guarita, redenta da quella “Grazia Divina” che ci regge e che ci salva. E concludo con Dadisho: “È stato scelto dalla grazia divina per i lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio…. Che quest’uomo ne sia convinto e vedrà che è un’opera bella”.

 

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico

Vescovo titolare di Carcabia