Biglietto di ringraziamento del Papa emerito Benedetto XVI
Grazie anche a Lei, Santità.
mercoledì 23 settembre 2015
venerdì 11 settembre 2015
L’Esaltazione della
Santa Croce nell’innografia di Romano il Melodo.
Oggi la croce riapre ad
Adamo il paradiso.
La tradizione innografica dell’Oriente
cristiano adopera spesso il genere letterario del “dialogo” o della “disputa”,
cioè la composizione poetica in cui due personaggi o delle volte due luoghi
sviluppano lungo un numero variabile di strofe un tema di carattere teologico,
servendosi appunto del dialogo/disputa come genere letterario. Efrem (+373) in
ambito siriaco e Romano il Melodo (+555) in ambito greco sono due esempi
notevoli di innografi che si servono di questo genere letterario. Di Romano
abbiamo due inni dedicati alla Croce di Cristo, di cui il primo presenta
appunto la discussione tra l’Ade ed il diavolo presentato sotto la forma del
serpente. È un testo che sviluppa, lungo ventun strofe, il tema della
redenzione di Cristo per mezzo della sua croce; è un poema che in alcune delle
strofe raggiunge una profondità e una bellezza uniche nel suo genere. Il filo
conduttore del testo è il ritorno di Adamo in paradiso grazie alla croce di
Cristo, che ne diventa la chiave per la sua riapertura. I tre primi tropari
sono dei testi di introduzione, si potrebbe dire di situazione di tutto il
poema: “La spada di fuoco non custodisce più la porta dell’Eden, perché al suo
posto è sopraggiunto il lego della croce. Il pungiglione della morte e la
vittoria dell’Ade sono stati inchiodati… Ed in essa inchiodato tu ci hai
redenti, o Cristo Dio nostro… Le creature celesti e terrestri gioiscono con
Adamo, perché è stato chiamato di nuovo nel paradiso”. La prima delle strofe,
che è poi entrata nella tradizione bizantina come kontakion in alcuni giorni
dell’anno liturgico, descrive quasi fisicamente il Golgota e l’Ade sconfitto
dalla croce: “Tre croci piantò Pilato sul Golgota, due per i ladroni e una per
il Datore di vita; l’Ade la vide e disse a quelli di laggiù: «O miei ministri e
miei eserciti, chi ha conficcato un chiodo nel mio cuore? Una lancia di legno
mi ha trafitto all’improvviso… e sono costretto a rigettare Adamo e i nati da
lui che a me mediante un albero erano stati dati: un albero li introduce di
nuovo nel paradiso»”.
La disputa tra l’Ade ed il diavolo/serpente
inizia dalla strofa seconda, con il rimprovero di costui all’Ade che si accorge
di essere sconfitto dalla croce, rimprovero originato dalla cecità del serpente
di fronte alla forza della croce di Cristo: “Ade che hai? Perché piangi a
vuoto? Ho architettato io lassù per il figlio di Maria questo legno che ti ha
spaventato… E’ la croce sulla quale ho fatto inchiodare Cristo, perché con un
legno voglio distruggere il secondo Adamo. Non ti turbare, continua a tenere
stretti i tuoi prigionieri”. E la risposta dell’Ade rimproverato che diventa
quasi una professione di fede nella redenzione avvenuta nella croce: “Corri ed
apri bene i tuoi occhi, e guarda la radice del legno dentro la mia anima: mi è
scesa fin nel profondo per portare in alto Adamo ed essere ricondotto in
paradiso”. Lungo quattro strofe l’innografo prosegue con i rimproveri tra l’Ade
ed il diavolo, descritti dal poeta orbo l’uno e cieco l’altro. L’Ade presenta
al serpente la forza della croce di Cristo: “L’ora presente ti mostrerà la potenza
della croce e la grande autorità del Crocifisso. Per te la croce è stoltezza,
ma da tutto il creato è ammirata come un trono, inchiodato sul quale Gesù
ascolta il ladrone e gli dice: «Oggi, povero uomo, con me entrerai di nuovo nel
paradiso»”. La promessa fatta da Cristo al ladrone fa reagire ed aprire gli
occhi al diavolo cieco che confessa la sua sconfitta; e l’autore sottolinea il
legame tra l’audizione e la visione nella confessione del diavolo: “Il serpente
vide quel che aveva udito: il ladrone rendere testimonianza a Cristo che
testimoniava per lui… E (il diavolo) sbigottito e battendosi il petto diceva:
«Parla con un ladrone e non risponde agli accusatori? Neanche di una parola ha
degnato Pilato, ed adesso si rivolge ad un assassino?»”. Sconfitto il diavolo
cerca rifugio presso l’Ade e nella sua disfatta descrive la salvezza che sgorga
dalla croce di Cristo, luogo della vittoria col suo sangue e della vita che
sgorga dall’acqua del costato di Cristo; Romano ci presenta messo in bocca del
diavolo un riferimento di carattere sacramentale del battesimo e
dell’eucaristia: “«Accoglimi, Ade: presso di te è il mio rifugio! Ho visto
anch’io il legno che ti ha spaventato, e arrossato di sangue ed acqua… L’uno
prova l’uccisione di Gesù, l’altro prova che egli è vivo, poiché la vita è
sgorgata dal suo fianco… ed è stato il secondo Adamo a far rifiorire Eva, la
madre dei viventi, di nuovo nel paradiso»”. Le parole di Gesù sulla croce
quindi diventano buona novella, vangelo anche per gli occhi e le orecchie dei
due personaggi della disputa. In questa strofa, la quattordicesima, troviamo
delle immagini di una profondità poetica e teologica ineguagliabili: “«Aspetta,
Ade sciagurato», disse piangendo il demonio, «taci, sopporta. Sento una voce
annunciatrice di gioia, un sussurro mi è giunto che porta buone notizie, un
brusio come di foglie dall’albero della croce. Sul punto di morire Cristo ha
detto: “Padre, pedona loro… non sanno quel che fanno”. Noi però sappiamo che
colui che soffre è il Signore della gloria, che vuol riportare Adamo di nuovo
nel paradiso»”. La croce quindi diventa luogo di conversione, non più albero di
condanna, vigna dai tralci amari, bensì luogo della dolcezza e della vita:
“Piangiamo ora, o Ade, vedendo l’albero che avevamo piantato trasformato in un
tronco sacro! Ai suoi piedi hanno preso dimora e fra i suoi rami hanno
nidificato briganti e assassini, esattori e meretrici, per cogliere il frutto
della dolcezza da quello che pareva un albero secco. Abbracciano la croce come
pianta della vita, si aggrappano ad essa per compiere a nuoto la traversata col
suo aiuto e approdare di nuovo nel paradiso!”. Infine Romano nella penultima
delle strofe mette in bocca all’Ade il tema del furto del ladrone che nella
croce “ruba” la sua salvezza: “Nessuno di noi dovrà più far violenza alla
stirpe di Adamo, perché è stata segnata dal sigillo della croce, come un tesoro
che dentro un fragile scrigno ha una perla inviolabile, che l’accorto ladrone
sulla croce è riuscito a sottrarre… e per questo furto è stato chiamato di
nuovo nel paradiso!”. L’inno di Romano finisce con una preghiera che rinchiude
tutta la teologia della salvezza per mezzo della croce sviluppata lungo il
poema: “Altissimo e glorioso, Dio dei padri e dei fanciulli… la tua croce è la
gloria di noi tutti… La nave di Tarsis una volta recava oro a Salomone nel
tempo stabilito: a noi il tuo legno procura ogni giorno e ogni momento
ricchezza incalcolabile, perché conduce tutti di nuovo nel paradiso”.
domenica 6 settembre 2015
La Natività della
Madre di Dio nell’innografia siriaca.
La Madre di Dio tesse
un vestito di gloria.
L’abbondantissima produzione
letteraria messa sotto la paternità di sant’Efrem il Siro (+373), ha una serie di
inni considerati dagli editori come dei testi soltanto attribuibili al grande
Padre della Chiesa siriaca, ma in realtà composti dal V secolo in poi e
certamente ispirati all’innografia di Efrem. Molti di questi inni pseudo
efremiani sono dedicati a Maria nella sua divina maternità, inni che la
cantano, meditando e lodando allo stesso tempo il mistero dell’incarnazione del
Verbo di Dio. Ci soffermiamo in due di questi inni. Ambedue iniziano con una
sorta di preghiera a Cristo, affinché sia Lui stesso a illuminare il canto del
poeta: “La Vergine mi chiama a cantare il mistero che ammiro. Dammi, o Figlio
di Dio, il tuo dono di ammirazione… per dipingere un’immagine piena di bellezza
alla tua Madre. Canterò per tua grazia, o Signore, inni eletti alla Vergine, la
quale divenne madre in modo prodigioso; lei è vergine e pur madre. Lode a colui
che la prescelse!”. La verginità di Maria ed il concepimento in lei del Verbo
di Dio incarnato vengono messi in evidenza con delle immagini molto
contrastanti, a partire dall’umanità stessa di Maria nel suo essere pienamente
donna e concepire verginalmente: “Un feto nel suo seno senza connubio, grande
prodigio! Latte è nelle sue mammelle, cosa inconsueta! I segni della verginità
assieme al latte sono nel suo corpo…”. E prosegue con delle espressioni che
sottolineano la divino umanità di Colui che è nato da Maria: “La Vergine Maria
santamente partorisce il Figlio; dà il latte a colui che nutre il genere umano;
sulle ginocchia sostiene colui che tutto sostiene. Lei è Vergine, è pure Madre:
cosa lei non è?”.
L’autore
prosegue introducendo il tema della verginità –sia in un riferimento alle dieci
vergini del vangelo-, sia soprattutto tenendo presente la verginità come realtà
ecclesiale già nel IV secolo nelle Chiese di tradizione siriaca: “In Maria goda
tutta la schiera delle vergini, perché una fra di esse si è chinata e ha
partorito il Gigante che sostiene le creature, lo stesso che liberò il genere
umano fatto schiavo”. Il riferimento cristologico al “gigante” partorito da
Maria è preso dal salmo 18,6, un testo che la tradizione dei Padri e le
liturgie orientali ed occidentali hanno letto ed interpretato applicato a
Cristo stesso nella sua incarnazione e nascita da Maria.
Nel primo
dei due inni di cui facciamo la lettura, troviamo una serie di quattro strofe
che iniziano con la forma: “Si rallegrino in Maria…”, ed enumerano tutti coloro
che per mezzo di lei trovano in Cristo la loro piena redenzione, ad iniziare da
Adamo stesso fino ai sacerdoti, ai profeti e ai padri: “Si rallegri in Maria
Adamo ferito dal serpente, perché lei a lui ha fornito la pianta medicinale… Si
rallegrino in Maria i sacerdoti, perché lei ha partorito il grande sacerdote
divenuto vittima… La schiera dei profeti, perché in lei si sono adempiute le
loro profezie…”. Il nesso con Adamo guarito dalla medicina che è Cristo stesso porta
l’autore in ambedue inni a cantare il tema dell’incarnazione e la nascita del
Verbo di Dio vista come una nuova creazione di Adamo, di Eva e dell’umanità
stessa: “Maria dette il dolce frutto agli uomini, in luogo di quel frutto dell’amarezza
che Eva aveva raccolto dall’albero… Maria tesse una stola di gloria per il suo
padre che era stato denudato tra gli alberi: rivestendola castamente, egli
acquistò decoro… ”. Maria ancora è presentata come vite che produce il vino che
è Cristo stesso, riferimento che ha anche un carattere eucaristico e collegato
con il vino come bevanda di salvezza: “La vite verginale produsse un grappolo
dal dolce vino, e per esso furono consolati dalle tristezze Adamo ed Eva
addolorati: gustando il farmaco di vita, e furono da questo consolati dalle
loro tristezze”.
Il
collegamento che l’autore fa tra Eva e Maria viene sviluppato ancora nell’ultima
parte del secondo degli inni. Dopo aver di nuovo avvicendato le dieci vergini
con delle lampade in mano del vangelo di Matteo con Maria vergine che porta l
vera luce del mondo e che è Cristo stesso, l’innografo si dilunga a sviluppare il
nesso tra Eva e Maria, tra la caduta nel peccato e la redenzione –la nuova creazione-
avvenuta nella nascita di Cristo: “Per lei si sollevò il capo di Eva rimasto
abbattuto. Maria infatti ha portato il Bambino che afferrò il serpente, e le
foglie della nudità si tramutarono in gloria. Due vergini ha avuto l’umanità:
una causa della vita, l’altra della morte; da Eva spuntò la morte, da Maria la
vita”. E ancora l’autore riprende il tema del vestito di gloria tessuto da
Maria nel suo grembo: “La madre caduta fu sorretta da sua figlia, e poiché quella
era rivestita di foglie di nudità, questa le tesse e le dette un vestito di
gloria”. In diverse strofe dei due inni troviamo ancora i titoli cristologici dati
a Maria e presi da immagini veterotestamentarie: lei è il campo che non ha
conosciuto il seminatore, lei è la nave che porta agli uomini il frutto della
salvezza, lei è la lampada che porta la luce per gli uomini: “Per Maria spuntò
la luce che scacciò le tenebre che si erano diffuse tramite Eva offuscando l’umanità.
Per mezzo di Maria il mondo è stato illuminato”.
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