martedì 11 novembre 2025

 

Iconostasi. Cattedrale della Santissima Trinità. Atene


“…fidanzata allo Spirito, spo­sata a Dio Padre…”

A proposito di alcuni titoli cristologici dati alla Madre di Dio in Oriente

 

Quando nel 431 il concilio di Efeso diede a Maria il titolo cristologico di Madre di Dio (Θεοτόκος), confermò la professione di fede nella vera incarnazione del Verbo eterno di Dio, un titolo -Madre di Dio (Θεοτόκος)- che già qualche testo liturgico e autore precedente aveva adoperato per indicare questo mistero centrale della nostra fede. Titolo cristologico e titolo mariologico, e questo doppio aspetto sarà una dimensione che lungo la storia delle Chiese e delle liturgie cristiane troveremo, specialmente nei testi delle celebrazioni liturgiche che sono, appunto, lex orandi e lex credendi.

In queste pagine, vorrei brevemente presentare una riflessione, quasi soltanto un percorso di lettura di testi liturgici orientali in cui troviamo, esento di qualsiasi polemica, lo svolgersi e direi la contemplazione di quella che è la fede delle Chiese cristiane di Oriente e di Occidente: il Figlio e Verbo di Dio, per noi uomini e per la nostra salvezza, si è incarnato e si è fatto uomo, dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria. E di questa professione di fede, i titoli cristologici e mariologici allo stesso tempo, ne sono una manifestazione orante. Presento quindi, a modo di campione, alcuni dei titoli che l’Oriente cristiano dà alla Madre di Dio nei diversi testi liturgici.

21 novembre: Ingresso della Madre di Dio nel tempio.

Le diverse tradizioni liturgiche cristiane, sia di Oriente che di Occidente, celebrano come una grande festa il giorno 21 novembre, festa che porta come titolo: “Ingresso della Madre di Dio nel tempio”, ed è una festa che ha un’origine legata alla dedicazione di una chiesa nella Città Santa di Gerusalemme. Molti degli aspetti della festa, presenti nei testi liturgici, provengono dal Protovangelo di Giacomo, un apocrifo che ha un influsso notevole su diverse feste liturgiche sia in Oriente che in Occidente. L’Ingresso della Madre di Dio nel tempio è una festa che ci offre la possibilità di meditare e riflettere sul mistero centrale della nostra fede cristiana, cioè l’incarnazione dell’eterno Figlio e Verbo di Dio.

         Vorrei passare in rassegna alcuni dei titoli che troviamo riferiti alla Madre di Dio nei testi liturgici di questa festa, e mettere in rilievo che i titoli dati a Maria nelle liturgie cristiane sono sempre dei titoli in rapporto con Cristo e in riferimento al mistero dell’incarnazione, e quindi anche alla Madre di Dio. Il titolo che troviamo più presente, e che nasce dalla stessa festa celebrata, è quello di “tempio di Dio”. Maria bambina, portata, introdotta nel tempio di Dio, diventa, per l’incarnazione, essa stessa tempio del Dio vivente. In questo contesto, troviamo riferimenti non soltanto di carattere cristologico ma anche di carattere trinitario:

“… la Madre di Dio, che è tempio di Dio, …è introdotta nel tempio…. …tu hai generato al mondo il Verbo, pane di vita: come suo tempio eletto e tutto imma­colato, fosti mi­sti­camente fidanzata allo Spirito, spo­sata a Dio Padre”.

         La dimensione sponsale che in Maria prende il mistero dell’incarnazione fa che la liturgia gli dia titoli che ci avvicinano alla simbologia dello sposalizio: “…fidanzata allo Spirito…, sposata a Dio Padre”. Un altro dei tropari ancora recita: “Dopo la tua nascita, o Sovrana sposa di Dio, sei giunta nel tempio del Signore”. La dimensione sponsale di Cristo in riferimento a Maria e alla Chiesa la troviamo poi presente in altri testi della stessa tradizione bizantina. Specialmente nelle liturgie della Settimana Santa, Cristo è presentato come “Sposo”: “Ecco lo Sposo viene nel bel mezzo della notte…” (tropario del Lunedì Santo). Le nozze di Cristo Sposo con la Chiesa, con l’anima di ogni cristiano avvengono quindi nel talamo, nella camera nuziale che è la sua croce: “Vedo, o mio Salvatore, il tuo talamo adorno, e non ho la veste per entrarvi. Fa risplendere la veste dell’anima mia, o datore di luce, e salvami” (tropario della Settimana Santa). La dimensione sponsale porta anche a presentare Maria come “sposa”, sempre strettamente vincolata al mistero dell’incarnazione: “Gioisci, sposa senza nozze” (Inno Akathistos).

“Il Creatore di tutte le cose, l’Artefice e Sovrano, pie­gan­dosi con ineffabile compassione, solo per il suo amore per gli uomini, ha avuto pietà di colui che con le sue mani aveva formato e che vedeva caduto, e si è compiaciuto di rialzarlo, riplasmandolo in modo più divino, con il proprio annientamento…. Egli prende pertanto Maria, vergine e pura, come mediatrice del mistero, per assumere da lei, secondo il suo disegno, ciò che è nostro: essa è celeste dimora”.

L’incarnazione, l’annientamento di Dio -nel tropario citato il riferimento a Fil 2 è evidente-, è per l’uomo caduto una nuova creazione di cui Maria diventa mediatrice in quanto offre a Dio la nostra natura umana: “Egli prende pertanto Maria, vergine e pura, come mediatrice del mistero, per assumere da lei, secondo il suo disegno, ciò che è nostro…”.

Piena di gioia, Anna degna di ogni lode esclamava: Ri­cevi, Zaccaria, colei che i profeti di Dio hanno annun­ciato nello Spirito; introducila nel tempio santo, per essere san­tamente allevata e così divenire divino trono del So­vrano dell’universo, sua reggia e lettiga, sua fulgida dimora”.

Anna, vera grazia divina, conduce con gioia al tem­pio del Dio la pura sempre Vergine… e dice: Va’, figlia, a colui che a me ti ha data: sii dono votivo e profumo di soave odore. Entra nei penetrali, apprendi i mi­ste­ri e preparati a divenire amabile e splendido taberna­co­lo di Gesù…”.

         Questi due tropari mettono in bocca di Anna, la madre di Maria, quasi una professione di fede nell’incarnazione del Figlio e Verbo di Dio.

         La liturgia bizantina, anche quella di tradizione siriaca, spesso si serve di immagini cristologicamente contrastanti: “…celebriamo spiritualmente una festa solenne, e piamente accla­miamo la Vergine, figlia di Dio e Madre di Dio, che viene condotta al tempio del Signore”. Tropari di altre feste liturgiche useranno ancora questo linguaggio cristologicamente per via di contrasto: “Cristo …nato dal Padre senza madre, nato dalla Madre senza padre”.

         Nel contesto della celebrazione del mistero pasquale di Cristo, troviamo nelle tradizioni orientali, anche il titolo di “agnella” dato alla Madre di Dio.

Vedendoti inchiodato alla croce, Signore, l’agnella, la Madre tua, sbigottita gridava: Che è questa visione, Figlio amatissimo?... L’agnella, vedendo sulla croce te, il suo agnello, trafitto dai chiodi, atrocemente sconvolta gemeva e tra le lacrime diceva: In quale modo muori, Figlio mio, per voler lacerare il documento scritto del debito del primo creato, Adamo, e riscattare dalla morte tutto il genere umano!... Agnella che hai partorito l’agnello immacolato venuto a sanare, o tutta pura, il peccato del mondo intero con il suo proprio sangue…: rivesti me, spoglio della divina incorruttibilità, del manto della divina grazia fatto con la lana del tuo agnello”.

         Maria, con l’immagine dell’agnella è associata al sacrificio di Cristo, in un contesto chiaramente cristologico che, nel tropario ora citato ha inoltre una dimensione anche ecclesiologica: “…rivesti me, spoglio della divina incorruttibilità, del manto della divina grazia fatto con la lana del tuo agnello”. Il cristiano, per mezzo dei sacramenti ricevuti nella Chiesa, è rivestito con la “lana” dell’agnello che è Cristo.

 

I titoli dati a Maria nelle diverse Chiese cristiane di Oriente e di Occidente suppongono una lettura in chiave allegorica dei testi veterotestamentari, seguendo la tradizione cristiana dai primi secoli fino ai nostri giorni. Nelle liturgie cristiane troviamo molti testi che danno a Maria dei titoli cristologici a partire da testi veterotestamentari. Ad esempio, molti versetti dei salmi, del salmo 44 ad esempio, ed i testi profetici, specialmente Is 7, Ezechiele 44 ed altri, vengono letti in chiave cristologica.

“Aprirò la mia bocca, si colmerà di Spirito, e proferirò un discorso per la regina Madre (salmo 44,2-10): mi mostrerò gioio­samente in festa e canterò lieto il suo ingresso nel tempio”.

“La porta gloriosa, inaccessibile ai pensieri (Ez 44,1ss), var­cate le porte del tempio di Dio, ci invita ora a riunirci per godere del­le sue divine meraviglie”.

“Gridalo, o Davide, che cos’è questa festa? Non è per colei che un tempo hai celebrata nel libro dei salmi come divina figlia di Dio e vergine? Per la quale hai detto: Saranno misticamente condotte al re le vergini dietro di lei e le sue compagne? (salmo 44,15)...”.

“Il monte adombrato che un tempo Abacuc vide e preannunciò (Ab 3,3), entrando nei penetrali del tempio è tutto fio­rito di virtù e ha ricoperto della sua ombra i confini della terra… …o Cristo, dalla Vergine sei germo­gliato (Is 11,1), dal bo­scoso monte adombrato (Ab 3,3), o degno di lo­de: sei venuto in­car­nato da una Vergine ignara d’uo­mo, tu, immateriale e Dio”.

         Infine, diversi dei tropari della tradizione liturgica bizantina, raccolgono, quasi intessendole tra di esse, delle citazioni veterotestamentarie lette in chiave cristologica e mariologica:

Meravigliosamente, o pura, la Legge ti ha prefi­gurata come tenda e urna divina, come singolare ar­ca, velo e ver­ga, tempio indissolubile e porta di Dio; e ci insegna così ad acclamare: O Vergine pura, veramente tu sei elevata al di sopra di ogni creatura…. …un tempo l’assemblea dei profeti ha preannunciato come urna, verga, tavola della Leg­ge e mon­tagna non tagliata, Maria, la divina fanciulla, con fede celebriamo: perché oggi è introdotta nel santo dei santi per esservi allevata per il Signore”.

 

         Severo di Antiochia e Giorgio Warda.

         Quasi a modo di appendice di questo percorso rapido sui testi liturgici, propongo due esempi di autori cristiani che parlano della Madre di Dio: Severo, patriarca anti calcedoniano di Antioquia nel VI secolo, e Giorgio Warda, autore siro orientale del XIII secolo.

         Di Severo, accenno all’Omelia Cattedrale XIV, predicata nel primo anno di episcopato ad Antiochia, il 2-3 febbraio 513. In essa Severo sottolinea come si debbano onorare i profeti, gli apostoli e i martiri in quanto essi hanno contribuito all’economia di Cristo: “I profeti hanno preannunciato il mistero, gli apostoli hanno confermato il mistero, i martiri hanno confessato il mistero”. E prosegue affermando che “la Madre di Dio è profetessa, apostolo e martire. È la profetessa annunciata da Isaia, è Madre di Dio, Vergine, che genera l’Emmanuele”, e qua Severo applica la profezia di Isaia a Maria in un contesto cristologico. “Maria è anche apostolo; essa è con gli apostoli (Atti 1,14); essa annuncia anche per mezzo della sua concezione verginale. Infine è anche martire a causa del giudizio temerario di Giuseppe, della fuga in Egitto a causa di Erode”. La stessa festa del 21 novembre, di cui sopra, ha un tropario che quasi riecheggia quanto detto da Severo: “Tu, annuncio dei profeti, gloria degli apostoli, vanto dei martiri e rinnovamento di tutti i mortali… Noi onoriamo dun­que il tuo arrivo nel tempio del Signore…”.

          Giorgio Warda è uno dei principali innografi della tradizione ecclesiale e liturgica siro orientale, vissuto tra a fine del XII e l’inizio del XIII secolo ad Arbela, nell’attuale Iraq. Il nome Warda (che significa rosa in siriaco) è un soprannome legato alla raccolta delle sue composizioni poetiche presenti nei libri liturgici siro orientali. Presento brevemente un frammento di uno degli inni di Giorgio dedicati a Maria, inno che contiene una serie di versetti in cui il poeta teologo fa una lettura in chiave mariologia e soprattutto cristologica di alcuni salmi o versetti dei salmi, presentandone un’esegesi assai originale. L’autore applica i versetti salmici alla vita stessa di Maria, presentata soprattutto come modello di ogni cristiano che vive nella sua vita, quasi incarnandoli, i versetti stessi dei salmi.

“Ventidue salmi cantati da Davide, è a lei (Maria) che convengono. Il primo indica tutta sua perfezione e la sua purezza: «Beato l'uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori… ma nella legge del Signore trova la sua gioia…». Il terzo sulla la sua persecuzione: « Signore, quanti sono i miei avversari! Molti contro di me insorgono »; ed il quarto la sua pace: «…perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare».

          Sono dei salmi che si adattano a Maria, al cristiano e alla Chiesa stessa:

“Il sedicesimo sulla sua perseveranza: «Ho detto al Signore: Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. », il diciassettesimo la sua limpidezza: «Saggia il mio cuore, scrutalo nella notte, provami al fuoco: non troverai malizia… Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine. », e la lode che segue a questo fu cantata per lei da suo padre giusto”.

Altri salmi portano l’autore ad esaltare la piena fiducia e dedizione di Maria nei confronti di Dio, dedizione che si manifesta con l’immagine dell’abitare nel tempio e, quindi, nel diventare tempio stesso di Dio, per l’incarnazione del Verbo nel suo grembo:

“E il sessantunesimo (parla) del suo nascondimento: «Per me sei diventato un rifugio… Vorrei abitare nella tua tenda per sempre, vorrei rifugiarmi all'ombra delle tue ali», e la sua liberazione nei due (salmi) che seguono. E nell’ottantaseiesimo (si dice) che il Figlio dell’Altissimo ha abitato in lei: «Si dirà di Sion: “l'uno e l'altro in essa sono nati e lui, l'Altissimo, la mantiene salda». E il salmo novantunesimo (parla) degli angeli che custodiscono il suo corpo: «Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie», e il salmo centouno (annuncia) che (il Figlio) è apparso nel mondo per mezzo suo.”

          Infine l’autore aggiunge ai testi salmici anche Ezechiele, Cantico dei Cantici e Matteo, quasi a completare e mettere in risalto l’insieme della Bibbia nell’esegesi cristologica, mariologica ed ecclesiologica, coronandola con il riferimento all’incarnazione del Verbo di Dio nel grembo verginale di Maria:

“È colei che non ha conosciuto uomo, ed è la terra che soltanto il Signore ha seminato. Lei è la porta di cui parla il Signore per mezzo del profeta Bar Buzi (Ezechiele): «Sarà chiusa e nessuno vi entrerà, perché (soltanto) il Signore entrerà e ne uscirà». Lei è la fonte sigillata da cui tutto il mondo è dissetato. Lei è il tesoro intatto, da cui si arricchiscono tutti gli uomini. È colei in cui abitò Dio, e da lei risplendette il Figlio di Dio. Lei è la discendenza di Eva, per mezzo di cui fu cancellata la maledizione di Eva. Lei ha portato Colui che porta l’altezza e la profondità, e in lui si radunano. Lei ha partorito il datore di vita, Dio e uomo al di sopra della natura”.

          Si tratta quasi soltanto di una lista senza commento di ventidue versetti salmici che l’autore applica a Maria, e costituisce quasi un unicum nell’esegesi siro orientale di testi veterotestamentari.

 

         Conclusioni.

La mariologia, in Oriente ha un ampio respiro cristologico ed ecclesiologico. I titoli ed i simboli, sono chiari, forti e direi anche osati, ed includono, possiamo dire situano la Madre di Dio direttamente nel mistero dell’incarnazione e quindi della redenzione e della nuova creazione che avviene in Cristo per ognuno dei cristiani. Maria è sempre accanto a Cristo, alla sua destra quale “Regina assisa alla destra del Re” (cf., salmo 44,10). Accanto a Cristo, alla sua destra nell’iconografia: negli iconostasi, nei mosaici…; nell’anafora, come prima commemorazione dopo l’epiclesi, dopo che lo Spirito Santo ha santificato e consacrato i Santi Doni; anche nella protesi (la preparazione del pane e del vino nella tradizione bizantina), dove la particella di pane che commemora la Madre di Dio viene collocata alla destra di quella dell’Agnello.

Simbologia dei titoli cristologici e mariologici che diventa anche professione di fede, senza mai lasciare da parte, senza mai rinunciare ad una lettura specialmente dei testi dell’Antico Testamento in chiave allegorica, ed in continuità con la tradizione delle Chiese cristiane che hanno letto e leggono tuttora in questa chiave i testi biblici nella preghiera cristiana. E ciò suppone, esige direi di non rinunciare mai a una vera mistagogia che introduca i fedeli cristiani ad una comprensione cristologica e quindi cristiana dei testi letti e pregati. Senza una mistagogia cristiana i testi della Sacra Scrittura si sgretoleranno tra le nostre mani e potremmo raccoglierne soltanto, quasi piccole molliche sparse qua e là, quasi frammenti senza una unione tra di loro. Infatti, il “sacrificio” e la “mutilazione” -mi si consentano queste due espressioni forse forti- del Salterio subito in alcuni testi di preghiera negli ultimi decenni ne è un esempio patente. I salmi, in tutta la loro forza e bellezza direi esistenziali, tutto l’Antico Testamento, gli stessi Vangeli anche! non sono testi facili, anzi, ma la tradizione orante delle Chiese cristiane di Oriente e di Occidente, da Cristo stesso sulla croce fino ai nostri giorni gli ha pregati e ha insegnato i fedeli, guidandoli per mano, a fare proprie le parole di Davide, le parole di Cristo.

Come Chiesa Cattolica preghiamo la Vergine Maria con l’espressione: “Santissima Madre di Dio, salvaci”, perché è lei che ci dà il Salvatore, che ci mostra come Odigitria Colui che è il cammino, la verità e la vita, è lei che intercede supplicante “alla destra dell’Agnello, alla destra del Re”.

 

+. P. Manuel Nin

Esarca Apostolico

 


giovedì 6 novembre 2025


 

Ordinazione episcopale di mons. Raffaele De Angelis

Omelia / Riflessione al vespro del giorno 6 novembre 2025

 

         Carissimo mons. Raffaele De Angelis,

         ci siamo radunati questa sera, al tramonto del sole, per pregare il vespro, per cantare quella Luce gioiosa, quel Fos ilaròn, Cristo Signore che è il sole e la luce che nella vita della Chiesa e nella nostra vita non tramonta mai. E in quest’ora vespertina, quest’oggi vogliamo ringraziare il Signore per tutti i suoi doni, e pregare e accompagnarTi mons. Raffaele in questo momento importante della Tua vita: cioè l’ordinazione episcopale per la diocesi di Piana degli Albanesi. Ricordo con gioia, sia il giorno in cui sei arrivato al Collegio Greco, tanti anni fa, sia il giorno della Tua ordinazione sacerdotale ad Acquaformosa quel 5 novembre del 2006, quando ero rettore del Pontificio Collegio Greco. Non avrei mai immaginato che diciannove anni dopo sarei stato uno dei tuoi vescovi ordinanti.

         Radunati questa sera per accompagnarTi, carissimo mons. Raffaele, come vescovi, assicurandoTi una fraternità, un supporto umano che Ti saranno e Ti sono già garanzia che mai non sarai solo, mai Ti troverai da solo a gestire, a portare avanti un servizio che è anche una croce. Perché, se quest’oggi e nell’ordinazione dopodomani noi vescovi siamo qua, accanto a Te, è per dirTi che siamo fratelli, che siamo un Collegio, che ha Cristo come centro e come capo, e che ci fa tra di noi solidali nel ministero che ci è stato confidato.

Radunati questa sera per accompagnarTi, mons. Raffaele, anche tanti preti, di Piana degli Albanesi, di quella che da dopodomani sarà la Tua Sposa. Tanti preti anche di Lungro e di tante Chiese dell’Italia e dall’estero. Penso specialmente ai preti di Piana che Ti accompagnano e Ti accompagneranno nella preghiera -nella tradizione bizantina il sacerdote quando prepara la protesi e nella celebrazione della Liturgia ricorda sempre il proprio vescovo. Sacerdoti di Piana che Ti accompagnano nella preghiera certamente, ma anche, e soprattutto, nella fedeltà filiale e quotidiana, nell’ubbidienza anche questa filiale e pure quotidiana, nella stima e nell’amore verso di Te e verso la propria Chiesa di Piana degli Albanesi.

Radunati questa sera per accompagnarTi, mons. Raffaele, anche tante persone che Ti stimano e che Ti sono amiche e che Ti hanno accompagnato lungo la Tua vita fino ad oggi, dai Tuoi famigliari a tanti amici, anche coloro che negli anni romani, al Pontificio Collegio Greco, Ti siamo stati accanto.

Questa mia omelia avrà due momenti. Il primo in cui mi soffermo in qualche aspetto della celebrazione dell’ordinazione episcopale che celebreremo dopodomani, festa dei Santi Arcangeli e Angeli, tra cui Raffaele di cui porti il nome. Il secondo in cui lascio parlare per Te alcuni brevi pensieri presi da qualche testo di san Giovanni Crisostomo.

I.

Come forse sapete, l’ordinazione episcopale avviene nella prima parte della Divina Liturgia nella tradizione bizantina. Mentre l’ordinazione del diacono avviene alla fine dell’anafora, prima del Padrenostro, e quella del sacerdote dopo l’Ingresso con i Doni (il Grande Ingresso) e prima dell’anafora. Quindi quella del vescovo avviene dopo l’Ingresso con l’Evangeliario (il Piccolo Ingresso).

1.     Professioni di fede. Reciterai tre lunghe professioni di fede, in cui davanti a Dio e davanti alla Chiesa manifesterai, professerai la Tua fede in Colui, nostro Signore Gesù Cristo, che è Uno della Santa Trinità, e che per noi si è fatto veramente uomo, uno di noi. E manifesterai davanti alla Chiesa chi è il fulcro, il centro della Tua vita cristiana, Cristo Signore.

2.    Sarai presentato ai tre vescovi ordinanti e a tutta la Chiesa e girerai per tre volte attorno all’altare baciandone i quattro lati. L’altare che è mensa, ara e tomba. Mensa da dove prenderai i Santi Doni del Corpo e del Sangue di Cristo e gli darai ai fedeli. Tu ne sarai, come vescovo, il principale dispensatore. Quando celebra il vescovo è lui che elargisce, dà i Santi Doni ai preti, ai diaconi e ai fedeli. Ara dove avviene il sacrificio di Cristo ed il Tuo anche. Tomba, di Cristo, da dove Lui, il Signore risorto Ti darà la Sua forza e la Sua grazia. E girando attorno all’altare, baciandolo, manifesterai anche che Ti vincoli in modo stretto e inscindibile a Cristo che è il Tuo Signore, di Cui -del Signore- Tu, come vescovo diventi vicario, ed anche come amico e come Sposo della Tua Chiesa, e.

3.    Infine, il terzo momento. Ti inginocchierai toccando l’altare ed il primo vescovo ordinante ti imporrà le mani e reciterà su di Te le preghiere di ordinazione mentre gli altri due vescovi reggeremo l’evangeliario aperto sulle Tue spalle ad indicare che il Vangelo è il giogo soave e la carica leggera, comunque non lo dimentichi: giogo e carica.

Una volta ordinato sarai rivestito con i parati episcopali, sarai rivestito di Cristo. Rivestito, pensa a quello che il grande Benedetto XVI diceva in una sua omelia: il vescovo, il sacerdote, il diacono, si rivestono per sparire loro e manifestare un Altro che è il vero celebrante. Il papa dice: “In questo gesto esterno, la Chiesa vuole renderci evidente l’evento interiore e il compito che da esso ci viene: rivestire Cristo; donarsi a Lui come Egli si è donato a noi… Indossarli deve essere per noi più di un fatto esterno: è l’entrare sempre di nuovo nel "sì" del nostro incarico – in quel "non più io" del battesimo che l’Ordinazione ci dona in modo nuovo e al contempo ci chiede. Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo lì "in persona di un Altro"…

 

II.

San Giovanni Crisostomo ha tra le sue opere un Dialogo sul sacerdozio e un’Omelia sul sacerdozio. Voglio ancora questa sera attirare la Tua attenzione, la vostra attenzione, su qualche aspetto dell’Omelia sul sacerdozio. Non vi preoccupate, le omelie crisostomiane sono molto lunghe ma io in questa seconda parte della mia omelia vespertina sarò breve.

Tre aspetti dell’omelia del Crisostomo che credo possono esserTi utili, esserci utili a tutti noi.

1.     Lo stupore, la meraviglia di fronte al dono di Dio. Ti sarà capitato di sentire stupore al sapere della Tua nomina, ma vedrai che sarà uno stupore, una meraviglia che non dovrà -non dovrebbe- smettere, appassire mai. Cito il Crisostomo: “È vero quello che ci è accaduto? Sono veramente capitate queste cose… I fatti che viviamo, non sono forse un sonno nella notte? Veramente si è fatto giorno e siamo svegli? Chi potrà credere che un uomo giovane, povero e debole, sia stato innalzato a questo livello di autorità?”. Quindi non smettere mai di stupirti di tutto quello che il Signore ha fatto, fa e farà nella Tua vita come vescovo e per mezzo di Te come vescovo di una Chiesa concreta, quella di Piana degli Albanesi.

2.    Come vescovo dovrai predicare, annunciare il Vangelo alla Tua Chiesa. Dovrai aiutare la Tua Chiesa -preti e fedeli- a vivere il Vangelo, dovrai evangelizzare il cuore dei Tuoi preti e dei Tuoi fedeli. Tornando al Crisostomo, egli al Verbo, offre il verbo, la sua parola, parola che vorrà dire preghiera, lode a Dio e anche edificazione dei fedeli: “Vorrei, quindi, adesso che per prima volta parlo nella chiesa, consacrare le primizie di questa lingua (parola) a Dio che ce ne ha fatto dono…Bisogna offrire le primizie delle parole al Verbo -των λογων τω Λογω-…”. Non ti stancare mai di annunciare il Vangelo. Seguendo la corrente oppure controcorrente.

3.    Giovanni Crisostomo, infine, fa un elogio del suo vescovo, il patriarca di Antiochia Flaviano, alla cui presenza lui sta predicando. Ne elogia diversi aspetti: i suoi viaggi, le sue veglie, le sue preghiere, la sua sollecitudine per la Chiesa antiochena... Cosa intendo con questo? La sollecitudine per tutte le realtà, anche fisicamente allontanate o lontane, che saranno realtà della Tua Chiesa. Non Ti risparmiare, nessuno è né fisicamente né umanamente né spiritualmente troppo lontano da Te. Ho capito l’elogio del Crisostomo quando ho scoperto che una delle due parrocchie dell’Esarcato in Grecia si trovava a 500 km a nord di Atene. Ti dicevo: non Ti risparmiare…, ma Ti dico pure e con insistenza: nel Tu ministero, servizio come vescovo abbi cura di Te stesso, e metti da parte anche del tempo per Te. Le veglie, le preghiere dice ancora il Crisostomo: prega ogni giorni per la Tua Chiesa, amala e curala come sposa, un amore sponsale, generoso, gratuito, benché anche crocefisso. La sollecitudine per la Chiesa antiochena diceva il Crisostomo. La sollecitudine per la Tua Chiesa di Piana, con tutti i suoi pregi, che ce ne sono e tanti. Con i suoi problemi che sono dappertutto.

 

Il vescovo è vicino ai preti e ai fedeli, tra di loro, nelle lotte, nelle fatiche, nei guai. Lui veglia -diventa proprio vescovo - επίσκοπος- per il popolo, e costui cammina in piena sicurezza. Giovanni afferma ancora: “Lui siede sul luogo di comando e guarda senza sosta non gli astri del cielo, né le rocce che cadono nell’acqua... ma le trappole dal diabolo... e così mantiene tutti nella sicurezza; e veglia non soltanto sulla nave, ma anche fa tutto quanto può affinché nessuno, tra i naviganti, non abbia a soffrire niente...”.

         Carissimo mons. Raffaele, vai a Piana degli Albanesi con fede, con speranza, sapendo che il Signore, che Ti ha caricato con una croce, Ti darà sempre anche la forza per portarla.

         A Lui, il Signore crocefisso e risorto, la gloria e l’onore assieme al Padre e allo Spirito Santo nei secoli. Amin.

Acquaformosa, 6 novembre 2025

 

+P. Manuel Nin

Esarca Apostolico per i cattolici di tradizione bizantina in Grecia

Vescovo titolare di Carcabia


domenica 6 luglio 2025

       

Angelo del Signore

   Riflessioni sulla morte di un sacerdote... 

          Quando in una diocesi muore un sacerdote, soprattutto se pieno di anni, di sperienza, di donazione generosa al Signore e alla Chiesa, l’impressione -almeno la mia in questi miei nove anni come vescovo-, è quella possiamo dire di “consegnare” nelle mani del Signore -quasi un ridargli quello che è Suo, quello che Lui ha forgiato lungo gli anni, la Sua opera- il servo buono e fedele, che ha consumato la sua vita nell’annuncio del suo Vangelo e nella celebrazione del suo amore e della sua misericordia. La morte invece di un sacerdote giovane, la conclusione di una vita breve troncata in modo imprevedibile e drammatico, lascia sempre la sensazione di qualcosa che ci è sfuggita dalle mani, che ci è stata carpita, e che forse non abbiamo saputo guidare, aiutare, portare a buon fine, o forse soltanto guardare o vedere, o semplicemente non abbiamo saputo caricare sulle nostre pur fragili spalle.

La notizia della morte di don Matteo Balzano mi ha colpito stamattina di domenica, ed è stata una delle prime notizie che ho visto guardando i giornali la mattina presto su Internet. Un prete giovane che si è tolto la vita. La mia prima reazione è quella della preghiera e soprattutto del silenzio, perché sicuramente in questi giorni potremmo riempirci il pensiero, la bocca direi di tante parole sì di consolazione, di fortezza, di speranza certamente per familiari, per la diocesi, per il vescovo che ha perso un suo figlio. Sicuramente sono parole utili senza ombra di dubbio, anzi direi utili e necessarie, perché in fondo sono parole che diciamo anche a noi stessi. Ma il silenzio, il rispetto, il pianto saranno sicuramente atteggiamenti che ci aiuteranno a vivere questo momento incomprensibile, difficile, molto ma molto umano in tutta la sua drammaticità.

Ma affiora non dico soltanto alla mente ma anche al cuore di ognuno di noi, e al mio cuore di vescovo, il tema in primo luogo della solitudine. Mai conosceremo i motivi che hanno portato il giovane sacerdote a questa decisione drammatica. Tra le righe e ascoltando le notizie che stanno apparendo, c’è il disagio, la solitudine che affiora tante volte nella nostra vita come sacerdoti, come vescovi. È un tema che ritorna nella mia mente, nel mio cuore in questi ultimi tempi, direi già da parecchio tempo, cioè, come viviamo questa nostra solitudine, che è una solitudine molto reale, che fa parte della nostra umanità, e che mai potremo far finta che non esista. La solitudine esiste e come, ed esiste con tutta la sua non dico crudeltà ma certamente realtà, ed essa, ripeto, fa parte della nostra umanità. Mi vengono alla mente le parole fortissime e pungenti di san Paolo VI quando parlava della “terribile solitudine del Papa”. Lui parlava da Papa, certamente, ma io allargo le parole di Paolo VI alla vita di ogni vescovo, di ogni prete, di ogni persona celibe e consacrata. Momenti in cui ti trovi da solo di fronte alla tua umanità, a quella umanità che il Signore ama, che il Signore ha pienamente assunto, e che il Signore ha redento, certamente, ma quell'umanità che esiste, e su cui si costruisce tutta la nostra vita come cristiani, come sacerdoti, come vescovi… Quell’umanità che il Signore nella sua ascensione ha portato in cielo, e con Lui ha assiso alla destra del Padre. Quell’umanità però che continua ad essere presente in ognuno di noi. Due aspetti affiorano nel mio cuore e li condivido con voi: la realtà dell’umana solitudine, e l’avere gli occhi aperti sugli altri e su sé stessi.

          Realtà della umana solitudine. Questa realtà è un fatto concreto, quotidiano con cui dobbiamo fare i conti -se mi si permette questa espressione-, tutti noi uomini di Chiesa -preferisco l’espressione “uomini della Chiesa”-, cioè, uomini che facciamo parte di questo edificio, di questo corpo -che è il Corpo di Cristo-, che è la Chiesa che ci accoglie come siamo, che ci accoglie e ci dà la forza che abbiamo ricevuto dal Signore, ma anche ci accoglie nella nostra debolezza, quella della nostra vita e della nostra realtà umana, nella realtà e nella solitudine con cui facciamo i conti ogni giorno. Siamo uomini della Chiesa impegnati nel servizio, in tanti servizi, in tante attività che riempiono la nostra vita, riempiono ogni giorno della nostra vita ma che, arrivata la sera, non ci evitano di trovarci di fronte a noi stessi. La realtà dell'umana solitudine a cui far fronte attraverso la preghiera certamente, attraverso la grazia del Signore certamente, attraverso e soprattutto i sacramenti. La preghiera come bastone nel nostro camminare umano, e soprattutto attraverso la preghiera dei salmi, questi poemi cristiani umani e divini allo stesso tempo, che il Signore ha fatto in sé stesso cristiani e pienamente umani, e che ci aiutano a capire ed assumere, come Lui le fece e lo fa ogni giorno nella nostra vita, questa nostra realtà umana. I salmi con il loro linguaggio tagliente come spade, incisivo, con le loro domande che diventano le nostre: “Fino a quando, Signore…, perché Signore ti nascondi…”, e tutti quei verbi in imperativo nella seconda persona su cui poggiamo la nostra vita. I salmi sono molto reali, e toccano e ci aiutano a vivere la quotidianità della nostra vita, ci aiutano a trovarci noi stessi, trovarci con Dio, trovarci con la nostra realtà di fragilità, di debolezza, di peccato ma anche di grandezza in questa realtà della nostra umanità, ripeto assunta e salvata e soprattutto amata da Lui. La realtà dell'umana solitudine che, diciamolo chiaramente, ha anche bisogno di una parola amica, di un sorriso, di un bastone di appoggio, di un abbraccio che ci facciano sentire non oggetti, non numeri, ma uomini pienamente umani con i piedi per terra e la testa… sulle spalle.

          Avere gli occhi aperti sugli altri e su sé stessi. Questo avere gli occhi aperti sugli altri e su sé stessi è un ritornello che in questi giorni verrà fuori a partire dalla notizia della morte di don Matteo Balsano: “non ce n’eravamo accorti…, non avevamo visto nulla che ci facesse insospettire…, non vedevamo nulla…, lo vedevamo gioioso e pieno di attività, pieno di vita…”. E sicuramente è vero che era gioioso, pieno di attività, pieno di vita, ma l’avere gli occhi aperti in primo luogo sugli altri, cioè, cercare di vedere anche quando l'altro con un sorriso o con uno sguardo triste cerca di dirti qualcosa. Il linguaggio dell’altro… Poi, anche avere gli occhi aperti su sé stessi, e questo vorrà dire sempre accorgerci di quello che la nostra anima, il nostro vivere quotidiano, il nostro stesso corpo cerca di dirci quando ci sono questi momenti di disagio, di tristezza, o di cruda solitudine. Avere gli occhi aperti vorrà dire anche avere la bocca aperta, cioè la capacità di dire a Dio nella preghiera sicuramente, ma anche dire agli altri, all'altro, all'amico, al padre, che qualcosa forse non va.

          Riflessioni, domande che forse non avranno mai delle risposte, domande che ci porremo in questi giorni sicuramente. Ma penso che in primo luogo sia importante il nostro silenzio, che è preghiera, ma che è letteralmente silenzio, non vuoto, ma sì silenzio che rispetti il momento drammatico che questo fratello sacerdote ha vissuto, questo momento drammatico che la sua Chiesa, la sua famiglia ed i suoi amici stanno vivendo, un silenzio a cui ogni volta siamo meno abituati, ma che rispetti questo mistero drammatico che nostro fratello ha toccato fino in fondo. Poi anche da parte nostra un atteggiamento di preghiera, e specialmente quella preghiera a cui ho accennato anche sopra e che dovrebbe farci e che ci fa forti nella fede, nella speranza. E torno ai salmi: “Fino a quando Signore…, perché Signore…,”. Tutti questi imperativi che i salmi mettono nella nostra bocca, nel nostro cuore con tanta parresia, che osa dire al Signore quel “perché”. Noi non comprendiamo, noi non sappiamo la profondità del disaggio, del dolore, di tanti “perché” nel cuore di questo fratello.

          Un sacerdote questa mattina scriveva queste parole che condivido pienamente e che spero possano essere di aiuto e di consolazione e, certamente, di speranza: “I preti sono prima di tutto uomini. Con il loro carico di fatiche, solitudini, limiti. Dietro la tonaca del sacerdote c’è una persona, non un’icona perfetta. Tra i preti servono legami veri di fraternità, di amicizia…”.

          +P. Manuel Nin

          Esarca Apostolico

 

sabato 21 giugno 2025

 


Alcune riflessioni da vescovo patrologo su un testo di sant’Agostino di Ippona.

Quando nel lontano 1984 arrivai a Roma, dal mio monastero di Montserrat, per fare la specializzazione in Teologia e Scienze Patristiche presso l’Istitutum Patristicum Augustinianum, avevo una formazione patristica di base possiamo dire assai soddisfacente. Non per meriti propri, ma perché nei miei anni di formazione monastica e teologica nel monastero ebbi soprattutto tre grandi maestri che mi insegnarono a conoscere ed amare questi autori cristiani antichi: essi furono p. Alessandro Olivar, che mi guidò quasi per mano nei corridoi della biblioteca monastica per mostrarmi ed insegnarmi ad usare -guardando, sfiorando, aprendo, direi quasi annusando- quegli strumenti fondamentali che erano le grandi collane patristiche, le enciclopedie, gli studi filologici e teologici sui grandi autori cristiani antichi. Poi, p. Cebrià Piffaré che, da buon maestro e teologo lui stesso, mi spinse a leggere i grandi autori antichi, da Origene a sant’Agostino, dai testi di san Benedetto a quelli che narrano le prodezze di quei “folli” e santi monaci dei deserti della Messopotamia. Infine, p. Ramon Ribera che pazientemente in una lunga e proficua “centuria” di ore di scuola mi mise nelle mani una buona conoscenza della lingua siriaca, quella antica e veneranda lingua semitica con cui Efrem di Nisibi cantò il mistero della divino-umanità del Verbo di Dio fattosi carne, fattosi uomo come ognuno di noi, lingua con cui il Signore stesso ci insegnò a pregare il Padre che è nei cieli. Questi tre padri e maestri, e confratelli monaci, mi insegnarono a conoscere e soprattutto ad amare i santi Padri della Chiesa, quegli autori antichi provenienti da diverse tradizioni cristiane, che nei loro scritti adoperarono diverse lingue, e che venivano da origini geografiche e culturali assai differenti, ma tutte attorno -oserei dire guardando verso- il grande bacino del Mediterraneo.

Questa mia premessa autobiografica l’ho fatta per poter approdare, nel settembre 1984, all’Istitutum Patristicum Augustinianum di Roma. Non pretendo elencare i pregi di questo importante centro universitario di Roma, fondato ed inaugurato da san Paolo VI nel 1970, dove ho fatto i miei studi di specializzazione patristica dal 1984 fino al 1992. Voglio soltanto sottolineare la larghezza di orizzonti scientifici di quella sede che, negli abbondantissimi corsi offerti agli studenti, mi portò ad avere una visione larga e completa di tutto il periodo patristico: geograficamente, dalla Spagna all’Italia al nord Africa, all’Egitto, alla Cappadocia, alla Palestina, alla Messopotamia…; cronologicamente, dal primo al settimo e ottavo secoli; linguisticamente, dal latino al greco, al siriaco, al copto…; teologicamente, da Alessandria -senza dimenticare Roma- ad Antiochia; infine ecclesiologicamente, da Cipriano ad Ambrogio a Basilio ad Agostino di Ippona. E i corsi offerti su questo grande padre della Chiesa nordafricana tra il quarto ed il quinto secolo sono diventati il fiore all’occhiello di questo centro romano di studi patristici.

Ed arrivo allo scopo di questa mia breve riflessione. “Per voi sono vescovo…, con voi sono cristiano… Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus”. Questa frase di sant’Agostino, nel suo sermone 340 predicato nell’anniversario della sua ordinazione episcopale, è stata potremo dire il centro del messaggio che il nuovo vescovo di Roma, papa Leone XIV, ha voluto dare al suo popolo nella sua prima apparizione sulla loggia della basilica di San Pietro. Il suo messaggio al popolo di Dio che lo salutava e lo accoglieva come nuovo vescovo di Roma fu proprio questo: “…per voi…, con voi…”. Le parole forti e chiare del santo vescovo di Ippona riecheggiarono nelle orecchie ma soprattutto nei cuori di quella folla che accorreva a piazza San Pietro quel pomeriggio quasi estivo del mese di maggio.

Tutti siamo battezzati in Cristo e siamo, diventiamo, grazie ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, battesimo, cresima ed eucaristia, Chiesa e Corpo di Cristo. Alcuni tra i battezzati, poi, vengono chiamati dal Signore, e scelti dalla Chiesa stessa, per essere vescovi per il popolo, per tutte le membra di questo Corpo glorioso. La frase di sant’Agostino mi porta a riflettere brevemente e direi schiettamente, da vescovo, sul ministero episcopale, sulla croce dell’essere pastore, e che il Signore ha caricato sulle nostre fragili spalle. E mi potreste chiedere: se l’essere vescovo “per voi…, per una Chiesa, per un gregge…” è un pondus, un peso, una croce, allora forse il “con voi…”, l’essere e vivere da cristiano sia una cosa più facile, forse meno impegnativa. L’essere cristiano, il vivere ed agire come tale, è assai gravoso, perché è il Vangelo nella sua bellezza e nella sua esigenza quasi come una spada a doppio taglio.

Ma mi soffermo brevemente in quel “per voi…” agostiniano. Il “per voi…” diventa un impegno totale, esclusivo verso il gregge che ci è stato dato dal Signore. Un gregge fatto da pecore forti e pecore deboli, sane e ammalate, giovani e vecchie. Un gregge che sarà o diventerà molto o poco numeroso. Pecore che aspettano dal pastore una parola evangelica, una parola che consoli, una parola che dia loro forza e coraggio, una parola che lenisca e guarisca, una parola di perdono e di riconciliazione. Mai e poi mai una parola di rancore, una parola che divida, che non crei comunione nel gregge, che disperda, che crei amarezza, che avveleni il cuore delle pecore.

Si potrebbe pensare che una certa sistemazione “logica” avrebbe richiesto un ordine diverso della frase da parte del predicatore nordafricano, forse così: “con voi sono cristiano, per voi sono vescovo”. Ma nel pensiero di Agostino l’ordine è chiaro e voluto così com’è presentato: “per voi…, con voi…”. Infatti, il predicatore prosegue il suo discorso in questo modo: “Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno dell'incarico ricevuto (suscepti officii), questo della grazia (gratiae); quello è occasione di pericolo (periculi), questo di salvezza (salutis)”. Il ministero, il servizio, il peso come vescovo è quello che segna la vita di tutti coloro che sono stati chiamati a pascere il gregge. È l’impegno primo e più gravoso, è l’incarico, l’ufficio ricevuto da Colui, il Signore, che è il vero vescovo, il vero pastore del gregge. L’ufficio ricevuto -il servizio, la diaconia, la carica…-, ci impegna nella nostra dedizione totale e direi unica, e per questo impegnativa, gravosa, mai facile da portare, verso le pecore del gregge, usando sempre l’immagine “pastorale”.

Allora, la seconda parte del testo, il “…con voi sono cristiano”, che Agostino bolla come “occasione di salvezza…”, diventa per noi pegno, sicurezza e speranza della salvezza che ci viene ed unicamente da Cristo stesso, che ci fa membra del suo corpo, santificati da Lui, configurati pienamente con lui. Il “per voi” ci configura a Lui come pastori, vigilanti, veglianti sul gregge. Il “con voi” ci fa, assieme a tutta la Chiesa, assieme a tutto il suo Corpo glorioso, uno in Cristo.

Molti dei grandi Padri della Chiesa sia orientali che occidentali -penso a Giovanni Crisostomo, ad Agostino, a Severo di Antiochia-, hanno dei sermoni per l’anniversario della loro ordinazione episcopale. In questo giorno anniversario celebravano i Santi Misteri e predicavano al popolo, gli davano la Parola del Vangelo e la loro propria parola che traeva dal Vangelo l’alimento, la medicina, la consolazione, la vita nuova. Era per i santi Padri, e per noi che li rileggiamo, un momento di grazia non soltanto per ricordare, ma soprattutto per far memoria viva, vera anamnesi, di quel “per voi…” e quel “con voi…” che Agostino di Ippona ci propone nel suo sermone 340.

 +P. Manuel Nin

Vescovo titolare di Carcabia

Esarca Apostolico


Μερικές σκέψεις ως πατρολόγος επίσκοπος σε ένα κείμενο του Αγίου Αυγουστίνου της Ιππώνος

Φτάνοντας στην Ρώμη το 1984, από το μοναστήρι μου στο Montserrat, για να κάνω μια εξειδίκευση στη Θεολογία και τις Πατερικές Επιστήμες στο Istitutum Patristicum Augustinianum, είχα μια βασική πατερική διαμόρφωση που θα μπορούσαμε να πούμε ότι ήταν πολύ ικανοποιητική. Όχι λόγω της δικής μου αξίας, αλλά επειδή στα χρόνια της μοναστικής και θεολογικής μου διαμόρφωσης στο μοναστήρι είχα πάνω απ 'όλα τρεις μεγάλους δασκάλους που με δίδαξαν να γνωρίζω και να αγαπώ αυτούς τους αρχαίους χριστιανούς συγγραφείς: ήταν ο π. Alessandro Olivar, ο οποίος με οδήγησε σχεδόν από το χέρι στους διαδρόμους της μοναστικής βιβλιοθήκης για να μου δείξει και να με διδάξει να χρησιμοποιώ - κοιτάζοντας, αγγίζοντας, ανοίγοντας, θα έλεγα σχεδόν μυρίζοντας, εκείνα τα θεμελιώδη εργαλεία που ήταν η μεγάλη πατερική σειρά, οι εγκυκλοπαίδειες, οι φιλολογικές και θεολογικές μελέτες για τους μεγάλους αρχαίους χριστιανούς συγγραφείς. Στη συνέχεια, ο π. Cebrià Piffaré, ο οποίος, ως καλός δάσκαλος και θεολόγος ο ίδιος, με παρότρυνε να διαβάσω τους μεγάλους αρχαίους συγγραφείς, από τον Ωριγένη μέχρι τον Άγιο Αυγουστίνο, από τα κείμενα του Αγίου Βενέδικτου μέχρι εκείνα που διηγούνται τα κατορθώματα εκείνων των «τρελών» και αγίων μοναχών των ερήμων της Μεσοποταμίας. Τέλος, ο π. Ramon Ribera, ο οποίος υπομονετικά σε ένα μακρύ και καρποφόρο σχολικό ωράριο έβαλε στα χέρια μου μία καλή γνώση της συριακής γλώσσας, αυτής της αρχαίας και σεβάσμιας σημιτικής γλώσσας με την οποία ο Εφραίμ της Νίσιβης έψαλε το μυστήριο της θεανθρώπινης φύσης του ενσαρκωμένου Λόγου του Θεού, έκανε τον άνθρωπο σαν τον καθένα μας, μια γλώσσα με την οποία ο ίδιος ο Κύριος μας δίδαξε να προσευχόμαστε στον Πατέρα που είναι στον ουρανό. Αυτοί οι τρεις πατέρες και δάσκαλοι, και αδελφοί μοναχοί, με δίδαξαν να γνωρίζω και κυρίως να αγαπώ τους αγίους Πατέρες της Εκκλησίας, εκείνους τους αρχαίους συγγραφείς που προέρχονταν από διαφορετικές χριστιανικές παραδόσεις, που χρησιμοποιούσαν διαφορετικές γλώσσες στα γραπτά τους, που προέρχονταν από πολύ διαφορετικές γεωγραφικές και πολιτιστικές καταβολές, αλλά ολόγυρα – θα τολμούσα να πω κοιτάζοντας προς τη μεγάλη λεκάνη της Μεσογείου.

Έκανα αυτή την αυτοβιογραφική μου αναφορά για να μπορέσω να φτάσω, τον Σεπτέμβριο του 1984, στο Istitutum Patristicum Augustinianum στη Ρώμη. Δεν προσποιούμαι ότι απαριθμώ τα πλεονεκτήματα αυτού του σημαντικού πανεπιστημιακού κέντρου στη Ρώμη, που ιδρύθηκε και εγκαινιάστηκε από τον Απόστολο Παύλο VI το 1970, όπου έκανα τις σπουδές μου στην πατερική εξειδίκευση από το 1984 έως το 1992. Θέλω απλώς να υπογραμμίσω το εύρος των επιστημονικών οριζόντων αυτής της έδρας που, στα άφθονα μαθήματα που προσφέρονται στους φοιτητές, με οδήγησαν να έχω μια ευρεία και ολοκληρωμένη θεώρηση ολόκληρης της πατερικής περιόδου: γεωγραφικά, από την Ισπανία έως την Ιταλία έως τη Βόρεια Αφρική, την Αίγυπτο, την Καππαδοκία, την Παλαιστίνη, τη Μεσοποταμία...;·χρονολογικά, από τον πρώτο έως τον έβδομο και όγδοο αιώνα. γλωσσικά, από τα λατινικά στα ελληνικά, συριακά, κοπτικά...; θεολογικά, από την Αλεξάνδρεια -χωρίς να ξεχνάμε την Ρώμη- μέχρι την Αντιόχεια· τέλος; εκκλησιολογικά, από τον Κυπριανό στον Αμβρόσιο στον Βασίλειο στον Αυγουστίνο της Ιππώνος. Και τα μαθήματα που προσφέρονται σε αυτόν τον μεγάλο πατέρα της Εκκλησίας της Βόρειας Αφρικής μεταξύ του τέταρτου και του πέμπτου αιώνα έχουν γίνει η ναυαρχίδα αυτού του ρωμαϊκού κέντρου πατερικών μελετών.

Και έρχομαι στο σκοπό αυτής της σύντομης σκέψης μου. “Για σένα είμαι επίσκοπος..., μαζί σου είμαι χριστιανός... Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus”. Αυτή η φράση του Αγίου Αυγουστίνου, στο κήρυγμά του 340 που κήρυξε στην επέτειο της επισκοπικής χειροτονίας του, ήταν το κέντρο του μηνύματος που ο νέος επίσκοπος της Ρώμης, ο Πάπας Λέων ΙΔ, ήθελε να δώσει στον λαό του στην πρώτη του εμφάνιση στο μπαλκόνι της Βασιλικής του Αγίου Πέτρου. Το μήνυμά του προς τον λαό του Θεού που τον υποδέχτηκε και τον καλωσόρισε ως νέο επίσκοπο Ρώμης ήταν ακριβώς αυτό: «...για σένα..., μαζί σου...”. Τα δυνατά και καθαρά λόγια του αγίου επισκόπου της Ιππώνος αντηχούσαν στα αυτιά αλλά πάνω απ όλα στις καρδιές εκείνου του πλήθους που συνέρρευσε στην πλατεία του Αγίου Πέτρου εκείνο το σχεδόν καλοκαιρινό απόγευμα του μήνα Μαΐου.

Είμαστε όλοι βαπτισμένοι εν Χριστώ και γινόμαστε, γινόμαστε, χάρη στα μυστήρια της χριστιανικής μύησης, του βαπτίσματος, του χρίσματος και της Θείας Ευχαριστίας, της Εκκλησίας και του Σώματος του Χριστού. Μερικοί από τους βαπτισμένους, λοιπόν, καλούνται από τον Κύριο, και επιλέγονται από την ίδια την Εκκλησία, να είναι επίσκοποι για τον λαό, για όλα τα μέλη αυτού του ένδοξου Σώματος. Η φράση του αγίου Αυγουστίνου με οδηγεί να συλλογιστώ εν συντομία και θα έλεγα ειλικρινά, ως επίσκοπος, για την επισκοπική διακονία, για τον σταυρό του ποιμένα και τον οποίο ο Κύριος έχει τοποθετήσει στους εύθραυστους ώμους μας. Και θα μπορούσατε να με ρωτήσετε: αν το να είσαι επίσκοπος “για σένα..., για μια Εκκλησία, για ένα ποίμνιο...”, είναι ένας πόντος, ένα βάρος, ένας σταυρός, τότε ίσως “το μαζί σου...”, tο να είσαι και να ζεις ως χριστιανός είναι κάτι ευκολότερο, ίσως λιγότερο απαιτητικό. Το να είσαι Χριστιανός, να ζεις και να ενεργείς ως τέτοιος, είναι πολύ επαχθές, επειδή είναι το Ευαγγέλιο στην ομορφιά του και στις απαιτήσεις του σχεδόν σαν δίκοπο μαχαίρι.

Αλλά θα σταματήσω για λίγο σε αυτό το “για σένα...” aυγουστινιανός. Το “για σένα...”, γίνεται μια συνολική, αποκλειστική δέσμευση προς το ποίμνιο που μας έχει δοθεί από τον Κύριο. Ένα κοπάδι που αποτελείται από δυνατά και αδύναμα πρόβατα, υγιή και άρρωστα, μικρά και μεγάλα. Ένα ποίμνιο που θα είναι ή θα γίνει πολύ ή λίγο σε αριθμό. Πρόβατα που περιμένουν έναν λόγο του Ευαγγελίου από τον ποιμένα, έναν λόγο που θα τα παρηγορεί, έναν λόγο που τους δίνει δύναμη και κουράγιο, έναν λόγο που θα καταπραΰνει και θα θεραπεύει, έναν λόγο συγχώρεσης και συμφιλίωσης. Ποτέ ένας λόγος μνησικακίας, ένας λόγος που διχάζει, που δεν δημιουργεί κοινωνία στο ποίμνιο, που διασκορπίζει, που δημιουργεί πικρία, που δηλητηριάζει τις καρδιές των προβάτων.

Θα μπορούσε κανείς να σκεφτεί ότι μια συγκεκριμένη “λογική” διευθέτηση θα απαιτούσε διαφορετική σειρά της πρότασης από την πλευρά του βορειοαφρικανού ιεροκήρυκα, ίσως ως εξής: “μαζί σου είμαι χριστιανός, για σένα είμαι επίσκοπος”. Αλλά στη σκέψη του Αυγουστίνου η σειρά είναι σαφής και επιθυμητή όπως παρουσιάζεται: “για σένα..., μαζί σου...”. Μάλιστα, ο ιεροκήρυκας συνεχίζει την ομιλία του ως εξής: “Για σένα είμαι επίσκοπος, μαζί σου είμαι χριστιανός. Αυτό το όνομα είναι ένα σημάδι της επιτροπής που έλαβε (suscepti officii), αυτό της χάρης (gratiae). Η πρώτη είναι μια ευκαιρία κινδύνου (periculi), η δεύτερη σωτηρίας (salutis)”. Η διακονία, η υπηρεσία, το βάρος ως επίσκοπος είναι αυτό που χαρακτηρίζει τη ζωή όλων εκείνων που έχουν κληθεί να ποιμάνουν το ποίμνιο. Είναι η πρώτη και πιο επαχθής δέσμευση, είναι το έργο, το αξίωμα που λαμβάνεται από τον Ένα, τον Κύριο, ο οποίος είναι ο αληθινός επίσκοπος, ο αληθινός ποιμένας του ποιμνίου. Το αξίωμα που παραλάβαμε -η υπηρεσία, η διακονία, το αξίωμα...-, μας δεσμεύει στο σύνολο και θα έλεγα μοναδική αφοσίωσή μας, και γιαυτό απαιτητικό, επαχθές, ποτέ δυσβάσταχτο, προς τα πρόβατα του ποιμνίου, χρησιμοποιώντας πάντα την “ποιμαντική” εικόνα.

Έτσι, το δεύτερο μέρος του κειμένου, το “... μαζί σου είμαι χριστιανός”, την οποία ο Αυγουστίνος χαρακτηρίζει ως “ευκαιρία σωτηρίας...”, γίνεται για μας υπόσχεση, ασφάλεια και ελπίδα της σωτηρίας που έρχεται σε μας και μόνο από τον ίδιο τον Χριστό, ο οποίος μας κάνει μέλη του σώματός του, αγιασμένους από αυτόν, πλήρως διαμορφωμένους μαζί του. Το “για σένα” μας διαμορφώνει σε αυτόν ως ποιμένες, άγρυπνοι, που προσέχουν το ποίμνιο. Το “μαζί σας” μας κάνει, μαζί με όλη την Εκκλησία, μαζί με όλο το ένδοξο Σώμα της, ένα εν Χριστώ.

Πολλοί από τους μεγάλους Πατέρες της Εκκλησίας, τόσο της Ανατολής όσο και της Δύσης – αναφέρομαι στον Ιωάννη τον Χρυσόστομο, τον Αυγουστίνο, τον Σεβήρο Αντιοχείας – κάνουν κηρύγματα στην επέτειο της επισκοπικής χειροτονίας τους. Την επετειακή αυτή ημέρα τέλεσαν τα Άχραντα Μυστήρια και κήρυξαν στους ανθρώπους, τους έδωσαν τον Λόγο του Ευαγγελίου και τον δικό τους λόγο που αντλούσε από το Ευαγγέλιο τροφή, φάρμακο, παρηγοριά, νέα ζωή. Ήταν για τους αγίους Πατέρες, και για εμάς που τους ξαναδιαβάσαμε, μια στιγμή χάριτος όχι μόνο για να θυμόμαστε, αλλά πάνω απ’oλα για να κάνουμε μια ζωντανή ανάμνηση, μια αληθινή ανάμνηση, αυτού του “για σας...” και ότι “μαζί σου...” που μας προτείνει ο Αυγουστίνος της Ιππώνος στο κήρυγμά του 340.

+π. Εμμανουήλ Nin

Τιτουλάριος Επίσκοπος Καρκαβιας

Αποστολικός Έξαρχος

 


domenica 15 giugno 2025

 



Icone di Sant'Agostino e dei santi Lorenzo e Leone Magno.
Chiesa cattedrale della Santissima Trinità. Atene

A proposito della celebrazione di inizio pontificato di Papa Leone XIV.

Tre icone ecclesiologiche.

Prima icona.

L’elezione del cardinale Robert Francis Prevost al soglio di Pietro a Roma, con il nome di Leone XIV, è stata per tutta la Chiesa Cattolica un momento di gioia certamente, ma soprattutto di grazia e di conferma nella fede che il Signore non abbandona mai la sua Chiesa. Il giorno dell’elezione l’8 maggio, mi trovavo a Montserrat per la riunione della Conferenza Episcopale Greca, la prima riunione che si faceva fuori dalla Grecia e precisamente nel mio monastero di Montserrat nell’anno della celebrazione del suo millenario di fondazione.

In quel momento, la persona dell’eletto vescovo di Roma, specialmente nella sua veste già di monaco agostiniano, ed il nome assunto come Papa, cioè Leone, mi portarono subito alla mia cattedrale della Santissima Trinità ad Atene, e concretamente a due degli affreschi che si trovano in quella bellissima chiesa cattedrale di via Acharnon: le icone di sant’Agostino di Ippona e di san Leone Magno. La presenza del secondo di questi due santi è assai usuale nell’iconografia bizantina, sia per la sua festa nel calendario bizantino il 18 febbraio e soprattutto per il legame che Leone Magno ha con il concilio di Calcedonia del 451 e la professione di fede cristologica che ne scaturì. La presenza del primo dei due santi, Agostino di Ippona, invece, sorprende assai ed è, per quanto mi risulta, quasi un “unicum” nelle rappresentazioni iconografiche di questo santo nord africano in Oriente. Mentre nel calendario delle Chiese Orientali bizantine, cattoliche ed ortodosse, troviamo del santi diciamo “occidentali” per quanto la loro origine linguistica, geografica ed ecclesiale: il martire romano Lorenzo, Ambrogio di Milano, Leone Magno, Gregorio Magno, per citarne alcuni, non troviamo invece la figura di Agostino. La presenza iconografica e soprattutto ecclesiale di sant’Agostino nella mia cattedrale della Santissima Trinità -vestito con il felonion e l’omoforion episcopale e sotto con la tonaca nera da monaco-, è un bel esempio e direi anche una profezia di quella piena comunione ecclesiale a cui siamo tutti chiamati, nel “giorno” e nel “come” il Signore vorrà chiamarci tutti i cristiani a concelebrare i Santi Misteri attorno ad un unico altare. Le due icone, di Agostino e di Leone Magno si trovano attorno all’altare della mia cattedrale, quasi ad anticipare quella concelebrazione che un giorno il Signore concederà a tutte le Chiese cristiane nella piena comunione di fede e di carità.

Seconda icona.

Questo primo momento ecclesiologico ed iconografico, mi porta ad un secondo momento, ad una seconda icona. La domenica 18 maggio nel sagrato della basilica di San Pietro è stata celebrata la messa per l’inizio di pontificato di Papa Leone XIV, una bellissima celebrazione in cui un gran numero di Chiese cristiane orientali e occidentali, cattoliche ed ortodosse sono state presenti. Ho avuto la grazia di concelebrare anch’io quella mattina, per far presente la Chiesa Cattolica che è in Grecia ed anche l’Esarcato Cattolico di tradizione bizantina in Grecia, una piccola Chiesa sì, fatta da greci, ucraini e caldei, ma vivente nell’annuncio del Vangelo e della carità.

All’inizio della celebrazione, come era stato già fatto nel 2005 e nel 2013 con le messe di inizio pontificato dei Papi Benedetto XVI e Francesco, anche Papa Leone si è recato, è sceso presso la tomba di san Pietro per pregare, accompagnato dai patriarchi delle Chiese Orientali Cattoliche. È stato un momento ecclesiologicamente non soltanto toccante ma soprattutto importante ed oserei dire “vincolante”: il vescovo di Roma, colui che presiede nella carità, accompagnato dai capi delle Chiese Orientali Cattoliche, pregando presso la tomba di Pietro. Il “padre” ed i “padri” in preghiera, in profonda e piena comunione, attorno alla tomba di colui che per primo confessò Cristo, che poi nella sua debolezza lo rinnegò, ma che ricevete a conferma della fedeltà del suo Signore quel “pasci le mie pecorelle”. Quel breve tempo presso la tomba di Pietro, è stato un momento di vera cattolicità della Chiesa, perché il Papa, il vescovo di Roma, colui che è vincolo di comunione tra le Chiese cristiane e le presiede nella carità, si è trovato in preghiera accanto a coloro che sono, nelle le proprie Chiese Cattoliche di tradizioni orientali, i padri, anch’essi la sorgente di comunione e di grazia. Quell’immagine, quell’icona con cui iniziava la santa messa, e la concelebrazione che ne seguì tra le braccia aperte di piazza San Pietro, diventa icona di quello che tutte le Chiese cristiane sono chiamate ad essere per dono e grazia del Signore. Erano presenti accanto al Papa i patriarchi cattolici: copto, melchita, armeno, caldeo e siro cattolico. Non erano dei semplici “ministri…”, o “rappresentanti…” dei “cattolici di rito orientale” -riprendendo la dicitura di qualche testata giornalistica o televisiva-, ma i capi e i padri della Chiese Orientali in piena comunione con il vescovo di Roma. Inoltre, su in basilica erano presenti ad attendergli, oltre al collegio dei cardinali, anche gli arcivescovi maggiori ed i metropoliti di altre Chiese orientali cattoliche.

Terza icona.

          Un terzo momento ecclesiologico ed iconografico fu la presenza in quella celebrazione di alcuni patriarchi orientali ortodossi. Quest’immagine, all’aperto nella grande piazza San Pietro, ci diede, mi si consenta l’espressione, una pregustazione di quella concelebrazione attorno all’unico altare su cui i Santi Misteri del Corpo e del Sangue del Signore diventeranno il sigillo della piena comunione, nell’unica fede cristiana. La presenza dei patriarchi ortodossi di Costantinopoli, di Gerusalemme, e dei metropoliti di tante altre Chiese ortodosse di tradizione bizantina, accanto al patriarca della Chiesa siro orientale ortodossa, e ai metropoliti di altre antichissime Chiese Orientali, fu anch’essa una icona profetica e allo stesso tempo già molto reale del superamento di tanti fraintendimenti, sorti nei primi secoli cristiani nell’espressione e nella formulazione linguistica dell’unica fede nel Verbo di Dio incarnato, vero Dio e vero uomo, formulazione espressa però nella ricchezza fonetica e semantica di tante lingue che arricchiscono la professione di fede delle Chiese cristiane di Oriente.

          Tre icone, in un angolo discreto della città di Atene la prima, gli le altre due nella basilica ed in piazza San Pietro a Roma, che dobbiamo cogliere come momenti che dovrebbero spingerci sì nel cammino di dialogo, ma soprattutto di rispetto reciproco e di carità tra le diverse Chiese Cristiane di Oriente e di Occidente, cattoliche ed ortodosse.

          Le due icone dei santi Agostino e Leone Magno nella cattedrale della Santissima Trinità sono una bella testimonianza del ruolo del nostro Esarcato Apostolico, nel desiderio e nella ricerca della piena comunione tra le diverse Chiese cristiane di Oriente e di Occidente.

+P. Manuel Nin

Vescovo titolare di Carcabia

Esarca Apostolico