Riflessioni sulla morte di un sacerdote...
Quando in una diocesi muore un
sacerdote, soprattutto se pieno di anni, di sperienza, di donazione generosa al
Signore e alla Chiesa, l’impressione -almeno la mia in questi miei nove anni come
vescovo-, è quella possiamo dire di “consegnare” nelle mani del Signore -quasi
un ridargli quello che è Suo, quello che Lui ha forgiato lungo gli anni, la Sua
opera- il servo buono e fedele, che ha consumato la sua vita nell’annuncio del suo
Vangelo e nella celebrazione del suo amore e della sua misericordia. La morte
invece di un sacerdote giovane, la conclusione di una vita breve troncata in
modo imprevedibile e drammatico, lascia sempre la sensazione di qualcosa che ci
è sfuggita dalle mani, che ci è stata carpita, e che forse non abbiamo saputo guidare,
aiutare, portare a buon fine, o forse soltanto guardare o vedere, o
semplicemente non abbiamo saputo caricare sulle nostre pur fragili spalle.
La notizia della morte di don Matteo Balzano mi ha
colpito stamattina di domenica, ed è stata una delle prime notizie che ho visto
guardando i giornali la mattina presto su Internet. Un prete giovane che si è
tolto la vita. La mia prima reazione è quella della preghiera e soprattutto del
silenzio, perché sicuramente in questi giorni potremmo riempirci il pensiero,
la bocca direi di tante parole sì di consolazione, di fortezza, di speranza certamente
per familiari, per la diocesi, per il vescovo che ha perso un suo figlio. Sicuramente
sono parole utili senza ombra di dubbio, anzi direi utili e necessarie, perché in
fondo sono parole che diciamo anche a noi stessi. Ma il silenzio, il rispetto,
il pianto saranno sicuramente atteggiamenti che ci aiuteranno a vivere questo
momento incomprensibile, difficile, molto ma molto umano in tutta la sua
drammaticità.
Ma affiora non dico soltanto alla mente ma anche al cuore di ognuno di noi, e al mio cuore di vescovo, il tema in primo luogo della solitudine. Mai conosceremo i motivi che hanno portato il giovane sacerdote a questa decisione drammatica. Tra le righe e ascoltando le notizie che stanno apparendo, c’è il disagio, la solitudine che affiora tante volte nella nostra vita come sacerdoti, come vescovi. È un tema che ritorna nella mia mente, nel mio cuore in questi ultimi tempi, direi già da parecchio tempo, cioè, come viviamo questa nostra solitudine, che è una solitudine molto reale, che fa parte della nostra umanità, e che mai potremo far finta che non esista. La solitudine esiste e come, ed esiste con tutta la sua non dico crudeltà ma certamente realtà, ed essa, ripeto, fa parte della nostra umanità. Mi vengono alla mente le parole fortissime e pungenti di san Paolo VI quando parlava della “terribile solitudine del Papa”. Lui parlava da Papa, certamente, ma io allargo le parole di Paolo VI alla vita di ogni vescovo, di ogni prete, di ogni persona celibe e consacrata. Momenti in cui ti trovi da solo di fronte alla tua umanità, a quella umanità che il Signore ama, che il Signore ha pienamente assunto, e che il Signore ha redento, certamente, ma quell'umanità che esiste, e su cui si costruisce tutta la nostra vita come cristiani, come sacerdoti, come vescovi… Quell’umanità che il Signore nella sua ascensione ha portato in cielo, e con Lui ha assiso alla destra del Padre. Quell’umanità però che continua ad essere presente in ognuno di noi. Due aspetti affiorano nel mio cuore e li condivido con voi: la realtà dell’umana solitudine, e l’avere gli occhi aperti sugli altri e su sé stessi.
Realtà della umana solitudine. Questa
realtà è un fatto concreto, quotidiano con cui dobbiamo fare i conti -se mi si
permette questa espressione-, tutti noi uomini di Chiesa -preferisco l’espressione
“uomini della Chiesa”-, cioè, uomini che facciamo parte di questo edificio, di
questo corpo -che è il Corpo di Cristo-, che è la Chiesa che ci accoglie come
siamo, che ci accoglie e ci dà la forza che abbiamo ricevuto dal Signore, ma
anche ci accoglie nella nostra debolezza, quella della nostra vita e della
nostra realtà umana, nella realtà e nella solitudine con cui facciamo i conti
ogni giorno. Siamo uomini della Chiesa impegnati nel servizio, in tanti servizi,
in tante attività che riempiono la nostra vita, riempiono ogni giorno della
nostra vita ma che, arrivata la sera, non ci evitano di trovarci di fronte a
noi stessi. La realtà dell'umana solitudine a cui far fronte attraverso la
preghiera certamente, attraverso la grazia del Signore certamente, attraverso e
soprattutto i sacramenti. La preghiera come bastone nel nostro camminare umano,
e soprattutto attraverso la preghiera dei salmi, questi poemi cristiani umani e
divini allo stesso tempo, che il Signore ha fatto in sé stesso cristiani e pienamente
umani, e che ci aiutano a capire ed assumere, come Lui le fece e lo fa ogni
giorno nella nostra vita, questa nostra realtà umana. I salmi con il loro
linguaggio tagliente come spade, incisivo, con le loro domande che diventano le
nostre: “Fino a quando, Signore…, perché Signore ti nascondi…”, e tutti
quei verbi in imperativo nella seconda persona su cui poggiamo la nostra vita.
I salmi sono molto reali, e toccano e ci aiutano a vivere la quotidianità della
nostra vita, ci aiutano a trovarci noi stessi, trovarci con Dio, trovarci con
la nostra realtà di fragilità, di debolezza, di peccato ma anche di grandezza in
questa realtà della nostra umanità, ripeto assunta e salvata e soprattutto amata
da Lui. La realtà dell'umana solitudine che, diciamolo chiaramente, ha anche bisogno
di una parola amica, di un sorriso, di un bastone di appoggio, di un abbraccio
che ci facciano sentire non oggetti, non numeri, ma uomini pienamente umani con
i piedi per terra e la testa… sulle spalle.
Avere gli occhi aperti sugli altri e
su sé stessi. Questo avere gli occhi aperti sugli altri e su sé stessi è un ritornello
che in questi giorni verrà fuori a partire dalla notizia della morte di don
Matteo Balsano: “non ce n’eravamo accorti…, non avevamo visto nulla che ci
facesse insospettire…, non vedevamo nulla…, lo vedevamo gioioso e pieno di
attività, pieno di vita…”. E sicuramente è vero che era gioioso, pieno di
attività, pieno di vita, ma l’avere gli occhi aperti in primo luogo sugli altri,
cioè, cercare di vedere anche quando l'altro con un sorriso o con uno sguardo
triste cerca di dirti qualcosa. Il linguaggio dell’altro… Poi, anche avere gli
occhi aperti su sé stessi, e questo vorrà dire sempre accorgerci di quello che
la nostra anima, il nostro vivere quotidiano, il nostro stesso corpo cerca di
dirci quando ci sono questi momenti di disagio, di tristezza, o di cruda
solitudine. Avere gli occhi aperti vorrà dire anche avere la bocca aperta, cioè
la capacità di dire a Dio nella preghiera sicuramente, ma anche dire agli altri,
all'altro, all'amico, al padre, che qualcosa forse non va.
Riflessioni, domande che forse non avranno
mai delle risposte, domande che ci porremo in questi giorni sicuramente. Ma
penso che in primo luogo sia importante il nostro silenzio, che è preghiera, ma
che è letteralmente silenzio, non vuoto, ma sì silenzio che rispetti il momento
drammatico che questo fratello sacerdote ha vissuto, questo momento drammatico
che la sua Chiesa, la sua famiglia ed i suoi amici stanno vivendo, un silenzio a
cui ogni volta siamo meno abituati, ma che rispetti questo mistero drammatico che
nostro fratello ha toccato fino in fondo. Poi anche da parte nostra un
atteggiamento di preghiera, e specialmente quella preghiera a cui ho accennato
anche sopra e che dovrebbe farci e che ci fa forti nella fede, nella speranza.
E torno ai salmi: “Fino a quando Signore…, perché Signore…,”. Tutti
questi imperativi che i salmi mettono nella nostra bocca, nel nostro cuore con tanta
parresia, che osa dire al Signore quel “perché”. Noi non comprendiamo,
noi non sappiamo la profondità del disaggio, del dolore, di tanti “perché”
nel cuore di questo fratello.
Un sacerdote questa mattina scriveva
queste parole che condivido pienamente e che spero possano essere di aiuto e di
consolazione e, certamente, di speranza: “I preti sono prima di tutto
uomini. Con il loro carico di fatiche, solitudini, limiti. Dietro la tonaca del
sacerdote c’è una persona, non un’icona perfetta. Tra i preti servono legami
veri di fraternità, di amicizia…”.
+P. Manuel Nin
Esarca Apostolico