Icona di sant'Isacco di Ninive
“…e vedrà
che è un’opera bella…”.
Fare il
vescovo nel VII e nel XXI secolo.
Quando
il 2 febbraio 2016 fu pubblicata la mia nomina a vescovo ed Esarca apostolico
in Grecia, il compianto confratello Franghiskos Papamanolis (1936-2023), vescovo
dell’isola di Syros nelle Cicladi in Grecia per ben quarant’anni, ed in quel 2016
anche Presidente della Conferenza Episcopale Greca, mi chiamò per farmi gli
auguri, assicurandomi la sua fraterna vicinanza e la sua preghiera. E da subito
mi consigliò di leggere nella versione latina della Vulgata il testo paolino di
1 Tim 3,1: “…si quis episcopatum desiderat, bonum opus desiderat…”
(…se qualcuno desidera l’episcopato, desidera un’opera…, una cosa buona…), e mi suggerì, allo stesso tempo “di
spostare la virgola”. E, tra sornione e serio mi spiegò cosa intendeva con
questo gioco o movimento di parole o di virgole. Mi disse che, se la virgola si
sposta dal verbo “desiderat” all’aggettivo “bonum”, la frase diventa:
“…si quis episcopatum desiderat bonum, opus desiderat…”, che si
può tradurre come: “… se qualcuno desidera un episcopato buono, desidera “un
impegno, un lavoro, un’opera… (opus)”, cioè “fare bene il vescovo” è un
peso, un lavoro, un impegno non da poco. E il caro vescovo Francesco concludeva
la sua chiamata telefonica di augurio dicendomi: “…quindi, desiderare un
buon episcopato, di essere un bravo vescovo è un peso, una croce e dovrai darti
da fare…”.
La
chiamata del vescovo Francesco mi è ritornata alla memoria con la lettura del “Commento
al Paradiso dei Padri” di Dadisho Qatraya, che mi ha portato ad imbattermi
-uso questo termine perché è un tema che non mi sarei mai aspettato di trovare-,
in una domanda e risposta tra i discepoli e Dadisho che porta al tema del
sacerdozio e più concretamente dell’episcopato, e alle sue difficoltà, al peso che
suppone il ministero di “vegliare sul gregge”, e quindi alla tentazione, reale
e non letteraria, di fuggire sia prima sia dopo l’accettazione di questo giogo,
di questo peso, di questo opus. Si tratta di un testo che ha
un’attualità direi unica e per questo mi permetto di trascriverne la traduzione
e condividerlo. Come indicavo in un mio commento precedente sullo stesso Padre
della Chiesa siro orientale, anche questo testo lo troviamo nell’opera “Commento
al Paradiso dei Padri” di Dadisho Qatraya, monaco siro orientale vissuto
nella seconda metà del VII secolo nel Beth Qatraya, regione costiera ad ovest
del Golfo Persico, zona molto importante per la fioritura di monasteri, di figure
e testi monastici di tradizione siriaca. Semplicemente trascrivo la traduzione
del testo, fatta dall’originale siriaco e alla fine ne sottolineo qualche
aspetto che ritengo sia importante ed anche molto attuale. Si tratta della
risposta che Dadisho dà ai suoi discepoli monaci su diverse questioni sia
ecclesiali, sia spirituali.
Dadisho
Qatraya, Commento al Paradiso dei Padri I,32.
Domanda
dei fratelli. Il beato (apostolo) Paolo afferma: “Colui che
desidera l’episcopato, desidera una opera buona” (1Tim 3,1), e il beato
Interprete (Teodoro di Mopsuestia), nel suo “Libro sul sacerdozio”, dà un avvertimento
al suo amico Ciriaco per convincerlo di rimanere nell’ordine episcopale che
aveva ricevuto. Come mai allora il santo uomo Paolo, vescovo della città di
Qentos in Italia e che fu collaboratore di Giovanni di Edessa, dopo quindici
giorni sul trono episcopale si accorse della moltitudine di distrazioni e
chiese a Dio di poter dimettersi dal suo ufficio, e Dio glielo permise per
mezzo di una rivelazione?
Risposta
di Dadisho. 1 Non c’è niente di più amato e prezioso
davanti a Dio della giustizia dei giusti. Essa è la causa di tutte le cose
buone che accadono sulla terra. Cioè, voglio dire il sacerdozio e tutti gli
altri doni che in cielo vengono dispensati dal grande Sacerdote della nostra
confessione di fede, nostro Signore Gesù Cristo. Infatti, san Paolo si
accorgeva che molti, mancati di saggezza e di una buona condotta, desideravano
di essere messi a capo (desideravano la preeminenza, il presiedere), a causa
della loro vanagloria, mentre che molti altri che avevano acquistato la
conoscenza con una condotta nobile, fuggivano l’essere messi a capo (la
preeminenza, il presiedere) a causa della loro umiltà. Siccome questi fatti
mettono inciampi all’insegnamento e alla pratica della fede cristiana, afferma:
“Colui che desidera l’episcopato, desidera una opera buona”, e con questo vuole
dire: “Io non metto impedimenti né spingo a ciò (all’episcopato). Infatti, se
io spingessi, tanti andrebbero di corsa verso il sacerdozio, anche gli stupidi
e i malvagi; ma, se io mettessi impedimenti, nessun saggio neppure virtuoso si
avvicinerebbe (all’episcopato)”.
2 E allora?
Colui che vuole essere vescovo, o sacerdote, o superiore o guida (di una
comunità), non deve guardare all’onore che viene dal sacerdozio e non deve
desiderarlo per ragioni di onore o di potere. Deve guardare invece all’opera
(lavoro, sforzo, opus…) del sacerdozio, cioè i duri e molteplici sforzi
(lavori) che sono ad esso collegati. Ha la saggezza naturale e si istruisce nei
libri Santi? È saldo nella fede e si impegna a mantenere la disciplina della
sua vita? In più acquista anche delle virtù che vanno oltre a quelle comuni,
cioè la bontà, la dolcezza, la serenità, l’umiltà, la misericordia, il perdono,
il discernimento e la comprensione? È stato scelto dalla grazia divina per i
lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio e che servono la volontà dello
spirito del sacerdozio, e non a causa delle passioni e per l’intervento di
adulatori? Che quest’uomo ne sia convinto, e vedrà che è un’opera bella.
3 Il beato
Interprete (Teodoro di Mopsuestia) diede un consiglio al suo amico Ciriaco per
convincerlo a rimanere fedele all’ordine sacerdotale e (diede) cinque ragioni.
Primo, perché l’aveva ricevuto da molto tempo. Secondo, perché era stato scelto
da tanti uomini timorosi di Dio. Terzo, a causa della sua saggezza e
conoscenza. Quarto, a causa della sua vita nella virtù. Quinto, a causa della
sua grande umiltà. Infatti, questa lo costringeva a rifiutare l’ordine non
soltanto all’inizio della sua elezione, ma anche dopo che era stato costretto
(ad accettare) per la forza, continuava a rifiutare con ardore.
4. Il beato
Paolo fu un uomo giusto e virtuoso, era umile e disprezzava sé stesso. Amava il
silenzio e la solitudine. Per questa ragione, né le distrazioni che venivano
dell’essere messo a capo, né i molteplici impegni, non gli giovavano. Quindi,
quando tantissime persone lo costrinsero (ad accettare) il sacerdozio, dopo
quindici giorni con lacrime e tanta sofferenza chiese al Signore di accettare
le sue dimissioni, per poterlo servire in un modo di cui fosse capace e gli
fosse di profitto, cioè un lavoro come manovale all’estero, nel disprezzo e
l’umiliazione. Nella sua bontà, il Signore, vedendo la sua umiltà, accettò e lo
fece per due ragioni: in primo luogo perché per lo stesso Paolo sarebbe stato profittoso;
in secondo luogo, per evitare che tanti stolti desiderassero accedere al primo
posto e quindi (evitare) le lotte che ne verrebbero fuori.
Annotazioni
al testo.
1.
Nel VII e nel XXI secolo, accettare l’episcopato, essere vescovo è una
croce che il Signore dà ad alcuni, dandoci anche, ne siamo certi, per Sua
misericordia e per Sua grazia, la forza per portarla. Quel “episcopatum
bonum” sorto dallo spostamento della virgola nel testo paolino, sarà sempre
Lui, il Signore, che è il primo ed unico grande επίσκοπος della sua Chiesa, che ci darà di portarlo a
termine malgrado le nostre debolezze, le nostre imperfezioni, sempre guarite e
redente dalla Sua Divina Grazia. Come non ricordare qua il testo di una delle
più arcaiche preghiere di ordinazione in Oriente: “La Divina
Grazia che sempre guarisce ciò che è infermo e completa ciò che manca…”.
2.
Tra i Padri della Chiesa,
greci, latini, siriaci…, abbiamo esempi di figure che cercano di sfuggire o
addirittura fuggono l’ordinazione sia presbiterale sia episcopale. Addirittura,
abbiamo qualche esempio di “fuga, rifiuto, rinuncia…” avvenuta anche dopo
l’ordinazione. Il grande Isacco di Ninive (autore siriaco del VII secolo),
consacrato vescovo di Ninive, dopo cinque mesi di episcopato “per una
ragione che soltanto Dio conosce” -come afferma un suo biografo-, si ritirò
in un monastero dove si applicò allo studio della Sacra Scrittura e alla vita
solitaria. Quindi le risposte del nostro autore siriaco del VII hanno una
grande validità ed attualità, e se volete potete aggiungere quel “nihil
novum sub sole” per quanto ci tocca di vivere anche nei nostri giorni,
nella vita della Chiesa, quando leggiamo di confratelli che poco prima o poco
dopo l’ordinazione hanno rassegnato le loro dimissioni.
3.
La domanda fatta dai discepoli
a Dadisho nel nostro testo, parte dal confronto tra due affermazioni
autorevoli: da una parte san Paolo e Teodoro di Mopsuestia, che confermano
l’importanza e la bellezza del ministero episcopale ed incoraggiano ad
accettare e a perseverare chi vi si trova o chi vi sia chiamato, e dall’altra
parte il caso del vescovo Paolo a cui Dio concede di dimettersi dal ministero
episcopale dopo quindici giorni dal suo inizio.
4.
La risposta di Dadisho la
vediamo divisa in quattro punti. In primo luogo, il sacerdozio,
l’episcopato è un dono che viene dato da Cristo stesso, e che paradossalmente
può essere cercato o desiderato per vanagloria, oppure rifiutato per umiltà. E
l’autore aggiunge in modo molto perspicace il suo commento al testo paolino di
1Tim 3. Per Dadisho l’episcopato è “…una opera buona”, e con questa
affermazione né spinge alla sua ricerca, né mette impedimenti ad esso: “Io
non metto impedimenti né spingo a ciò… Infatti, se io spingessi, tanti
andrebbero di corsa verso il sacerdozio, anche gli stupidi e i malvagi; ma, se
io mettessi impedimenti, nessun saggio neppure virtuoso si avvicinerebbe”. In
secondo luogo, Dadisho descrive le virtù necessarie al vescovo e che gli
permettono di portare a termine questa opera, questo peso: deve essere sapiente,
istruito nei Libri Santi, saldo nella fede, ed avere quelle virtù che “vanno
oltre a quelle più communi”: bontà, dolcezza, serenità, umiltà, misericordia,
perdono, discernimento, comprensione. Ed infine sottolinea che la scelta viene
da parte del Signore –“…dalla grazia Divina…”-, e attraverso le
mediazioni umane: “…È stato scelto dalla grazia divina per i lavori
dell’episcopato da uomini che temono Dio…. Che quest’uomo ne sia convinto e
vedrà che è un’opera bella” (la parola siriaca potrebbe essere tradotta anche
come “splendente”). In terzo luogo, Dadisho riporta i consigli dati da
un uomo saggio ad un vescovo che era tentato di lasciare, di dimettersi dal suo
ministero, spingendolo alla perseveranza: “Primo, perché l’aveva ricevuto da
molto tempo. Secondo, perché era stato scelto da tanti uomini timorosi di Dio.
Terzo, a causa della sua saggezza e conoscenza. Quarto, a causa della sua vita
nella virtù. Quinto, a causa della sua grande umiltà”. Tra queste cinque
ragioni, mi piace sottolineare la seconda, cioè il ruolo della Chiesa (e qua si
può pensare al ruolo del sinodo) nella scelta del vescovo: “…perché era
stato scelto da tanti uomini timorosi di Dio” In quarto luogo, Dadisho
torna a parlare del vescovo Paolo, a chi il Signore accetta le dimissioni dal
ministero episcopale, affinché siano un esempio per tanti, cioè da una parte la
vita santa nella virtù dello stesso Paolo, e dall’altra l’esempio che ne viene
fuori per tanti: “Quindi, quando tantissime persone lo costrinsero (ad
accettare) il sacerdozio, dopo quindici giorni con lacrime e tanta sofferenza
chiese al Signore di accettare le sue dimissioni… Nella sua bontà, il Signore,
vedendo la sua umiltà, accettò e lo fece per due ragioni: in primo luogo perché
lo stesso Paolo ne avrebbe tratto profitto; in secondo luogo, per evitare che
tanti stolti desiderassero accedere al primo posto e quindi (evitare) le lotte
che ne verrebbero fuori”.
5.
Nel VII secolo, come nel
XXI secolo, di fronte al peso, alla responsabilità, all’opus che è
l’episcopato -un opus che ci confronta tante volte con la propria
solitudine nel ministero che ci viene affidato-, ed anche di fronte alla
propria fragilità, alla propria umanità direi, la tentazione del rifiuto, del
dire di no prima o dopo l’ordinazione episcopale, è molto reale e fino ai
nostri giorni è una notizia che continua a sorprenderci, a colpirci, e a
chiedercene il perché. Non ho la pretesa di avere delle soluzioni o dei rimedi,
semplicemente rimando a qualcosa che dovrebbe farci riflettere, cioè, avere
sempre presente l’umanità del sacerdote -vescovo, prete o diacono che sia-,
quell’umanità assunta e redenta dal Signore nella sua incarnazione e che rimarrà
povera, fragile, sola fino alla sua e nostra croce.
6.
L’episcopato come una
croce, un giogo, un peso, quell’opus paolino. Durante le sedute del
Sinodo dei vescovi del 2023, ascoltando gli interventi di tanti e tanti membri
di quell’assemblea ecclesiale, uomini e donne da tante parti e Chiese del
mondo, percepivo in me un sentimento contrastante e riconosco non privo di
tensione, di perplessità: da una parte la ricchezza che poteva supporre
l’ascoltare la loro esperienza, i loro suggerimenti; dall’altra parte sentire
molto viva la consapevolezza, la certezza che alla fine delle sedute, saremo
noi ed unicamente noi i vescovi, i veri padri sinodali, che tornando nelle
nostre diocesi, tornando in prima fila, riprenderemo la croce, il giogo, l’opus
che è il “vegliare sul gregge”.
7.
La virgola del testo
paolino di 1 Tim 3 di cui parlavo all’inizio, messa prima o messa dopo l’uno o
l’altro dei termini non cambia che l’episcopato sia un “opus”, e qua
sfruttiamo i significati, i sinonimi del termine: un’opera, un peso, un giogo,
una croce…, che portiamo con la nostra umanità debole, fragile, tante volte sola…;
amata però, e rafforzata, guarita, redenta da quella “Grazia Divina” che ci
regge e che ci salva. E concludo con Dadisho: “È stato scelto dalla grazia
divina per i lavori dell’episcopato da uomini che temono Dio…. Che quest’uomo
ne sia convinto e vedrà che è un’opera bella”.
+P.
Manuel Nin
Esarca
Apostolico