venerdì 22 maggio 2015

L’invocazione dello Spirito Santo nella tradizione siro occidentale.
Infuocati dallo Spirito
       La tradizione liturgica della Chiesa siro occidentale, chiamata anche Chiesa siro antiochena, possiede un’abbondante patrimonio di testi di anafore eucaristiche, una settantina nell’insieme, di cui una ventina soltanto edite finora. Testi di attribuzione e paternità molto varia: san Giacomo primo vescovo di Gerusalemme, san Marco, san Giovanni Evangelista, Dodici Apostoli, Gregorio di Nazianzo, Severo di Antiochia, Dioscoro, Giacomo di Sarug, cioè nomi di apostoli, e di santi padri legati molti di essi alla tradizione cristologica di questa Chiesa. Ci soffermiamo in modo particolare nell’epiclesi che si trova in alcune di queste anafore, cioè la preghiera di invocazione dello Spirito Santo sul pane e sul vino affinché diventino il Corpo ed il Sangue di Cristo. In tutti i testi anaforici è sempre lo Spirito Santo colui che è invocato per la consacrazione del pane e del vino, allo stesso modo che è Lui che santifica e consacra l’acqua battesimale e l’olio santo. Filosseno di Mabbug, vescovo siriaco nel VI secolo, dirà che: “I misteri appaiono agli occhi degli uomini come semplici cose, ma per l’irruzione dello Spirito Santo ricevono una forza soprannaturale; l’acqua, da una parte, diventa grembo materno che genera dei figli alla vita dello Spirito. L’olio riceve la forza santificatrice che unge e consacra allo stesso tempo corpo ed anima; il pane ed il vino diventano il Corpo ed il Sangue del Figlio di Dio fatto uomo”. Il tema dell’acqua come grembo e il battesimo come nascita è un aspetto molto tipico della teologia siriaca; inoltre ci troviamo di fronte ad una forza e ad una presenza misteriosa che agisce ed opera nell’eucaris­tia; si tratta di una trasformazione e di una presenza divina dello Spirito Santo. Efrem, in una omelia sulla Settimana Santa afferma: “Voi mangerete una Pasqua pura ed immacolata, un pane lievitato e perfetto che lo Spirito Santo ha preparato e ha fatto cuocere, un vino mescolato di fuoco e di Spirito: il Corpo ed il Sangue di Dio, che fu vittima per tutti gli uomini”.
Nelle anafore il sacerdote, dopo la narrazione dell’istituzione dell’eucaristia, invoca lo Spirito Santo sui doni e sulla comunità ecclesiale: “Anco­ra ti chiediamo, Signore di tutto e Dio delle potenze sante, prostrandoci davanti a te sul nostro volto, di mandare il tuo Spirito Santo su queste offerte qui poste…. E rivela che questo pane è il Corpo prezioso del nostro Signore Gesù Cri­sto… E che questo calice è il Sangue del nostro Signore Gesù Cristo…. Perché questi san­ti sacramenti siano per tutti coloro che ne prenderanno: vita, ri­surrezione, remissione dei peccati, gua­rigione del­l'anima e del corpo, il­lumina­zione dello spirito, giustificazione davan­ti al tre­mendo tribunale del tuo Cristo…” (Dodici Apostoli). Nell’anafora di san Giacomo troviamo ben presente tutta la teologia dello Spirito Santo sviluppatasi nella seconda metà del IV secolo, in tre aspetti ben concreti, cioè in quello che lo Spirito Santo è: “il tuo Santissimo Spirito, che è Signore e dà la vita, assiso sul trono insieme con te, Dio e Padre, e con l’unigenito Figlio tuo, che regna con te, della stessa sostanza, coeterno, che ha parlato nella legge, nei profeti e nel Nuovo Testamento...”. Poi in quello che lo Spirito fa, cioè la santificazione dei doni: “Affinché per la sua venuta faccia di questo pane il Corpo di Cristo... E di quello che è mescolato in questo calice il Sangue di Cristo...”. Quindi in quello che i Santi Doni diventano per i fedeli e per la Chiesa: “Affinché questi misteri diano a coloro che li ricevono e ne partecipano, santità dell’anima e del corpo, e producano in essi frutti di buone opere, raffermino la tua santa Chiesa, che tu hai fondato sulla roccia della fede, e contro di essa le porte degli inferi non prevarranno, preservandola da ogni eresia e degli scandali di coloro che trasgredisco­no la fede…”. Quindi da sottolineare la dimensione ecclesiologica della teologia dello Spirito Santo nelle anafore siriache: la santificazione adoperata dallo Spirito sui Santi Doni è in vista alla santificazione dei fedeli, alla purificazione delle loro mancanze e al perdono dei loro peccati. Inoltre nell’anafora attribuita a san Giovanni Evangelista, troviamo una triplice epiclesi, sul sacerdote, sui doni e sui fedeli: “Signore, pieno di bontà e di misericordia, abbi pietà di me e manda su di me e su queste offerte il tuo Spirito vivente, santo e vivificante… Che lui discenda su questi misteri e li santifichi, affinché una volta sceso faccia di questo pane il Corpo di Cristo nostro Dio, e di questo calice il sangue dello stesso Cristo nostro Dio. Affinché questi misteri purifichino i cuori di coloro che ne parteciperanno, rendano spirituali i loro pensieri e santifichino le loro anime…”. Riprendendo l’immagine dello Spirito Santo adoperata nel testo sopra citato di sant’Efrem, Lui è il fuoco nascosto che avvolge il sacerdote che adopera il sacrificio; il fuoco che sorvola l’altare e che discende sui doni all’epiclesi.
Lo Spirito Santo quindi come fuoco, ed i suoi effetti. Gli autori siriaci parleranno del calore, della lievitazione, della cottura, dell’incandescenza..., applicate allo Spirito Santo, come simboli di realtà spirituali. Parlando dello Spirito Santo come fuoco, vogliono sottolineare l’opera divina dello Spirito Santo per mezzo dei Santi Doni: diventati infuocati nello Spirito Santo, per mezzo di essi i fedeli sono vivificati e ricevono i doni dell’immortalità.

          All’invocazione del sacerdote, quindi, lo Spirito Santo, donatore di vita, scende sulle offerte collocate sull’altare e che rappresentano Cristo messo nella tomba. In qualche modo si può dire che il sacerdote invoca lo Spirito Santo affinché renda presente la risurrezione di Cristo sull’altare; cioè dia al Corpo di Cristo messo nella tomba l’immortalità, l’incorruttibilità e lo faccia diventare, come abbiamo letto nell’epiclesi dell’anafora di san Giacomo: “Corpo datore di vita, Corpo che dà la salvezza alle nostre anime e ai nostri corpi, Corpo del Signore, Dio grande e Salvatore nostro Gesù Cristo”.


martedì 12 maggio 2015

L’Ascensione del Signore nell'ufficiatura bizantina
Sulle spalle del buon Pastore
          L’Ascensione del Signore, celebrata il quarantesimo giorno dopo la Risurrezione del Signore è una delle grandi feste dell’anno liturgico. Egeria nella seconda metà del IV secolo parla di una celebrazione il quarantesimo giorno dopo Pasqua ma che si fa a Betlemme e non sul monte degli ulivi da dove il Signore ascende in cielo; quasi ad evidenziare mettendole in parallelo la nascita del Verbo di Dio incarnato e la sua glorificazione in cielo. Uno dei tropari dell’ufficiatura bizantina per questa festa recita: “Prendendoti sulle spalle, o Cristo, la natura che si era smarrita, sei asceso al cielo e l’hai presentata a Dio Padre”. Tutta la liturgia dell’Ascensione nella tradizione bizantina si muove attorno a questi due punti fondamentali: l’incarnazione del Verbo di Dio, la sua kenosi, il suo farsi piccolo, uno di noi; e quasi in parallelo la sua Ascensione alla destra del Padre che ha come conseguenza la glorificazione della natura caduta dell’uomo, di Adamo e di tutto il genere umano glorificato col Figlio alla destra del Padre.
     I tropari dell’ufficiatura del vespro, già dall'inizio, mettono in luce i diversi aspetti che verranno sottolineati lungo la liturgia della festa. In primo luogo l’Ascensione di Cristo collegata con il dono dello Spirito Santo: “Il Signore è asceso ai cieli per mandare il Paraclito nel mondoSignore, quando gli apostoli ti videro sollevarti sulle nubi, tra i lamenti dicevano: O Sovrano, non lasciare orfani i tuoi servimandaci, come hai promesso, lo Spirito santissimo”. In secondo luogo la gioia delle schiere celesti (gli angeli) e delle schiere degli uomini (gli apostoli) per l’Ascensione di Cristo nella carne: “Signore, alla tua ascensione restarono attoniti i cherubini, vedendo venire sulle nubi te, Dio, che siedi su di loro… Contemplando la tua esaltazione sui monti santi, o Cristo, noi cantiamo la luminosa figura del tuo volto…, glorificando la tua gloriosa ascensione”. Infine la confessione della vera incarnazione del Verbo di Dio e quindi la piena redenzione del genere umano: “Il Signore è asceso ai cieli, che hanno preparato il suo trono, le nubi il carro su cui salire; stupiscono gli angeli vedendo un uomo al di sopra di loro. Il Padre riceve colui che dall'eternità, nel suo seno dimora… Signore, compiuto il mistero della tua economia… te ne sei andato oltre il firmamento del cielo. O tu che per me come me ti sei fatto povero, e sei asceso là, da dove mai ti eri allontanato…”. E ancora quasi a ribadire la doppia natura del Verbo incarnato, troviamo in un altro dei testi: “Tu che, senza separarti dal seno paterno, o dolcissimo Gesù, hai vissuto sulla terra come uomo, oggi dal Monte degli Ulivi sei asceso nella gloria: e risollevando, compassionevole, la nostra natura caduta, l’hai fatta sedere con te accanto al Padre”. Diversi dei tropari sottolineano questa piena glorificazione della natura umana assunta da Cristo, alla destra del Padre.
         Due altri dei tropari del vespro hanno un particolare interesse da sottolineare: “Sei stato partorito, come tu hai voluto; ti sei manifestato, come avevi stabilito; hai patito nella carne, o Dio nostro; sei risorto dai morti e hai calpestato la morte; sei asceso nella gloria, tu che tutto riempi, e ci hai mandato lo Spirito divino affinché celebriamo e glorifichiamo la tua divinità”. Si tratta proprio di una confessione di fede, quasi una formula di un simbolo che riassume tutta la professione di fede cristiana: il Verbo di Dio che si incarna, nasce, patisce, muore e risorge; quindi ascende in cielo e manda il dono dello Spirito Santo. Il secondo tropario recita: “Mentre tu ascendevi, o Cristo, dal Monte degli Ulivi, le schiere celesti che ti vedevano, si gridavano l’un l’altra: Chi è costui? E rispondevano: È il forte, il potente, il potente in battaglia; costui è veramente il Re della gloria. Ma perché sono rossi i suoi vestiti? Viene da Bosor, cioè dalla carne. E tu, dopo esserti assiso in quanto Dio alla destra della Maestà, ci hai inviato lo Spirito santo per guidare e salvare le anime nostre”. Troviamo messo ben in in evidenza, come accennavamo all'inizio, il rapporto stretto tra l’abbassamento, l’incarnazione del Verbo di Dio, e la sua glorificazione, la sua Ascensione ai cieli. E un rapporto che viene fatto a patire della lettura, quasi teatrale, di due testi biblici che troviamo spesso adoperati nella liturgia, cioè il salmo 23 e Is 63.
         I due temi dominanti di tutta la festa, cioè la redenzione e il dono dello Spirito Santo gli ritroviamo ancora in altri momenti dell’ufficiatura: “È asceso Dio tra le acclamazioni, il Signore, al suono della tromba, per risollevare l’immagine caduta di Adamo e inviare lo Spirito Paraclito a santificazione delle anime nostre”. La vera incarnazione del Verbo di Dio, la sua natura umana che ha sofferto, è morta ed è risorta, viene oggi glorificata alla destra del Padre: “Al Cristo che ascende glorioso sulle spalle dei cherubini, e con lui fa sedere anche noi alla destra del Padre, cantiamo, popoli tutti, un canto di vittoria, perché si è reso glorioso”.
         L’Ascensione del Signore non è una sua separazione, un suo allontanarsi da noi. Nella sua carne glorificata noi saliamo già in cielo con lui alla destra del Padre; e grazie al dono dello Spirito Santo lui, il Signore, rimane accanto a noi, non lontano da noi: “Compiuta l’economia a nostro favore, e congiunte a quelle celesti le realtà terrestri, sei asceso nella gloria, o Cristo Dio nostro, senza tuttavia separarti in alcun modo da quelli che ti amano; ma rimanendo inseparabile da loro, dichiari: Io sono con voi, e nessuno è contro di voi”.

         Questo aspetto della redenzione della natura umana lo troviamo in modo speciale nell'ufficiatura del mattutino della festa, con delle immagini poetiche e teologicamente molto belle e profonde: “O tu che sei asceso su una nube luminosa e hai salvato il mondo, benedetto tu sei, o Dio, Dio dei padri nostri. Prendendoti sulle spalle, o Cristo, la natura che si era smarrita, sei asceso al cielo e l’hai presentata a Dio Padre. O tu che sei asceso con la carne al Padre incorporeo, benedetto tu sei, o Dio, Dio dei padri nostri. Sollevando la nostra natura, messa a morte dal peccato, tu l’hai portata, o Salvatore, al Padre tuo”. E ancora in altri tropari troviamo riassunta tutta la teologia della festa: “Visibilmente è stata innalzata fino all'alto dei cieli la magnificenza di colui che si è fatto povero nella carne, e la nostra natura decaduta ha l’onore di assidersi accanto al Padre. Celebriamo una festa solenne, tutti concordi esplodiamo in acclamazioni, e gioiosi battiamo le mani.”



sabato 9 maggio 2015

        Permeati da Cristo nella celebrazione dei Santi Misteri.
A proposito della lettera apostolica Orientale Lumen  a vent’anni dalla sua pubblicazione.

Il 2 maggio 1995, ricorrenza festiva di sant’Atanasio il Grande, patriarca di Alessandria, papa san Giovanni Paolo II segnava la lettera apostolica Orientale Lumen (OL) per la ricorrenza centenaria di un’altra lettera apostolica, l’Orientalium Dignitas di papa Leone XIII. A vent’anni di distanza, vorrei accennare ad alcuni aspetti importanti di OL, soprattutto nella sua prima parte. Nell'introduzione il papa accenna ai motivi della lettera: il centenario dell'Orientalium Dignitas di Leone XIII; la constatazione dei passi fatti in questi cento anni, passi verso la conoscenza e l'incontro tra Oriente ed Occidente. OL mete in evidenza come a partire dalla Pentecoste avvenuta a Gerusalemme, “madre di tutte le Chiese” –ed è questa un’espressione è importante in bocca al vescovo di Roma-, tutte le Chiese cristiane, nella loro autenticità e pluriformità, ritrovano la forza dello Spirito per la ricerca costante dell'armonia tra di esse. OL insiste nel fatto della necessità della piena comunione tra i cristiani che nasce dalla loro chiamata a predicare Cristo agli uomini: “Le Chiese di Oriente e di Occidente sono chiamate a concentrarsi sull'essenziale, cioè il cedere il passo al ravvicinamento e alla concordia…”.

Nella prima parte del testo, il papa sottolinea la necessità da parte dell’Occidente di conoscere l'Oriente cristiano, conoscerne la sua esperienza di fede, il mistero della sua vita in Cristo. Ed accenna alla diversità e complementarità tra Oriente ed Occidente, in tanto che hanno indagato la stessa verità rivelata, lo stesso mistero a partire da metodi e prospettive diverse. Da parte dell'Occidente bisogna ascoltare le Chiese dell'Oriente, bisogna avvicinarsi a queste Chiese, alla loro tradizione; Oriente ed Occidente sono un mosaico opera della mano del Creatore. Il papa fa notare come l'Oriente mette in evidenza la partecipa­zione del cristiano alla natura divina mediante la comunione al mistero della Santa Trinità. Questa comunione si realizza attraverso la liturgia, specialmente l'eucaristia. Ed in questo cammino di divinizzazione, OL propone il modello dei martiri, dei santi e della Madre di Dio: ”In questo cammino di divinizzazione ci precedono coloro che la grazia e l'impegno nel cammino del bene ha reso "somigliatissimi" a Cristo: i martiri e i santi. E tra questi un posto tutto particolare occupa la Vergine Maria, dalla quale è germogliato il virgulto di Jesse. La sua figura è non solo la Madre che ci attende, ma anche icona della Chiesa, simbolo e anticipo dell'umanità trasfigurata dalla grazia”.

OL poi dedica tutto un paragrafo alla trattazione del tema della Tradizione: l’importanza del rapporto tra presente, passato e futuro. L'Oriente offreun forte senso di continuità, dalla tradizione all'attesa escatologica. La tradizione come patrimonio della Chiesa di Cristo, memoria viva del Risorto incontrato e testimoniato dagli apostoli che hanno trasmesso il ricordo vivente ai loro successori, in linea ininterrotta che è garantita dalla successione apostolica, attraverso l'imposizione delle mani, fino ai vescovi di oggi. Tradizione ancora vista da OL come memoria del Risorto, che mantiene la Chiesa vegliante nella memoria di Cristo Sposo; la Tradizione quindi è la memoria viva della Sposa conservata eternamente giovane dall'Amore che la inabita. E OL insiste nell'in­serirsi nella Tradizione della Chiesa in quanto memoria, e nel mostrare agli uomini la bellezza di questa memoria -di questa Tradizione-, la forza che viene dallo Spirito che ci fa testimo­ni, figli di testimoni, cioè radicati in una schiera di martiri, di santi, che ci hanno preceduto e con cui siamo, in questa memoria, legati.

Per ben otto paragrafi OL tratta il tema del monachesimo, oppure se si vuole contempla la vita monastica come tipo e modello della vita cristiana. Sottolinea la centralità del monachesimo in Oriente, sicché diventa punto di riferimento per tutti i cristiani. E qui troviamo uno dei paragrafi centrali del documento che giustifica appunto la trattazione della vita monastica in OL: “I forti tratti comuni che uniscono l'esperienza monastica d'Oriente e d'Occidente fanno di essa un mirabile ponte di fraternità, dove l'unità vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel dialogo fra le Chiese”. E OL mette in evidenza tre aspetti fondamentali del monachesi­mo cristiano: esso è luogo della lode di Dio, luogo della carità, e luogo della ricerca di Dio. Tre aspetti proprio in questa progressione: al monaco viene chiesta per primo la lode, il ringraziamento a Dio, poi la carità verso il fratello, quindi il terzo aspetto, forse quello più importante, che è alla base dei due primi: la ricerca di Dio. La vita del monaco quindi presentata come centrata tra due poli: l'ascolto della Parola di Dio -qui il termine "ascolto" va al di là della semplice audizione e diventa una assimilazione del monaco alla parola-, e l'eucaristia. La Parola è nutrimento della vita del monaco, la Parola lo configura a Cristo, perché la Parola è Cristo. Questo ascol­to/assimilazione della Parola avviene specialmente nella liturgia, attraverso i testi biblici ed innografici che sono una parafrasi del testo sacro. L'eucaristia è l'altro asse della vita del monaco, eucaristia come luogo dove la Parola si fa carne, luogo della piena configurazione con Cristo -la partecipazione ai santi misteri ci fa consanguinei di Cristo-, luogo anche escatologico in quanto anticipa l'appartenenza alla Gerusalemme celeste. Come conseguenza, in questo paragrafo la vita monastica viene presentata come la vita cristiana nella sua pienezza liturgica: un'unica dimensione celebrativa, dall'ascolto della Parola, alla comunione coi santi misteri. La liturgia quindi vista come luogo della piena divinizzazione dell'uomo e del creato. Nella liturgia, dunque, il creato trova il suo senso pieno, il creato viene permeato da Cristo e proprio allora ne sgorga la sacramentalità della Chiesa. In questo punto, quindi, il documento integra un aspetto essenziale della liturgia, sia quella delle Chiese di Oriente che quella delle Chiese di Occidente, cioè la sua dimensione di bellezza: “In questo quadro la preghiera liturgica in Oriente mostra una grande attitudine a coinvolgere la persona umana nella sua totalità: il mistero è cantato nella sublimità dei suoi contenuti, ma anche nel calore dei sentimenti che suscita nel cuore dell'anima salvata. Nell'azione sacra anche la corporeità è convocata alla lode, e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi più cari per esprimere la divina armonia e il modello dell'umanità trasfigurata, si mostra ovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei colori, nelle luci, nei profumi...”.

Un ultimo aspetto della prima parte di OL che vorrei mettere in evidenza è il sottolineare come questa configurazione con Cristo avviene attraverso un processo di conversione a partire da un triplice dono di Dio: il dono delle lacrime, il silenzio ed il distacco dall'orgoglio: “…nella coscienza del proprio peccato e della lontananza dal Signore, che si fa compunzione del cuore, simbolo del proprio battesimo nell'acqua salutare delle lacrime; nel silenzio e nella quiete interiore…”. OL mette in luce ancora un aspetto centrale per la conoscenza dell’Oriente cristiano, cioè il fatto che esso ha mantenuto sempre l'unità tra la spiritualità e la teologia. Quest'unità viene sottolineata particolarmente nel monachesimo in tanto che vita teologica, cioè l'appartenenza alla propria vita delle verità della fede; quest'unità si realizza per mezzo della configurazione a Cristo. Unità tra teologia e spiritualità che sbocca anche in un'antropologia molto positiva, legata al mistero dell'incarnazione. E in questo contesto OL sottolinea ancora il luogo del silenzio come via per percepire il mistero di Dio. Questo silenzio è necessario come via per la teologia, per la preghiera, per la predicazione, per l'impegno nel mondo, per l'uomo cioè per ascoltare l'altro.

Abbiamo messo in evidenza alcuni aspetti soltanto della prima parte della lettera OL. Un testo che vent’anni fa, e anche oggi continua a far vedere come “le parole dell'Occidente hanno bisogno delle parole dell'O­riente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze”.